Coronavirus: molte domande, qualche riflessione
di Ciro Bilardi
Le misure assunte dal governo italiano in merito all’epidemia da coronavirus probabilmente non si potevano evitare. L’obiettivo, com’è stato più volte ripetuto, è quello di scongiurare una possibile saturazione dei reparti di terapia intensiva e diminuire le possibilità di contagio per tutte quelle persone (anziani con patologie pregresse, dializzati, trapiantati ecc.) per i quali l’infezione sarebbe probabilmente letale.
È stato quindi scelto di bloccare, oltre alle più varie forme di socializzazione, la vita economica del Paese, con conseguenze che potrebbero essere devastanti (se non lo sono già) per coloro che lavorano soprattutto nei settori del commercio e del turismo.
Già saltate le vacanze di Pasqua, in forte dubbio la stagione estiva, il futuro è grigio, e senza enormi investimenti pubblici è prevedibile che da questa crisi saranno in pochi quelli che riusciranno a risollevarsi. E va anche considerata quella parte della popolazione più fragile e sola che sta soffrendo in modo particolare l’azzeramento di ogni relazione sociale e dei contatti umani.
Il rischio è che si vada incontro a una degenerazione del nostro tessuto sociale difficilmente recuperabile.
È quindi chiaro a tutti che la strategia adottata non può durare a lungo: si tratta di misure eccezionali che in quanto tali possono reggere solo per un periodo di tempo piuttosto limitato. Quanto? Dieci giorni? Quindici? Che succederà oltre la scadenza del 3 aprile?
Probabilmente in queste due settimane molte cose saranno più chiare sulla natura del virus e sull’andamento dell’epidemia. Può anche darsi (è la teoria di qualcuno e l’augurio di tutti) che la bella stagione non sia favorevole al coronavirus e che questo scompaia per poi magari ripresentarsi il prossimo inverno quando però dovrebbero essere a disposizione farmaci e vaccini.
Si ha però la sensazione che queste misure siano state adottate in maniera molto “istintiva”, senza una sufficiente programmazione e senza una strategia precisa, con il condizionamento di un sistema mediatico che sa bene quanto funzioni urlare e drammatizzare le notizie il più possibile. E purtroppo anche molti presunti “esperti” hanno fatto propria una modalità di comunicazione tipica dei moderni social network dove vince chi la spara più grossa e alla fine non si capisce più quando si tratta di fake news e quando di informazioni credibili.
In più ci si aggiunga anche un dibattito politico da osteria dove ognuno butta lì le proposte più assurde e forcaiole tanto per raccattare qualche facile consenso, senza neanche porsi il problema della loro fattibilità.
Ma se alla fine di queste due settimane il numero delle persone positive al tampone dovesse mostrare una continuità nella sua crescita esponenziale? È possibile pensare di mantenere in vigore questi provvedimenti? Molto probabilmente no, e se così sarà anche questi giorni di quarantena collettiva avranno perso buona parte della loro potenziale efficacia.
Il problema principale è che mancano i dati fondamentali per capire la natura della malattia e le modalità della sua diffusione. In parte naturalmente perché si tratta di un virus nuovo, ma in parte perché nessuno li sta cercando.
Ad esempio: la mortalità della malattia dovrebbe essere calcolata come percentuale dei contagi totali e non come percentuale dei tamponi positivi. Tanto è vero che in questo modo la mortalità supera il 7% che non è un dato credibile a fronte del 2-3% calcolato a livello globale.
È possibile che la maggiore mortalità che si registra in Italia dipenda dalla più alta età media della popolazione, perché rispetto alla Cina abbiamo circa sei anni in più. Ma l’Istituto superiore di Sanità ha spiegato che in realtà da noi la mortalità per fasce d’età è più bassa, al 4 marzo tra gli ultraottantenni era del 10,9% rispetto al 14,8 della Cina.
Per fare una comparazione bisognerebbe dunque vedere come viene calcolata altrove la mortalità. Da noi i tamponi vengono fatti solo a chi presenta sintomi già abbastanza evidenti, quindi a una parte minoritaria delle persone contagiate. Quanti sono ad esempio in percentuale i tamponi risultati negativi sul totale di quelli effettuati?
Si dirà: ma poi alla fine sono importanti questi dati? E come si fa a stimare la prevalenza del virus nella popolazione generale?
Stimare la prevalenza nella popolazione generale non è difficile, non si tratta di fare analisi a tappeto ma basta prendere un campione casuale di qualche migliaio di persone nelle diverse regioni del Paese per calcolarlo, rapidamente e a basso costo. I tamponi attualmente disponibili costano poche decine di euro e consentono di ottenere i risultati in poche ore.
E non è una discussione accademica. Perché se i contagi fossero limitati alle persone già risultate positive (circa 25mila) le misure adottate potrebbero avere un senso. Ma se invece i contagi fossero centinaia di migliaia, in grande maggioranza asintomatici, com’è probabile, fermare un’ulteriore diffusione sarebbe impossibile. In compenso sarebbe improbabile un forte aumento dei casi da ospedalizzare, e a quel punto sarebbe molto più efficace proteggere le persone vulnerabili con una politica più mirata.
Se si osserva il grafico dei casi positivi, dei deceduti e dei ricoverati in terapia intensiva si vede che i primi hanno, come si diceva, una crescita esponenziale e gli altri una crescita molto meno marcata. È vero che i deceduti e i ricoverati di oggi sono i contagiati di quindici-venti giorni fa, ma probabilmente la crescita esponenziale dei casi deriva solo dall’aumento dei tamponi effettuati e non dal reale aumento dei contagi.
Quindi le strategie sanitarie che sono state adottate non partono da una conoscenza reale delle dimensioni dell’epidemia ma solo da dati parziali e non rappresentativi della realtà.
Può anche darsi -sarebbe una buona notizia- che il picco delle infezioni sia già stato raggiunto e che la temutissima (a giusta ragione) crescita ingestibile dei casi da ospedalizzare non ci sarà.
Questa è solo un’ipotesi ma non si capisce perché non venga verificata, mentre la popolazione si sottopone a un isolamento estremamente gravoso che non potrà durare a lungo.
Tutto ciò dà un’idea di una sostanziale improvvisazione che in parte è giustificata dall’esplosione inaspettata di questa malattia, ma in parte dimostra un’inadeguatezza del sistema sanitario, o meglio dei suoi vertici, soprattutto in termini di programmazione e di ricerca epidemiologica.
La rapida evoluzione degli eventi non può giustificare tutto: in primo luogo l’assenza dei dispositivi di protezione individuale per gli operatori sanitari che a causa di questo oggi sono diventati la categoria più a rischio in assoluto.
Com’è possibile che nel 2020 alcuni tra i sistemi sanitari più sviluppati del mondo non siano in grado di assicurare mascherine, camici e guanti per i professionisti?
Qui si entra in un altro campo altrettanto importante: la sanità pubblica viene da un trentennio di svalorizzazione e di progressivo smantellamento: i finanziamenti per il servizio sanitario sono stati considerati soldi sprecati, un lusso che non ci potevamo permettere, e non si è fatto altro che screditare gli operatori e pompare il privato, che si descriveva come più efficiente e meno costoso.
Eppure bastava guardare le statistiche per capire che sistemi come quello statunitense, che tanto viene osannato, non solo lasciano senza copertura decine di milioni di persone ma costano anche di più.
Poi c’è stato il mantra del “ce lo chiede l’Europa”: e rimane da spiegare perché allora la Germania ha 8 posti letto per mille abitanti, la Francia 6 e Livorno 2,19.
Questa enorme e prolungata opera di disinformazione non ha prodotto solo tagli e riduzioni di risorse (solo qualche pagliaccio proprio in questi giorni si sta affannando a teorizzare che i tagli non ci sono stati) ma anche di rottura del rapporto di fiducia tra cittadini e operatori: basti citare le balle no-vax o l’incredibile serie di aggressioni al personale sanitario che prima dell’emergenza coronavirus era diventato lo sport nazionale.
E ci sarebbe da chiedere ai nazifascisti che continuano a soffiare sul fuoco (ora stanno dicendo che i tagli alla sanità sono stati causati dai costi per l’accoglienza agli immigrati) quanti posti di rianimazione avremmo avuto con la flat tax al 15% come volevano loro.
E c’è di più: si è scoperto che non sono importanti soltanto gli ospedali ma i presidi territoriali e la vicinanza al cittadino. Sembra quasi che nessuno abbia governato in questi trent’anni e che a smantellare i distretti e i presidi territoriali sia stata Maga Magò. A Livorno dopo l’approvazione della riforma sanitaria del ’78 c’erano 11 presidi territoriali, oggi ce ne sono due.
Almeno un risultato positivo quindi il coronavirus l’ha ottenuto: quello di far capire alla gente che un sistema sanitario pubblico che funziona (e ha le risorse per funzionare) è imprescindibile in una società che vuol dirsi civile. E forse in futuro sarà meno facile accettare che la sanità venga guidata da dirigenti scelti per la propria appartenenza politica e non per la loro competenza. Scrive bene in questi giorni Marco Travaglio (indipendentemente dal giudizio che si può dare sulle sue posizioni politiche): “Io penso che quando usciremo da questa crisi una delle primissime cose da fare sia prendere la sanità, toglierla alle regioni e ridarla allo stato centrale. Io sarei per radere al suolo le autonomie regionali e fare un federalismo su base comunale (…) ma intanto mettiamo in sicurezza la sanità”(…) “sottraendola alle grinfie di satrapi e mitomani che si fanno chiamare governatori”.
Ma un altro spunto di riflessione emerge dalla vicenda del coronavirus: le misure attuate per ridurre la diffusione dell’epidemia ricalcano in modo stupefacente quelle adottate molti secoli fa in occasione delle grandi epidemie di peste. Qualcuno in questi giorni ha ricordato la splendida descrizione che ne fa Michel Foucault in Sorvegliare e punire: “Una rigorosa divisione spaziale in settori: chiusura del territorio circostante (…) Il giorno designato, si ordina che ciascuno si chiuda nella propria casa: proibizione di uscirne sotto pena della vita. Il sindaco va di persona a chiudere dall’esterno la porta di ogni casa, che rimette all’intendente di quartiere; questi la conserva fino alla fine della quarantena. Ogni famiglia avrà fatto le sue provviste, ma per il vino e il pane saranno state preparate delle piccole condutture, che permetteranno di fornire a ciascuno la sua razione senza che vi sia comunicazione tra fornitore e abitante”.
Dopo 6-700 anni gli stessi provvedimenti: perché la medicina non è onnipotente e di fronte a eventi nuovi e inattesi mostra tutti i suoi limiti. Per non parlare di quel possibile, terribile scenario, su cui molti hanno lanciato l’allarme, in cui gli antibiotici non avrebbero più efficacia contro le infezioni batteriche a causa dello sviluppo di microrganismi resistenti.
E allora torna prepotentemente all’ordine del giorno l’urgenza di un diverso rapporto con l’ecosistema e del superamento di un modello di sviluppo insostenibile.
Nel 1994 usciva un libro stupendo di Richard Preston, intitolato Area di contagio, oggi molto conosciuto perché ha ispirato film e serie TV.
Il libro raccontava dei primi casi conosciuti del virus Ebola: nel 1980 due gitanti che avevano visitato la grotta di Kitum, fra Uganda e Kenya, un ingegnere francese e un ragazzo danese, muoiono a causa del virus di Marburg, una variante dell’Ebola. La grotta è frequentata da elefanti e altri animali selvatici, e vi abita una specie di pipistrelli. Dopo anni di ricerche si scoprirà che erano proprio i pipistrelli ad ospitare il virus. Ma il nome Marburg non deriva dalle vicende avvenute in Kenya: Marburg è una cittadina tedesca dove il virus era stato isolato nel 1967, dopo un focolaio di febbre emorragica che si era sviluppato tra il personale di un laboratorio di ricerca infettando 37 persone. Nel laboratorio erano stati fatti esperimenti sui reni di scimmie ugandesi. Un episodio analogo si verifica nel 1989 negli Stati Uniti.
Preston concludeva: “La comparsa dell’AIDS, di Ebola e di chissà quanti agenti scaturiti dalla foresta pluviale sembra essere una naturale conseguenza della distruzione della biosfera tropicale. Sono virus che emergono da zone ecologicamente disastrate del pianeta (…) Si può dire che la Terra stia creando una risposta immunitaria alla razza umana. Comincia cioè a reagire al parassita umano, al cemento che invade il pianeta, alla cancerogena iperdensità abitativa delle città”.
La lezione del coronavirus ancora una volta è proprio questa.