Gli “uomini pesce” e il potere dappertutto
Il potere si diffonde a maglie larghe, sempre più larghe, in una serie di interconnessioni continue: è quella “microfisica del potere” rilevata da Michel Foucault che domina i corpi e gli spazi diramandosi ovunque. Se c’è una narrazione che riesce bene a rendere questa diffusione oscura del potere in ogni ambito, in ogni spazio e in ogni tempo dell’esistenza è proprio quella attuata da Wu Ming 1 nel suo recente romanzo Gli uomini pesce, che si apre su diversi piani temporali: la guerra partigiana nel Polesine e nel Delta del Po, gli anni della strategia della tensione e delle stragi di stato, l’estate del 2022.
Ilario, grande partigiano e intellettuale ferrarese, la nipote Antonia e suo marito Sonic, un musicista del Minnesota, i personaggi principali della storia, vivono e lottano in un universo dominato da grevi poteri. L’estate del 2022 è martoriata dal riscaldamento globale e dagli ultimi strascichi dell’emergenza Covid. Antonia, accorsa a Ferrara per il funerale di suo zio Ilario, ha ancora vive nella mente e nel corpo le ferite del periodo dell’emergenza: a parte accusare un lungo ed estenuante ‘post-Covid’, sembra emergere affaticata e sfinita da mesi e mesi di lockdown, ordinanze ministeriali, autocertificazioni, ‘green pass’, divieti e permessi contraddittori, obblighi di distanze di sicurezza, deterioramenti di conoscenze ed amicizie, litigi, incomprensioni, solitudini e rinunce. Il 2022 è un anno cruciale in questa interconnessione di poteri, è il momento in cui si comincia ad uscire dalla paura e dal dolore derivati dalla malagestione dell’emergenza sanitaria. Antonia è ferita e le sue ferite sono tante domande aperte, tanti spunti di riflessione su chi siamo stati e su cosa abbiamo fatto nel periodo dell’emergenza in cui sentivamo gravare su ognuno di noi un potere oscuro, in primis quello di una malattia sconosciuta.
Ma l’estate del 2022 è anche, come tutte le più recenti estati, gravata dal riscaldamento globale (come scrive Timothy Morton, meglio parlare di “riscaldamento globale” piuttosto che di “cambiamento climatico” perché “dire cambiamento climatico permette alla ragion cinica – sia essa di destra o di sinistra – di poter affermare che «il clima si è sempre trasformato»”, Morton 2018: 19), un fenomeno che tocca continuamente le nostre esistenze e che un certo potere vorrebbe continuare a negare e proseguire come se nulla fosse, con emissioni incontrollate di agenti inquinanti e cementificazioni selvagge. In un momento come questo, in cui la destra celebra i suoi fasti soprattutto negli USA con l’elezione del folle negazionista Trump, il riscaldamento globale e le devastazioni del territorio divengono una ferita ancora più atroce. Quella che viene chiamata “emergenza” da chi detiene il potere non è altro che “il mondo nuovo” e non capirlo ci fa precipitare sempre di più nel baratro. Antonia, come soffre per le ferite impresse dal Covid e dallo stato di emergenza militaresca nel quale il governo ci ha fatto vivere, così soffre anche di una terribile “ansia climatica”, un dolore atroce per la siccità e il calore insopportabile: “Le previsioni del tempo avevano detto: «Domani sereno». La lingua del meteo non aveva più senso. Che serenità poteva esserci se non pioveva, se dal finestrino, tra un paese e il successivo – paesi già poco vissuti e nella calura perfino spettrali – vedevo i campi prostrati dall’arsura, gli alberi morenti, i girasoli depressi, i frutteti estenuati? Il governo aveva dichiarato lo stato di emergenza, ma quell’emergenza era il mondo nuovo” (Gli uomini pesce, pp. 95-96). E il potere, come diceva Foucault, è dovunque: nella comunicazione digitale e nei media che non ci lasciano scampo, nelle previsioni meteo che si sono trasformate in uno show apocalittico e nostalgico come sul palcoscenico di un macabro teatro di burattini.
Se il potere brutale per eccellenza è quello del fascismo e del nazismo, che compare nelle finestre narrative relative alla lotta di liberazione nel Delta del Po nella quale si battono Ilario e il suo amico Erminio Squarzanti, una sua subdola prosecuzione è rappresentata dal controllo neocapitalistico del territorio negli anni del boom economico e non solo: un sistema che distrugge e annienta il Delta e la riviera romagnola in nome del profitto. Emblemi del potere sono allora i casermoni costruiti nelle località rivierasche, un affastellarsi di edifici che formano – come scrisse Pier Vittorio Tondelli all’inizio degli anni Ottanta – un “Adriatico Kitsch” fatto di “edifici, vuoti e scuri, e impalcature e bulldozer che arrivano al mare e gru e palizzate di cemento” (Tondelli 2009: 99). È un altro oscuro potere quello che distrugge il territorio: provoca non solo inestetici scorci, come denunciava Pasolini già negli anni Settanta, ma anche allagamenti e inondazioni, forieri di distruzione e morte, come lo stesso Wu Ming 1 e l’intero collettivo denunciano oggi dalle pagine del loro blog “Giap”. Quello della riviera romagnola – e in generale di tutta l’Emilia Romagna, ma non solo – è un territorio ipercementificato, in cui si costruisce in zone pericolose che, nel “mondo nuovo”, sono sempre più spesso soggette a allagamenti. L’emergenza è diventata la normalità e, in questa nuova normalità, cementificare e devastare un territorio si sta trasformando in un nuovo crimine contro l’umanità.
E gli uomini pesce? Sono creature misteriose e soprannaturali, legate strettamente a quel territorio devastato, destinato nel futuro a essere sommerso dal mare. Esseri che compaiono nei quadri e negli schizzi di Ilario e che forse quel grande partigiano aveva visto davvero nei momenti più duri della lotta di liberazione; erano un “mito genuino” che poi è inesorabilmente caduto: come scrive Furio Jesi, esso “sgorga spontaneamente dalle profondità della psiche” (Jesi 1968: 35) per poi riemergere sotto la forma di una “tecnicizzazione” utilizzata dallo stesso potere per i suoi fini. Gli uomini pesce torneranno nel Polesine nelle leggende degli anni Novanta, come spiega il personaggio del geometra Rizzi a Sonic e Antonia. Ma un vero e proprio “mito tecnicizzato”, nell’accezione di Jesi (cfr. ivi: 36 e seguenti), è quello di “Igor il Russo”, che incontriamo nel romanzo (Antonia, geografa che cerca di sfuggire alle maglie d’un altro oscuro potere, quello accademico, aveva infatti scritto un libro sulla ‘mappatura’ del territorio durante la ‘caccia’ a Igor): il killer che nella primavera del 2017 si nascose nel Polesine scatenando una gigantesca caccia all’uomo protrattasi per mesi, anche quando non era più lì da un pezzo. E chissà se era proprio il potere che voleva continuare a vederlo lì, in quella “zona rossa” militarizzata ed interdetta, in una continua emergenza ed allerta divenute normali. E allora, forse, la ‘tecnicizzazione’ del mito “Igor il Russo” ha contribuito a creare un perpetuo ed inesorabile allarme.
Lo stesso Basso ferrarese devastato dal caldo, dalle cementificazioni, dalla speculazione edilizia ed industriale, è un mito caduto: è uno spazio dove è caduto il tempo della festa come, sempre secondo Furio Jesi, è successo nella campagna e nelle colline delle Langhe cantate da Cesare Pavese, un luogo sacro che poi è stato sconsacrato (cfr. ivi: 164-165). Non è più lo spazio sacro dove Ilario combatteva e dove gli uomini pesce si schieravano dalla parte dei partigiani aggredendo gli aggressori nazisti; è un luogo sul quale grava un potere forse anche più oscuro di quello fascista, un misto di tecno-fascismo neocapitalistico. Un luogo in cui la devastazione si misura anche sul numero delle case abbandonate, che la geografa Antonia Nevi non manca di notare. Infatti,
la gente era scappata da lì a ondate, a scrollate, a sburlún, per decenni, fosse pure per vivere a Bologna o anche solo a Ferrara, il punto era andarsene. Le cause erano tante, e avevano agito una appresso all’altra. La società rurale era morta, l’agricoltura era rimasta ma si era trasformata fino a diventare irriconoscibile, poi si erano seguiti modelli sbagliati e la popolazione era in gran parte emigrata, lasciando il territorio deprivato, sguarnito, neosconosciuto e infine impensato, nel senso che era dato per inteso. Ci si rassegnava a una bassoferraresità che sembrava poter essere solo quella roba lì, quella dimensione così lontana da ogni cliché sull’Emilia e la Val Padana tutta, quel disabituarsi ad abitare, quei campi che non erano più contado e dove non vedevi più nessuno, e pure non più di tre generazioni prima pulsavano di vite, di destini, di lotte (Gli uomini pesce, p. 95).
Il potere è dappertutto, e grava sul territorio e sulle persone: è un messaggio che ci comunica Gli uomini pesce, un grande libro in cui ci sono mille altre cose, ma non possiamo davvero qui affrontarle tutte. Non è solo quello brutale e dittatoriale del nazifascismo, è un potere strisciante, invisibile, cinico e meschino che crea allarmi ed emergenze, che militarizza e inventa “zone rosse” a oltranza, che impedisce e racchiude, che nega le evidenze, che cementifica indiscriminatamente uccidendo gli spazi naturali, che genera le prerogative ideali per le devastazioni, gli allagamenti, le morti. E che i personaggi cercano di contrastare dispiegando uno sguardo incantato e incantatore sul loro territorio ferito, un immaginario resistente come è quello offerto dal romanzo.
Per Codice Rosso, Guy van Stratten
Riferimenti bibliografici:
Jesi, Furio, Letteratura e mito, Einaudi, Torino, 1968
Morton, Timothy, Iperoggetti. Ecologia e filosofia dopo la fine del mondo, trad. it. di V. Santarcangelo, Nero, Roma, 2018.
Tondelli, Pier Vittorio, Un weekend postmoderno, Bompiani, Milano, 2009.
Wu Ming 1, Gli uomini pesce, Einaudi, Torino, 2024.