Che succede in Ecuador?
a cura di Nello Gradirà
In America Latina tutte le elezioni sono importanti, in quanto ogni spostamento di equilibri tra la sinistra progressista, i movimenti popolari e la destra neoliberista legata alle oligarchie e all’imperialismo statunitense è in grado di determinare un cambiamento nella geopolitica dell’intero continente.
In un Ecuador alle prese con una crisi economica terribile, aggravata dalla pandemia, il 7 febbraio scorso si è tenuto il primo turno delle elezioni presidenziali. Si è aggiudicato il primo posto, con il 32,70% dei voti, Andrés Arauz, candidato di Alianza País, cioè la forza politica originariamente progressista fondata da Rafael Correa che governa il Paese andino dal 2007.
Il secondo posto, dopo un interminabile riconteggio dei voti, è stato assegnato a Guillermo Lasso, candidato della destra, seguito a breve distanza da Yaku Pérez, del movimento indigeno Pachakutik (19,74% contro il 19,38%). Inevitabili le accuse di brogli.
Guillermo Lasso sarà quindi l’avversario di Arauz nel ballottaggio in programma l’11 aprile. Banchiere ed ex ministro dell’economia alla fine degli anni ’90, è alla sua terza candidatura. Nel 2013 perse nettamente contro Rafael Correa, mentre nel 2017 al ballottaggio arrivò molto vicino al suo avversario Lenin Moreno, che di Correa era stato il vicepresidente (51,16% contro 48,84% anche in questo caso con accuse di brogli).
Moreno, pur essendo stato eletto per Alianza País, nei suoi quattro anni di presidenza ne ha totalmente capovolto l’orientamento politico, sia dal punto di vista della collocazione internazionale (nel 2018 l’Ecuador è uscito dall’Alba, l’alleanza dei Paesi progressisti del continente), sia sul terreno della politica economica, spostandosi su posizioni neoliberiste. Nell’aprile 2019 Moreno ha revocato l’asilo politico al fondatore di Wikileaks, Julian Assange, episodio a seguito del quale Rafael Correa lo ha definito “il più grande traditore della storia dell’America Latina”.
Peraltro, già durante la presidenza di Correa erano stati accantonati molti capisaldi della “Revolución Ciudadana” da lui promossa, una delle esperienze più promettenti del continente, che aveva visto l’approvazione di una nuova costituzione nella quale si riconoscevano i diritti della Madre Terra rinunciando all’”estrattivismo”, cioè allo sfruttamento indiscriminato delle materie prime e in particolare dei combustibili fossili. Il supporto che i movimenti indigeni avevano dato a Correa si era quindi interrotto da diversi anni.
Contro le politiche di “austerità” di Moreno, nell’ottobre 2019 c’era stata una rivolta popolare duramente repressa, con la dichiarazione dello stato di emergenza e l’arresto dei leader della protesta.
Tra questi si era messo in evidenza anche Yaku Pérez, personaggio di non facile collocazione e politicamente piuttosto ambiguo.
Sul piano internazionale ha attaccato spesso i governi progressisti del continente come quelli di Venezuela e Bolivia (Morales), con dichiarazioni pesanti tra cui l’appoggio al colpo di Stato del 2019 in Bolivia, mentre sul piano interno ha sostenuto di preferire un ex banchiere come Lasso a un “dittatore” come Moreno.
Per questo nelle settimane scorse, quando ancora non era chiaro chi sarebbe stato l’avversario di Arauz al ballottaggio, da parte dello schieramento “bolivariano” si è registrata una vasta produzione di articoli e documenti dove il candidato di Pachakutik veniva indicato tout court come una marionetta dell’imperialismo USA. Se da un lato è comprensibile l’avversione per Pérez, si capisce meno il sostegno incondizionato a una forza politica “mutante” come Alianza País che, anche se sembra tornata al “correismo” delle origini, in passato non ha dato nessun affidamento né sul piano della collocazione internazionale né su quello delle politiche sociali ed economiche. E neanche si può condividere un’interpretazione sempre complottista delle vicende politiche dove ogni movimento non allineato con le proprie posizioni viene automaticamente considerato come “rivoluzione colorata” e i suoi esponenti agenti segreti dell’imperialismo, come accaduto anche nelle vicende nicaraguensi di due anni fa. Ciò è ancor più fuori contesto quando i cosiddetti governi progressisti tradiscono le proprie origini, mettono in atto politiche antipopolari e affondano nella corruzione. Inoltre i movimenti popolari ed indigeni, di fronte alla crisi del progressismo latinoamericano, appaiono in questo momento come la principale forza del cambiamento. Per approfondire le vicende ecuadoriane proponiamo tre nostre traduzioni, entrambe tratte dal portale Rebelión.
Crisi senza precedenti in Ecuador: la sfida per il prossimo presidente
José A. Amesty R.,27/02/2021
Indipendentemente da chi arriverà alla presidenza in Ecuador, Arauz o Lasso, si dovrà affrontare una crisi tremenda, eredità di Lenin Moreno, come la crisi sanitaria prodotta dalla pandemia del coronavirus, che è stata trattata con assoluta inefficacia e corruzione.
Si dovrà anche affrontare la crisi economica più grave che ha avuto il Paese in quarant’anni secondo i dati statistici, gli studi nazionali e i rapporti degli organismi internazionali (aumento della disoccupazione, della sottooccupazione e della povertà); la crisi delle funzioni e istituzioni dello Stato, la cui credibilità, legittimità e organizzazione sono crollate. Crisi di cui parleremo brevemente.
Il punto è che storicamente le élite della destra economica ecuadoriana rappresentano una forza sociale che ha controllato e vuole controllare lo Stato per subordinarlo ai suoi interessi, mediante l’imposizione del modello imprenditoriale-neoliberista, che è stato la tendenza egemonica durante gli ultimi decenni del XX secolo e che è ritornato in auge con il governo di Lenin Moreno (2017-2021).
Lo ripetiamo, Lenin Moreno, nei suoi quasi quattro anni di disgoverno, ha lasciato l’Ecuador in una crisi economico-sociale-sanitaria deplorevole, insieme a una corruzione istituzionalizzata, con elevati indici di povertà e disoccupazione, e un’enorme debito contratto con il Fondo Monetario Internazionale.
Il presidente Lenin Moreno lascerà un governo deteriorato, che nel corso dei suoi quattro anni di mandato si è caratterizzato per essersi trovato di fronte a continue manifestazioni che rivendicavano miglioramenti lavorativi, salariali e sociali, benefici di cui gli ecuadoriani si erano giovati durante i dieci anni di presidenza di Rafael Correa (2007-2017).
La pandemia del coronavirus
Basta citare un dato clamoroso: circa 40mila persone decedute nel 2020 al di sopra della media registrata nei tre anni precedenti, secondo informazioni dello stato civile. Un simile dato, in termini comparativi, colloca l’Ecuador tra i Paesi con maggior eccesso di mortalità nel mondo, soprattutto se si rivedono le cifre in proporzione alla popolazione: più di 2mila morti in eccesso per milione di abitanti (secondo Paese a livello globale dopo il Perù). Parte importante di questa tragedia corrisponde all’inferno che ha vissuto Guayas nei primi mesi de la pandemia e che in alcun modo può rimanere nell’oblio o nell’impunità.
All’enorme mortalità si aggiunge il fatto che lo screening per individuare la popolazione contagiata dal COVID-19 nel Paese è basso: secondo i dati al 30 novembre, in Ecuador sono stati realizzati soltanto 34,3 test del coronavirus ogni mille abitanti, cifra inferiore a diverse nazioni sudamericane come Perù (38), Paraguay (62,5), Argentina (73,8), Colombia (99,4), Uruguay (123,8), Cile (276,6), y appena superiore alla Bolivia (30,7).
E se non fosse sufficiente, la gestione della pandemia da parte del governo ecuadoriano è stata aggravata dall’improvvisazione (per esempio, misure disordinate di confinamento e restrizione della mobilità, gestione per nulla trasparente dell’informazione), corruzione (sovrapprezzi dei beni di consumo sanitari) e carenze infami nel sistema sanitario (denunce di mancato approvvigionamento di anestetici in unità di terapie intensive che assistono pazienti con coronavirus). La situazione è così grave che anche Paesi come gli Stati Uniti hanno raccomandato ai loro cittadini di evitare viaggi in Ecuador per l’alto rischio di contagio.
In generale, la pandemia ha acutizzato in Ecuador una crisi multidimensionale senza precedenti, la cui soluzione non si raggiungerà semplicemente con diagnosi e politiche congiunturali, trappole nelle quali potrà cadere il prossimo presidente dell’Ecuador.
Crisi economica ecuadoriana
Sotto i duri colpi provocati dalla pandemia del Covid-19, i quali si aggiunge la cattiva gestione economica-finanziaria di Moreno e il calo dei prezzi del petrolio, il suo principale prodotto di esportazione, il Paese ha subito nel 2020 un crollo del 9% del Prodotto Interno Lordo (PIL).
Secondo le informazioni della Banca Centrale dell’Ecuador (BCE), si calcola che il Prodotto Interno Lordo (PIL) del Paese sia diminuito dell’8,9% durante il 2020, mentre si stima per il 2021 un recupero del 3,1%. All’interno di queste stime si può notare un crollo economico generalizzato nei diversi rami di attività, con casi drammatici come le attività di trasporto che sarebbero crollate del 21%, o l’affitto di locali e i servizi alimentari con una contrazione del 20,2%.
Nelle previsioni del FMI si stimava che il PIL ecuadoriano fosse sceso dell’11%, anche se a novembre questa previsione è migliorata al 9,5% con la firma della carta di intenti tra il Paese e il Fondo. Nonostante questo miglioramento, il FMI e la CEPAL concordano nel calcolare che l’Ecuador nel 2020 abbia avuto uno dei crolli economici più gravi del Sudamerica (FMI: -9,5%; CEPAL: –9%), superato solo da Venezuela (-25%; -30%), Perú (-13,9%; -12,9%) e Argentina (-11,8%; -10,5%).
E se le previsioni mostrano che il crollo dell’economia ecuadoriana è eccezionalmente grave, una rapida comparazione storica conferma che si vive la peggior crisi economica, combinata con un blocco che dura da vari anni. In realtà, tralasciando l’effetto dell’inflazione, la contrazione del reddito per abitante per il 2020 sarebbe del -10,1%, crollo più drammatico di quello vissuto nel 1999 che era arrivato al -6,8%.
Nel campo dell’occupazione, un mercato del lavoro bloccato da anni, collassato nel 2020, con un salario di base di 400 dollari al mese che non crescerà nel 2021, e pieno di incertezze per la flessibilizzazione del lavoro promossa dal morenismo, ha gravi implicazioni sociali. Se milioni di persone non trovano alternative occupazionali che permettano loro di sopravvivere dignitosamente, finiranno per essere coinvolti in attività sempre più vicine alla criminalità.
Di conseguenza, la violenza si acutizzerà. Basta vedere che, tra gennaio e ottobre 2020, la provincia di Guayas ha registrato 427 morti violente, per un tasso che equivale a 9,73 morti per 100mila abitanti (il tasso di riferimento mondiale è di 5,78), dato che sarebbe in aumento dal 2018.
In termini di consumo, per esempio, ci sono modelli preoccupanti. Secondo informazioni sulle matrici consumo-prodotto diffuse dalla Banca centrale, tra il 2013 e il 2018 si è registrata una riduzione della spesa media mensile per consumi per abitante nel latte e derivati (da 5,98 a 5,37 dollari) e prodotti della macinazione (da 4,78 a 3,60 dollari).
Questi dati dimostrano che, prima della pandemia, già esistevano nel Paese un blocco e una riduzione della domanda delle famiglie in prodotti alimentari. E con la crisi del coronavirus il problema della domanda si è aggravato, come esemplifica il crollo del 34% nelle vendite di latte tra marzo e novembre 2020. Se queste tendenze si mantenessero, è possibile che diversi mali irrisolti da decenni come la denutrizione infantile, si aggravino, come cominciano a suggerire alcune fonti.
In sintesi, nella realtà i problemi sono diversi: crollo nei ritmi dell’estrazione petrolifera (e mancanza di investimenti nel settore); sviluppo degli estrattivismi che lasceranno saccheggio e distruzione ambientale e sociale (per esempio, la mega-industria mineraria); possibilità di una maggior concentrazione dei mercati a beneficio dei grandi gruppi economici (mentre diverse piccole e medie imprese sono sull’orlo del collasso); aumento della povertà soprattutto nelle popolazioni rurali (ma sulla quale ancora non vi sono dati certi per il 2021); difficoltà nella produzione agricola rurale, con prezzi da miseria che sussidiano la vita delle grandi città; aumento delle disuguaglianze di genere (con l’aumento dello sfruttamento sul lavoro delle donne occupate in attività necessarie per riprodurre la vita e un inarrestabile incremento della violenza di genere); maggiori limitazioni ad un accesso dignitoso all’educazione (con persone che semplicemente hanno smesso di studiare per mancanza di connettività e di risorse economiche); aumento del numero dei suicidi; e altro.
E un dato conclusivo: al termine dell’anno passato, il ministro delle finanze dell’attuale governo ha reso noto un progetto di legge per concedere l’“autonomia” alla Banca Centrale dell’Ecuador, insieme a una campagna disinformativa delle attuali autorità economiche con l’obiettivo chiaro della sua privatizzazione. In realtà ciò che si vuole è il ritorno alla proprietà privata della Banca Centrale da parte del settore finanziario con le dure conseguenze per la popolazione ecuadoriana.
Crisi delle funzioni e delle istituzioni dello Stato ecuadoriano
Citeremo solo due dati che rivelano la crisi nelle Istituzioni dello Stato in Ecuador:
Per mandato legale, in Ecuador le autorità di controllo statale, sovrintendenza sulle Imprese, sovrintendenza sulle Banche, sull’Economia Popolare e Solidale, Autorità di controllo generale dello Stato, e altre, sono scelte tra una terna inviata dal Presidente della Repubblica, si posizionano nella loro carica in base a impegni politici con il partito, il movimento politico o il gruppo economico che li ha nominati, e di conseguenza sono il risultato del “clientelismo politico” che nomina Ministri, Direttori, Gestori e Funzionari per l’amministrazione pubblica con una scarsa conoscenza della gestione pubblica e delle norme di controllo governativo interno.
Nel caso della Funzione Giudiziaria, è indiscutibile che i processi che nascono da un apparato così condizionato non possono rispettare i requisiti minimi di imparzialità. La via giudiziaria diventa allora un canale adatto alla persecuzione politica. Paradossalmente, gli organi che non sono soggetti a elezione popolare (e che in questo caso dipendono dal beneplacito di autorità transitorie) sono quelli che finiscono per chiudere le strade della democrazia all’opposizione.
Inoltre l’arbitrarietà nella conformazione del Consiglio Nazionale Elettorale incaricato mette a rischio le elezioni tenutesi quest’anno, dove si scelgono 5.670 autorità. In definitiva, la giudizializzazione della politica e il sequestro delle istituzioni chiudono i percorsi democratici nell’Ecuador di Moreno.
Come abbiamo detto all’inizio, la crisi ereditata da Moreno sarà soprattutto per Arauz una sfida, dovuta alle dimensioni della stessa. Per Lasso o se ci fosse un altro, sarà un’ulteriore occasione per continuare a sfruttare le risorse dello Stato, senza riguardo per la maggioranza delle classi più povere.
Fonte https://rebelion.org/crisis-sin-precedentes-en-ecuador-desafio-para-el-proximo-presidente/
Ecuador: tra progressisti e indigeni?
Juan J. Paz y Miño Cepeda 23/02/2021
Fino alla metà del XX secolo la popolazione indigena dell’Ecuador era maggioritaria. Tuttavia il censimento del 2001 mostrò che si autodefinivano come indigeni il 6,8% (830.418 persone) su una popolazione nazionale di 12.156.608 abitanti (https://bit.ly/3pzZsRf); mentre il censimento del 2010, sempre su autodefinizione delle popolazioni, mostrò che si consideravano indigeni il 7,06% su un totale di 14.483.499 abitanti (https://bit.ly/2NEPTTX), in maggioranza nella Sierra (70%) e in Amazzonia (20%), ma non sulla Costa. Sono cifre ufficiali ma irreali, come quelle che sovrastimano la popolazione indigena supponendo che superi il 30% degli abitanti.
In ogni caso, a seguito della fondazione della FEI (1944), la storia contemporanea del movimento indigeno vede la nascita di nuove organizzazioni -ECUARUNARI (1972), CONAIE (1986) e altre- la prima sollevazione nazionale del 1990 e la creazione di Pachakutik (1995). Si costituì come il movimento meglio organizzato del Paese, capace di mobilitarsi in difesa dei suoi diritti e interessi e chiaramente unificato intorno alla causa comune dell’identità come popoli e nazionalità. Ma la situazione che si presenta con l’incursione del movimento nella vita politica è un’altra, perché i suoi dirigenti, leader o candidati si vedono coinvolti in un altro tipo di dinamiche che non hanno necessariamente o esclusivamente relazione con le rivendicazioni etnico-culturali.
Il voto per il binomio Yaku Pérez/Virna Cedeño (19,38%) è, essenzialmente un riconoscimento al movimento indigeno e alla sua storia di resistenze, che nell’ottobre del 2019 era tornato a manifestare contro il modello imprenditoriale-neoliberista, a lottare per interessi nazionali e aveva sofferto la brutale repressione che era continuata, nell’immediato, con la criminalizzazione dei suoi principali dirigenti. C’è stato anche il riconoscimento per la responsabilità con la quale le comunità hanno adottato misure di prevenzione di fronte alla pandemia del Coronavirus, creando anche reti per la distribuzione di alimenti alle popolazioni urbane. Ha aggregato diversi settori danneggiati dalle politiche del governo di Lenín Moreno. È riuscito a rappresentare coloro che non sono d’accordo con l’estrattivismo. Tutto questo spiega la vittoria nella maggioranza delle province della Sierra e in Amazzonia. Pertanto, non c’è stato solo un voto comunitario, ma di diversi settori di cittadini che si sono identificati nelle posizioni che, a suo tempo, hanno saputo assumere Pachakutik, la CONAIE e le loro organizzazioni. Ma si è anche aggiunto l’appoggio dei quei settori della sinistra che hanno privilegiato l’anti-correismo.
Qualcosa di simile è accaduto per il voto ad Andrés Arauz/Carlos Rabascal (32.72%): lì si è espresso un settore politico (il “correismo”) che durante gli ultimi quattro anni è stato perseguitato e criminalizzato con l’appoggio o l’auspicio delle più potenti forze contemporanee (governo e apparati di Stato, élites imprenditoriali, destre economiche e politiche, mezzi di comunicazione trasformatisi in portavoce di questi interessi, imperialismo), ed è stato anch’esso vittima della repressione nell’ottobre 2019 essendosi unito al movimento indigeno e che è stato perfino accusato di essere il protagonista esclusivo della “violenza” di quei giorni, e la cui candidatura, inoltre, era stato cercato di impedire dallo stesso organismo elettorale formato da persone avverse al “correismo”. Gli elettori, un’ampia e complessa convergenza di diversi settori sociali del progressismo e della nuova sinistra, comprendono piccoli e medi imprenditori, settori popolari, di lavoratori e classi medie, danneggiate nelle loro condizioni lavorative e di vita dal governo di Lenín Moreno e disperati di fronte alla sua indolente, inefficace e corrotta strategia di lotta alla pandemia durante il 2020. Ma si sono uniti anche leader e basi indigene. In modo che tutti hanno concordato nell’esprimersi contro il governo e la persecuzione di Stato, rifiutano il modello imprenditoriale-neoliberista e desiderano una società democratica, egualitaria, giusta e senza privilegi per le élites.
Tuttavia, al di là delle polemiche, delle individualità coinvolte o delle congiunture elettorali, i dirigenti e le organizzazioni enfatizzano il progetto politico del movimento indigeno. Dopo la sollevazione dell’ottobre 2019, circolò il documento “Minga por la vida. El Parlamento Plurinacional de los Pueblos, Organizaciones y Colectivos Sociales del Ecuador al Pueblo Ecuatoriano” (https://bit.ly/3quugUR), adottato come la principale carta programmatica (e quasi come unica proposta valida e veritiera per tutto il Paese), se si considerano il tono, le argomentazioni e i concetti con i quali è stato scritto. Strettamente parlando, vi si integrano concezioni e proposte che né sono esclusivamente indigene, né costituiscono una novità. Buona parte di quello che si trova nella “Minga” sono proposte ugualmente formulate da altri settori sociali e politici dell’ampio spettro del progressismo ecuadoriano, da istituzioni internazionali (la Cepal, per esempio) e anche da diversi accademici. Coincidono con le proposte e le esperienze delle economie sociali. Di modo che le soluzioni più “strutturali” del documento “Minga”, sia per affrontare la crisi del Coronavirus, sia per essere considerate nel medio e lungo periodo, sono comuni alle aspirazioni che mobilitano la maggioranza degli ecuadoriani democratici e progressisti: sicurezza sociale universale (e rafforzamento dell’IESS), lavoro dignitoso, sanità e medicina sociali, politica fiscale redistributiva della ricchezza, credito produttivo, reddito di base universale, economia familiare e civica, lavoro femminile, alloggio dignitoso, remunerazione per le lavoratrici casalinghe, cure ai settori vulnerabili, buoni salari, sovranità alimentare, prezzi giusti, educazione generale, rafforzamento delle organizzazioni, cambiamento della matrice energetica, promozione delle economie popolari e comunitarie, difesa dei diritti individuali, lavorativi e collettivi, rafforzamento dei GAD (governi autonomi decentralizzati), pianificazione economica e affermazione delle competenze dello Stato, controllo statale di una serie di risorse, beni e servizi, lotta contro la corruzione. Di conseguenza, ci sono alcuni aspetti di particolare rilevanza per i settori indigeni come l’“educazione bilingue interculturale”, che non si applica alla popolazione montubia [contadina della costa, N. d. T.] né a quella afrodiscendente, o le identità comunitarie agrarie e rurali, molto diverse da quelle che mobilitano e interessano la maggioritaria popolazione urbana che ha il Paese. Inoltre, non sono esclusivamente indigene neppure le rivendicazioni sull’ambiente (e il senso di relazione con la Pachamama), il rifiuto dell’“estrattivismo” (minerario, petrolifero, agroindustriale), delle privatizzazioni, della flessibilità lavorativa, del neoliberismo, dei TLC e, in generale, del “sistema capitalista, patriarcale e coloniale”. Inoltre il documento è poco sviluppato su altri temi: non si affrontano le relazioni con l’America Latina, non si esprime alcuna posizione sulla geopolitica nel mondo internazionale né la denuncia delle politiche imperialiste. È un programma nel quale predomina la visione localista e nazionale, con particolari accenni sulla congiuntura creata dalla pandemia. E, pertanto, è un documento che costituisce un’altra fonte importante per il dibattito nazionale e la ricerca di soluzioni per il Paese. Ma non è neanche una proposta che tutti coloro che desiderano cambiamenti e trasformazioni sociali siano obbligati ad accettare.
Leggendo il documento “Minga” e, soprattutto, le posizioni del movimento indigeno in altri documenti, dichiarazioni e posizioni assunte nella sua storia contemporanea, i punti di rivendicazione specifica rispetto al resto della società nazionale si trovano in tre aspetti centrali: 1. L’identità etnico-culturale delle nazionalità e dei popoli, che richiede il riconoscimento e il rispetto per la sua storia, la cosmovisione, i saperi propri, le ritualità, i costumi e le tradizioni; 2. L’autonomia e sovranità governativa, organizzativa, amministrativa e giudiziaria di questi popoli e nazionalità; 3. La territorialità ancestrale. Sebbene la società ecuadoriana riconosca l’identità propria del mondo indigeno (nonostante il classismo e il razzismo che ancora sono soliti apparire), sia l’autonomia governativa, sia la territorialità ancestrale generano polemiche di diverso livello (anche nelle sfere accademiche) ed è indubbio che la loro gestione abbia portato a scontri con lo Stato, con i governi e anche con altri settori sociali che mettono in discussione argomenti come la “giustizia indigena” che utilizza punizioni corporali e che, pertanto, contraddice i diritti umani “occidentali”. Ma nell’insieme, allo stesso modo contrappongono un “modello di sviluppo” locale ed eco-comunitario ai paradigmi dello sviluppo basati sul progresso materiale, la modernizzazione scientifico-tecnica, l’industrializzazione tecnologica, l’urbanizzazione accelerata e l’internazionalizzazione delle economie latinoamericane.
Come si può intuire, i punti di accordo economici e sociali sno più numerosi delle differenze tra il movimento indigeno e la visione che hanno i settori progressisti, democratici e della nuova sinistra rispetto al percorso del Paese e alle soluzioni che è possibile adottare. Senza dubbio, l’abisso che esiste è con il pensiero e le posizioni delle destre economiche, politiche, mediatiche e ideologiche (Guillermo Lasso ha ottenuto il 19.74% dei voti).
In questo momento risulterebbe una semplice speculazione cercare di stabilire come si comporteranno, al secondo turno dell’11 aprile, gli elettori che appartengono ai diversi popoli e nazionalità indigene. Anche così, è indubbio che i progetti storici del progressismo ecuadoriano (il quale peraltro non si limita al “correismo”) così come del movimento indigeno, potranno ben convergere, nel futuro e con acque più tranquillle e obiettive, in un fronte sociale che privilegi la definitiva sepoltura del modello imprenditoriale-neoliberista e oligarchico, per edificare un nuovo Stato con il potere popolare.
Blog dell’autore: Historia y Presente: www.historiaypresente.com
Le insurrezioni popolari non hanno spazio nelle urne
Raúl Zibechi, 20/02/2021
Anche se i movimenti antipatriarcali e anticoloniali hanno dispiegato le ali negli ultimi decenni, i risultati nella cultura politica egemonica sono ancora molto deboli. I mezzi di comunicazione non egemonici e le sinistre continuano a rispecchiare, nei loro servizi e discorsi, l’enorme difficoltà di superare le forme più tradizionali di dominio.
Le recenti elezioni in Ecuador ne sono una prova. L’attenzione sollevatasi di fronte alla possibilità che Yaku Pérez arrivasse alla presidenza per Pachakutik non è paragonabile a quella richiamata dalla rivolta indigena e popolare dell’ottobre 2019.
Per quanto questa rivolta sia uno spartiacque nella storia recente del Paese andino, gli sguardi tornano di continuo verso le urne, anche se queste non modificano mai i rapporti di forza. Il voto per Yaku sfiora il 20% ed è il più alto nella storia del movimento indigeno, chiaro riflesso della potenza della rivolta di ottobre.
La candidatura di Yaku ha stravinto nella foresta, ottenendo il 50% dei voti a Morona Santiago. Nelle montagne ha superato il 40% a Chimborazo, Cotopaxi, Cañar, Bolívar e Azuay, ma non è riuscita a ripetere questi risultati a Pichincha, Imbabura e Carchi, nella regione andina a nord del Paese. Sulla costa si è imposto Andrés Arauz, il candidato del progressismo, corrente che è diventata egemonica durante il decennio di governo di Rafael Correa, soppiantando la tradizionale egemonia della vecchia destra.
Una divisione geografico-politica del Paese che merita una spiegazione. Yaku Pérez incarna la resistenza delle comunità rurali, e sempre di più quella delle città medie, all’estrattivismo minerario messo in atto nella montagna andina e nella foresta, ma anche all’espansione della frontiera petrolifera. È anche un’alternativa al progressismo che si è impegnato in un “desarrollismo” [“sviluppismo” N.d.T.] incentrato sul settore minerario, che ha giudiziarizzato e criminalizzato la protesta indigena e popolare attaccando la CONAIE (Confederación de Nacionalidades Indígenas de Ecuador), i sindacati e i raggruppamenti studenteschi.
Yaku è stato uno tra le centinaia di dirigenti minacciati e imprigionati dal governo di Correa. Proviene dalla resistenza anti-mineraria nella provincia di Azuay, dove le comunità si stanno mobilitando contro l’estrazione dell’oro che contamina le sorgenti dei fiumi e i terreni produttori di acqua. Nel 2019 è stato eletto prefetto di Azuay e nelle recenti elezioni l’81% degli abitanti di Cuenca, capitale della provincia e terza città del Paese, si è pronunciato a favore dello stop all’attività mineraria.
Il sostegno degli ecuadoriani a Yaku Pérez non è un assegno in bianco alla sua persona, ma il modo di canalizzare la rivolta di ottobre. In quel mese, per dieci giorni, decine di migliaia di persone riempirono il centro di Quito per bloccare il pacchetto di misure neoliberiste del governo di Lenín Moreno. Hanno vinto e questa vittoria è ciò che permette di dire che c’è stata una frattura in Ecuador.
Come era già successo per precedenti rivolte, fin dalla prima nel 1990, la regione della costa è rimasta al margine e la mobilitazione si è concentrata nelle regioni a maggioranza indigena. Mentre qui predomina l’economia agricola, sostenuta da migliaia di comunità rurali, sulla costa predomina la produzione agroesportatrice nella quale la banana gioca un ruolo preminente.
Le città sono un tema a parte: a Quito, con 3,5 milioni di abitanti e vasta popolazione indigena e meticcia (solo il 6% si definiscono bianchi), il peso del settore terziario e finanziario, con il suo corollario di massiccia economia informale, si sta trasformando in un bastione della destra legata al capitale finanziario.
Per quanto ci possa dispiacere, un governo di Yaku Pérez, che è stato sul punto di passare al secondo turno, non avrebbe raggiunto i suoi principali obiettivi come frenare la mega attività mineraria e lasciarsi alle spalle il neoliberismo. Con appena il 20% dei voti, è obbligato a patteggiare con le altre forze che appoggiano decisamente l’estrattivismo.
La rivolta di ottobre è riuscita a bloccare il pacchetto neoliberista, ma non è stata sufficiente per delegittimare il neoliberismo. La continuità di quel movimento non può essere cercata nelle elezioni, né in quelle passate, né in quelle future. La stessa rivolta ha indicato la rotta: la sua principale creazione è stato il Parlamento Indigeno e dei Movimenti Sociali, dove sono convenute più di 180 organizzazioni.
“Una Minga por la Vida” [Minga sta ad indicare la mobilitazione delle comunità, N.d.T.] è stato il programma elaborato dal Parlamento, che in campagna elettorale è stato ripreso da Yaku Pérez come sua piattaforma di governo.
Quel Parlamento dal basso non si è estinto. Ha girato parte del Paese promuovendo il programma alternativo elaborato dai suoi membri, raggruppando movimenti locali e producendo dibattito. Ha iniziato a percorrere una strada, lenta e faticosa, necessaria per organizzare quelli/e “in basso” finché la campagna mediatico-elettorale ha messo da parte i problemi centrali dell’Ecuador.
Il futuro non emergerà dalle urne ma dalla capacità dei movimenti e dei popoli di continuare a lavorare attraverso le brecce aperte dalla rivolta, e approfondirle fino a neutralizzare un modello di morte, di espropriazione dell’acqua e della terra.
Tratto da www.rebelion.org
Fonte: https://desinformemonos.org/las-insurrecciones-populares-no-caben-en-las-urnas/
Traduzioni per Codice Rosso di Andrea Grillo