Años de soledad – Anni di solitudine
Il primo albero della libertà sorse a Parigi nel 1790, probabilmente come reminiscenza dell’albero della vita che qualche migliaio di anni prima dell’era cristiana era riverito in Cina, in Persia, nel nord d’Europa …
L’albero della libertà ebbe un ruolo centrale nelle manifestazioni di giubilo che salutarono l’abbattimento della monarchia di luglio riaccendendo le speranze di nascita di un nuovo ordine che imprimesse fortemente un segno egualitario e popolare.
Il 10 agosto 1792 i parigini, guidati dai giacobini, insorsero per la seconda volta in pochi mesi, invasero le Tuileries e il 22 settembre 1792 proclamarono la Repubblica.
L’albero della libertà era incoronato da un berretto rosso. Man mano, il berretto frigio diventò una bandiera, altrettanto rossa.
Sotto l’albero, i sanculotti cantavano: “Madame Veto aveva promesso di far sgozzare tutta Parigi. Ma le è andata male, grazie ai nostri artiglieri” (La Carmignola”, 1792).
Madame Veto era Maria Antonietta. I sanculotti erano tali perché non portavano i culottes, scomodi braghettoni al ginocchio indossati dai nobili francesi. I lavoratori, i nuovi intellettuali e i borghesi portavano invece i pantaloni e, pare, ogni tanto li portasse pure Olympe de Gouges che, nel 1788, aveva pubblicato le “Réflexions sur les hommes nègres” per opporsi alla schiavitù e, nel 1791, la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, esigendo l’uguaglianza politica e sociale tra uomo e donna.
Il 3 novembre 1793 Olympe fu ghigliottinata “perché si era opposta all’esecuzione di Luigi XVI” e, come spiegarono i cronisti dell’epoca, “perché avanzava delle proposte assurde”.
Della schiavitù non si parlò per decenni, la parità uomo-donna è sempre da venire.
Comunque, malgrado tutto con la rivoluzione francese nascevano i diritti umani.
In seguito, la storia ha dimostrato che ogni allargamento dei diritti è stato impensabile fino a quando questi non sono stati definiti e imposti.
E ha dimostrato che lo stesso “diritto ad avere diritti” ha avuto in ogni latitudine e in ogni tempo una radice comune: una dura lotta politica per imporli.
Era la logica di Salvador Allende e del suo governo nel Paese dei pinguini cinquant’anni fa: imporsi in una dura lotta politica per aprire una grande strada alle trasformazioni economiche, politiche e culturali che permettessero di creare una grande potenza della vita.
A eccezione, forse, dei “ferrovieri” – coloro che collocano al centro la “questione delle vie” – era una proposta indubbiamente rivoluzionaria che, non trascurando le “questioni ferroviarie”, le subordinava alla logica del progetto complessivo.
Allende definì questa proposta “una revolución con empanadas y vino tinto”, una rivoluzione con panzerotti e vino rosso, ovvero come un processo capace di assumere in ogni fase le caratteristiche proprie della popolazione, senza inganni né vaselina.
Da questa prospettiva, il socialismo era una trasformazione permanente e senza fine della democrazia, il frutto maturo della partecipazione attiva e determinante dei cileni propiziata dall’uguaglianza di opportunità, di diritti e di doveri.
Ripensandoci oggi, era anche una sorta di nuova riconsegna del fuoco come la descrisse Gabriel García Márquez nel suo discorso di accettazione del premio Nobel per la letteratura: “Non abbiamo avuto un attimo di tregua. Un presidente prometeico nel suo palazzo in fiamme è morto combattendo da solo contro un intero esercito”.
Il paragone era sostanzialmente giusto: Prometeo, “colui che riflette prima”, rubò il fuoco agli dei per consegnarlo al genere umano dando origine alla nostra stessa condizione esistenziale. Ma, senza entrare in terreni – per me impervi – popolati da dei, da qualche millennio Prometeo è anche un simbolo di ribellione e di sfida alle autorità e alle imposizioni, una metafora del pensiero, l’archetipo di un sapere sciolto dai vincoli del mito, della falsificazione e dell’ideologia.
L’11 settembre 1973 sui cileni calò la lunga notte invernale dei diritti e della repressione.
Come accadeva in altri Paesi della regione e come sarebbe accaduto a quasi tutti, invece di un allargamento dei diritti politici abbiamo assistito alla loro eliminazione, abbiamo visto sparare contro ogni resistenza, abbiamo visto sparare contro lo stesso diritto ad avere dei diritti.
La lunga notte sarebbe durata decenni e le sue conseguenze sono ancora presenti.
Strada facendo, le dittature distrussero anche l’economie nazionali in nome di un neoliberismo cieco e implacabile.
Come affermò un ministro pinochetista negli Anni ’70, il Cile era un Paese talmente libero che, per importare un elefante, non fa differenza se vivo o morto, bastava riempire il modulo corrispondente.
E, pur se non è stato specificato dal ministro, per essere sgozzati bastava fare il fotografo, essere un disoccupato disperato, un Juan qualsiasi stanco di avere celebrato il suo ventesimo compleanno senza scarpe, un minatore che dubitava che la silicosi fosse un destino inesorabile, un indigena che pensava di essere un essere umano o una donna che aspirava a essere qualcosa di più di un ornamento.
Forse, ma non ne sono certo, la sola cosa non consegnata agli autocrati è stata il prezzemolo. Probabilmente perché il barbecue californiano non prevede il pebre o il chimichurri, e cioè la salsa a base di prezzemolo, coriandolo, aglio e peperoncino che accompagna normalmente la carne nel cono sud latinoamericano.
Cinquant’anni dopo, assistiamo alle balbuzie di una nuova primavera latinoamericana, incerta ed insicura.
La nuova primavera parte ancora una volta dai diritti liberali, e cioè dal diritto alla parola a quello di eleggere ed essere eletto, dal diritto ad avere un lavoro e un tetto a quello di riunirsi e protestare.
Ma non si ferma qui. Tra le balbuzie, compare il diritto a lottare per allargarli, includendo l’uguaglianza di genere, i diritti dei lavoratori, i diritti dei bambini “che nascono per essere felici”, i diritti dei popoli indigeni da cui abbiamo imparato una logica di sopravvivenza che ci conduce dritti ai diritti di quarta generazione, e cioè ai diritti della natura, del fiume, della montagna, degli animali …, proponendo la sola alternativa credibile alla morte, alla guerra, all’impero delle malattie e della solitudine.
Sento così echeggiare il vecchio slogan: “Allende está presente”, corretto e aumentato.
E, va da sé, accrescendo i diritti bisogna sistemare i conti, ovvero fare i conti col sole, l’acqua, il vento, il litio, il rame, lo zinco e il magnesio, risorse presenti in tele abbondanza come per pensare a nuovamente alla possibilità di costruire una potenza della vita di dimensioni continentali.
Glossava García Márquez l’8 dicembre 1982 a Stoccolma: “Ci sentiamo in diritto di credere che non sia troppo tardi per iniziare a creare l’utopia contraria. Una nuova e impetuosa utopia della vita, in cui nessuno possa decidere per gli altri perfino sul modo di morire, dove sia davvero reale l’amore e sia possibile la felicità, e dove le stirpi condannate a cent’anni di solitudine abbiano, finalmente e per sempre, una seconda opportunità sulla Terra”.
Gabo anticipava troppo perché questa è già la storia degli attuali anni dell’incertezza. Anni che, da quelle parti più che altrove, sono anche di speranza, sono gli anni che potrebbero portare all’apertura delle grandi strade da dove passino coloro che hanno ricuperato il senso della vita, donne, uomini, cani e gatti, liberi e uguali.
Ma su questi nuovi alberi della libertà, non essendo più la storia degli anni di solitudine, ci saranno altre occasioni per parlarne.
Chiudo, quindi, con un brano musicale per me necessariamente malinconico.
“Anni di solitudine” è del 1974. Astor Piazzola al bandoneón, Gerry Mulligan al sax: https://www.youtube.com/watch?v=4GwK7jKW5B4&ab_channel=SallesEdu
Rodrigo Andrea Rivas