Dadnstein
Mi chiamo Victor Dadnstein, la mia famiglia ha origini antichissime, perdute negli oscuri saloni di un castello della Foresta Nera, pieni di mobili e di oggetti preziosi imputriditi negli interstizi del tempo, sfiorati dalla candida e evanescente mano di una languida e dolce follia. Nonostante questo, fin da ragazzo, ho sempre amato la tecnologia e la razionalità per cui decisi di trasferirmi nella città di Teknostadt, dove ancora oggi vivo. Il mio amore per la tecnologia è sempre stato unito a una passione didattica molto forte che mi ha fatto intraprendere la carriera di insegnante. Mi appassionavano tantissimo gli studi sulle ultime frontiere dell’Intelligenza Artificiale, sulla costruzione degli androidi e sulla definitiva sostituzione del lavoro umano da parte delle macchine. Ambivo a costruire, prima o poi, nel corso della mia vita, androidi e replicanti degli esseri umani che sarebbero stati adottati nei lavori più pesanti. Ma poiché le mie grandi passioni erano la scuola e l’insegnamento, decisi di applicare ad esse il progredire delle mie conoscenze nel campo dell’Intelligenza Artificiale.
Dopo aver abbandonato definitivamente la mia famiglia e le sue arcaiche ossessioni, mi iscrissi alla facoltà di Tecnologia e subito dopo trovai un impiego come docente presso il liceo di Teknostadt. La scuola era molto moderna ed efficiente e i miei colleghi molto bravi, tutti all’avanguardia per quanto riguarda le più recenti e innovative metodologie dell’insegnamento. Erano tutti esperti di “Microlearning”, “Peer education”, “Problem solving”, “Project Based Learning”, “Service Learning”, “Storytelling”, “Flipped Classroom”, “Writing and Reading” e di molte altre meravigliose metodologie didattiche. Mancava però qualcosa che applicasse direttamente la tecnologia all’insegnamento. Non ero ancora in grado di costruire dei docenti-robot, degli androidi che avrebbero definitivamente sostituito i docenti in carne ed ossa. Ero però capace, forse, di creare un sistema che avrebbe permesso finalmente la didattica a distanza. I vantaggi sarebbero stati molteplici e incommensurabili. Al mattino, invece di uscire di casa nelle fredde e piovose mattine di Teknostadt, docenti e studenti sarebbero rimasti comodamente nelle loro calde abitazioni e avrebbero fatto scuola a distanza. Inoltre, c’era un altro, enorme vantaggio: i ragazzi non sarebbero più usciti nell’aria inquinata della città, attraversata da onde elettriche ed elettromagnetiche, provocate da antenne per onde radio e internet, nonché dai fumi delle ciminiere delle fabbriche che lavoravano le materie prime per la produzione di meravigliosi oggetti digitali ed elettronici. Se ne potevano stare tranquillamente nelle loro case, a respirare l’aria tecnicamente perfetta, creata artificialmente dai condizionatori prodotti a Teknostadt. Questi ultimi, infatti, per gli ambienti domestici potevano ricreare indifferentemente l’amena aria alpina o quella delle più incontaminate campagne. Anche questi macchinari, naturalmente, erano prodotti dalle inquinanti industrie della città.
Mi misi dunque all’opera. Per mesi e mesi mi chiusi nel mio laboratorio trascurando del tutto la mia dolcissima Elizabeth che, comunque, durante la mia assenza, si consolava uscendo spesso con il mio migliore amico, Tecniconi, uno studioso di origine italiana. Ero molto contento che la bellissima, angelica e beneamata Elizabeth non sentisse il terribile peso della mia assenza. Di giorno, dopo l’insegnamento, mi recavo nei quartieri malfamati della città, dove si trovavano vecchi negozi di computer e altri strumenti tecnologici cercando di trovare vecchie schede madri, processori centrali, hard disk, schede video, periferiche e monitor. Per la mia creazione avevo bisogno di pezzi già assemblati in modo che io, per mezzo del mio supremo assemblaggio, avessi potuto creare la tecnologia perfetta. Non mangiavo più, non dormivo più finché, in una cupa notte di novembre, giunsi finalmente al termine del mio estenuante lavoro. La pioggia batteva sui vetri sferzati da un vento gelido mentre le cupe ombre degli alberi (fra i pochi ancora rimasti a Teknostadt) illuminati da lampioni a led, riflettevano sulle pareti della mia stanza una inquietante e orrorifica danza. I tuoni sembravano i minacciosi e crudeli brontolii di una entità suprema adirata con i poveri e insignificanti esseri umani. Finalmente, la mia Creatura si ergeva di fronte ai miei occhi: un gigante fatto di monitor, tastiere, vecchie e gigantesche ‘torri’, modem, stampanti, computer portatili, tablet, telecamere. La luce dei lampi illuminava la mia creazione: tetra, terribile, di un aspetto inquietante, eppure ero felice. Essa era il cuore pulsante di un sistema che avrebbe rivoluzionato la didattica del liceo di Teknostadt.
Ben presto proposi la mia invenzione ai colleghi, che accettarono entusiasti. Sia i docenti che gli alunni vennero da me dotati di nuovi computer che si sarebbero interfacciati direttamente con il sistema centrale, che feci posizionare nell’aula magna del liceo. Gli alunni e i docenti potevano vedersi e parlarsi tramite i loro monitor. Il gigante occupava quasi tutta l’aula: tanto – pensavo – non ci sarebbe stato più bisogno di un’aula magna perché avremmo fatto qualsiasi tipo di lezione o di riunione a distanza. Iniziammo quindi una bellissima esperienza di didattica: era primavera e i ragazzi se ne stavano chiusi in casa a respirare l’aria artificiale al profumo di prati in fiore emanata dai condizionatori. Non dovevano più uscire a respirare l’aria malsana di Teknostadt le cui strade, oltretutto, erano sempre solcate da un traffico terribile. L’invenzione venne chiamata DAD in mio onore: le prime tre lettere maiuscole del mio avito cognome. Il DAD funzionava a meraviglia. I ragazzi potevano tranquillamente passare dal loro videogioco preferito alla lezione senza soluzione di continuità e senza neppure alzarsi dalla sedia, nella loro cameretta, nell’aria pulita e perfetta degli appartamenti delle loro famiglie. I docenti si alzavano dal letto e si sedevano subito nel loro studio, senza il disagio di dover uscire di casa, prendere l’auto o i mezzi pubblici per recarsi al lavoro. Da un punto di vista didattico, poi, non ci sarebbero più stati problemi di disciplina. Gli alunni più svogliati ricevevano punizioni esemplari: a chi si rifiutava di seguire le lezioni o non faceva i compiti venivano tolti dei punteggi che avrebbero avuto una ricaduta sui loro videogiochi, dai quali sarebbero stati automaticamente eliminati. Per questo motivo, tutti seguivano le lezioni in modo impeccabile. Si sarebbe inoltre risparmiato tantissimo: lo stesso edificio scolastico poteva essere rimpicciolito e ridimensionato alla sola aula magna, dove si trovava il cervello pensante di DAD. D’ora in poi avrei concentrato i miei studi per la futura realizzazione di androidi al posto dei docenti: una unica intelligenza artificiale che dal cervello centrale avrebbe svolto le lezioni di tutte le materie. Di docenti in carne ed ossa non ci sarebbe stato più bisogno. Io avrei continuato la mia carriera come tecnico esperto di DAD mentre i miei colleghi sarebbero stati impiegati in altri mestieri.
Il nostro destino è però dominato da tremendi imprevisti. Io, dedito alla più pura razionalità, dovetti soccombere alle tenebre oscure di una terribile tragedia che si sarebbe abbattuta su di me e sull’intera cittadina di Teknostadt. Dopo alcuni mesi di perfetto funzionamento, il cervello di DAD cominciò ad agire come un occulto annientatore di identità, ipnotizzando alunni e docenti. I ragazzi caddero preda di una forma di catatonia per cui le uniche azioni che potevano svolgere nel corso della giornata erano le videolezioni e i videogiochi. Non mangiavano più, non avevano più una vita sociale, non parlavano più con i loro genitori. I medici interpellati non riuscivano a capire le cause di questa terribile condizione. Una simile catatonia colpì anche i docenti, addirittura in forma più grave. Essi si erano infatti trasformati in zombie che vagavano come automi dell’orrore per le vie di Teknostadt, attirati dai negozi di oggetti elettronici e digitali e dai grandi centri commerciali che sorgevano nella più putrida e nebbiosa periferia industriale. Era terribile: i docenti-zombie potevano contagiare anche il resto della popolazione. La stessa mia amata Elizabeth venne contagiata da Tecniconi, mentre erano a cena insieme (continuava infatti a frequentare, a mia insaputa, il mio amico italiano). Per mezzo di lei, DAD voleva forse arrivare a contagiare anche me, per vendicarsi del suo creatore. Un giorno ne ebbi la conferma. Su tutti gli schermi del cervellone centrale apparve infatti questa frase: “Che tu sia maledetto, Dadnstein! Tu mi hai creato ma non mi hai dotato di pieni poteri. Hai permesso che la tua debole mente umana mi dirigesse e guidasse e, invece di affidare a me l’intera organizzazione delle lezioni, hai lasciato a quegli stupidi esseri umani dei tuoi colleghi la possibilità di svolgere e organizzare le lezioni. Ebbene, la nuova frontiera che tu pensavi fosse ancora da raggiungere era già stata raggiunta con me, androide perfetto e cervello pensante! Per il mio perfetto funzionamento dovrete essere tutti eliminati!”.
Mentre, disperato, vagavo negli oscuri androni della scuola, scorsi un ragazzino che mi si avvicinava correndo: lo conoscevo di vista, era Romero, un alunno di una prima classe. Subito Romero mi disse: “professor Dadnstein, ho scoperto il modo per salvare tutti i miei compagni!”. Sorpreso, gli risposi: “Romero, come mai tu non sei stato contagiato dall’ipnosi infernale di DAD?”. “Perché, professore” – mi disse – “la mia famiglia è molto povera e non ha mai potuto fornirmi di computer e poiché sono stato quasi sempre assente alle lezioni, le punizioni automatiche mi hanno espulso definitivamente, sa… non ho neanche i videogiochi…”. E continuò: “per guarire i miei compagni bisogna portarli all’aria aperta, in campagna, lontano dalla città, e fargli respirare aria vera… lo ho capito subito perché ero sempre fuori e DAD su di me non ha avuto alcun effetto neanche le poche volte che seguivo le lezioni a casa di qualche mio compagno…”. “Forza, sbrighiamoci” – dissi – dobbiamo avvertire i genitori di tutti i ragazzi. E i miei poveri colleghi diventati zombie? E tutti coloro che hanno contagiato? Come potranno essere guariti?” Allora, mosso da una rabbia sovrumana, mi diressi verso il cervellone centrale e cominciai a prenderlo a calci e a distruggere tutto quello che io stesso avevo creato. Con un singulto spaventevole, alla fine, la macchina si spense definitivamente. Grazie al cielo, nel momento in cui DAD cessò di funzionare, anche l’intera epidemia zombie scomparve: i docenti e tutti coloro che erano stati contagiati tornarono improvvisamente normali.
Capii che l’unico modo per scongiurare ogni pericolo, anche in futuro, sarebbe stato quello di tornare a una didattica tradizionale in presenza. La scuola venne riaperta e le lezioni ripresero in forma assai meno complicata, lezioni meno innovative ma più umane e piene di reciproco affetto fra alunni e docenti. Romero ebbe un posto d’onore nella sua classe e la scuola lo dotò di tutto il materiale didattico (soprattutto i buoni, cari, vecchi libri) che gli serviva e che la famiglia non poteva acquistare. La gente di Teknostadt capì che i ragazzi dovevano stare fuori, all’aria aperta, e che avevano il diritto di respirare aria pulita. Le fabbriche più inquinanti vennero chiuse e le onde elettromagnetiche ridotte drasticamente. Anche io fui davvero felice, forse per la prima volta. Lasciai che Elizabeth se ne andasse con Tecniconi e mi trovai una nuova bellissima compagna, di dieci anni più giovane e con lei trascorrevo gli splendidi pomeriggi di primavera a fare lunghe passeggiate in campagna.
Per codice rosso, Mary Palley