Interviste

Il Bambino e la Città: intervista a Tiziana Villani

“Piuttosto che distribuire ai bambini un po’ di giocattoli, non dovremmo aiutarli ad uscire dal vaso della sabbia e a riconquistare la città?”.

Nel 1978 è stato pubblicato “Il bambino e la città” di Colin Ward, filosofo, architetto e pedagogista che ci permette, ancora oggi, una serie di riflessioni intorno al rapporto che unisce il bambino alla propria città.
Nel 2020 è uscito “L’enfant dans la ville”, con una Prefazione di Thierry Paquot e con una postfazione di Alessio Kolioulis per Éditions Eterotopia France, 2020 , collezione “Rhizome”, Parigi, 2020.

 

Città e bambini.

Colin Ward ci dice chiaramente che “La città è di per sé un ambiente educativo e si può usare la città per educarsi, che si impari grazie alla città, su di essa, che si impari ad usarla, controllarla o trasformarla”. Abbiamo bisogno di cambiare le nostre città, ma le grandi trasformazioni urbane, in atto a partire dagli anni 60, con le accelerazioni provocate dalle ristrutturazioni economiche, sociali e culturali degli anni 80 hanno prodotto una vero e proprio deserto in termini di relazioni sociali, essere insieme e “comunità inconfessabili” necessari alla crescita di ogni individuo, in particolare dei bambini. I luoghi non luoghi di Auge, come i supermercati, i centri commerciali, le autostrade, gli aeroporti sono luoghi che non hanno favorito la relazione umana e soprattutto il crescere e il vivere insieme. Il tempo digitale attuale, con social, piattaforme e applicazioni varie, ha trasformato, ormai antropologicamente, il nostro modo di essere, il tutto amplificato ulteriormente dalla recente pandemia. Eppure rimangono ancora alcuni spazi di resistenza e di speranza che Ward, nel suo libro, riesce a mostrarci, nonostante il tempo trascorso da quando scrisse il libro. Quali spazi cittadini possono essere recuperati e restituiti alle nuove generazioni?
Ma cosa ci può insegnare ancora questo libro e i suoi molteplici piani di lettura?

TV. Più che una questione di spazi riprenderei da Colin Ward il suggerimento di creare delle cartografie cognitive, i bambini secondo l’autore che riflette sulla scorta degli studi di Bishop hanno una capacità di elaborare lo spazio che è addirittura più anticipata e più profonda rispetto alla sua successiva descrizione. Le città attuali non prevedono questi vagabondaggi infantili, gli itinerari sono molto predefiniti, gli spazi loro assegnati ben perimetrati. I bambini oggi non vivono più la strada. Colin Ward suggeriva, certo il suo è un libro pubblicato nel 1978, l’importanza dell’esperienza vissuta intesa come fattore non solo di scoperta, ma di vera e propria messa in azione di quelle pratiche di relazione utili poi a comprendere i conflitti, le diseguaglianze, le possibilità accessibili e quelle chiuse. I bambini considerati da Ward abitano città come Londra, ma anche metropoli come New York o altre megalopoli del mondo. I bambini sviluppano una conoscenza cronobiologica della città, una conoscenza scandita dalle scoperte, da dettagli particolari, da eventi, questo modo di sperimentare la città è cancellato dagli adulti che sono costretti a scandire i loro tempi in ragione del lavoro, del pendolarismo, degli acquisti e anche del cosiddetto ”tempo libero”. Anche in condizioni di marginalizzazione la città offre ai bambini delle aperture che vengono ridisegnate dalle loro esperienze che serviranno poi a gestire se stessi lungo quel divenire che è spesso il rituale di domesticazione verso la vita adulta.

La memoria.

“Che senso ha la struttura della città per un futuro cittadino? Ogni lettore che fruga nei suoi ricordi ricorderà quanto la sua percezione infantile estendesse tutto ciò che lo circondava, il pavimento, le pareti, i mobili di casa, l’appartamento in cui è cresciuto, i corridoi conducenti da una stanza all’altra, scalini, scale, cortile, giardino, porta d’ingresso, strada, negozi e giardino pubblico. Probabilmente non ricorda più come tutto questo abbia formato un tutto che è diventato il concetto di casa, ha nutrito i suoi rapporti con il mondo esterno, e non ricorda nemmeno i buchi che hanno a lungo striato la sua mappa mentale della città”.  Bisogna recuperare e restituire anche la memoria collettiva alle nostre città per permettere alle nuove generazioni di vivere e cambiare i luoghi a venire. Come sensibilizzare la memoria di ragazzi e come far comprendere il legame profondo che unisce ogni nostro ricordo personale ad una storia economica, sociale e culturale che viene da molto lontano?

TV. Si tratta di un percorso difficile, noi viviamo in un tempo che non consente più il vagabondaggio urbano, quella che Benjamin indicava come la flânerie. Per lasciar spazio al ruolo attivo della memoria, direi a quella memoria ancora in parte animale che vive nell’infanzia, occorrerebbe smantellare le nostre abitudini così cronologicamente scandite che finiscono inevitabilmente col rendere l’esperienza dello spazio, un’esperienza opaca, priva di rilievo emotivo. Inoltre l’urbanesimo attuale insiste sulla spoliazione delle identità, delle caratteristiche dei quartieri, omologa e gerarchizza in modo violento lo spazio, il suo uso, l’abitare. Colin Ward ha sempre sostenuto l’importanza di connettere i bambini con le attività della città, per far questo oggi dovremmo fare in modo che la memoria dei bambini possa agire come una potenza decostruttiva, cioè capace di operare tra le stratificazioni che hanno cristallizzato i territori delle nostre città. Questo tipo di memoria è molto corporea, materiale, è molto fisica, visiva, olfattiva, etc. Richiamando Albert Parr, Ward sottolinea come un certo tipo di libertà sia andata perduta e la differenza di classe, lo stigma di un quartiere, di una zona hanno reso sempre più “segnata” la vita dei poveri. Ridisegnare una città oggi non può prescindere da questa considerazione originaria che i bambini fanno dell’abitare, una situazione acuita nel presente dai rituali del dover essere e del consumo all’interno di comunità sempre più slabbrate e meno capaci di lacerare questo diktat della comunicazione. La memoria in questo senso aiuta a riconoscere il modo in cui il potere cerca il potere nelle persone, nelle forme, nelle possibilità. Tuttavia non c’è in Ward nessun cedimento al pessimismo, la sua esplorazione della realtà inclina piuttosto verso pratiche trasformative non messianiche in cui l’individualismo appare perdente. Questa considerazione è più che mai attuale ora, epoca in cui i bambini secondo le sue parole “sono in gabbia.. più che altro prede in un territorio ostile”. Molti sono gli esempi a cui Ward ricorre per evidenziare come sia possibile riappropriarsi dei territori sottratti facendosi altrimenti esperti di nuovi usi e invenzioni. È questo un tipo di memoria che è capace di lavorare con le cicatrici.

Il capitale.

Il capitale uccide la ricchezza sociale. Produce ricchezze private come spinge in avanti l’individuo privato anche se è un mostro pubblico. Aumenta la lotta politica, nella misura in cui gli stati e gli apparecchi di stato lo servono. Quanto alla ricchezza sociale, essa risale ai tempi precedenti: giardini e parchi (pubblici), piazze e viali, monumentalità aperta, ecc. Gli investimenti in questo settore, che talvolta si basano sulla pressione democratica, diventano sempre più rari. Quello che si instaura è la gabbia vuota, che può ricevere qualsiasi merce, luogo di transito, di passaggio, dove le folle si contemplano (esempio: il Centre Beaubourg – Forum a Parigi – Il Trade Center a New York). L’architettura e l’architetto, minacciati di sparire, si arrendono davanti al promotore, che spende i soldi. (Henri Lefebvre)
Bisogna comunque arrivare a fare i conti con il capitalismo, il suo sistema economico, il suo sistema culturale e il suo essere ovunque e comunque, che nelle sue ultime forme digitali, sembra superare, in pervasività, il potere che sorveglianza di Foucault o le società di controllo di Deleuze.
Possono le città, le bambine e i bambini che ci vivono, i molteplici e invisibili rapporti sociali di oggi costituire dei punti di resistenza alle dinamiche attuali del potere e del capitale?

TV. La riconfigurazione degli spazi urbani crea delle mappe in primo luogo votate allo svuotamento della residenza in funzione della terziarizzazione e quaternizzazione degli spazi, tutto ciò in primo luogo per meccanismi di rendita e inoltre per avviare processi di espulsione progressiva degli abitanti, soprattutto non abbienti verso aree esterne. Questi sono processi di desertificazione che in questa fase ad esempio hanno mostrato la loro limitata capacità di sapersi reinventare. Non credo che questo sistema possa essere “ricucito” o “rammendato” come si suggerisce da più sponde dell’architettura contemporanea. Forse bisognerebbe optare per quelle pratiche comunitarie di riuso, di reinvenzione cui fa riferimento Ward, queste appaiono più vivaci nelle periferie che nei mausolei che disegnano gli skyline del contemporaneo, luoghi che oggi appaiono aree fantasma, giustamente occupate (ora) sempre più da senzatetto che transitano attraverso questi “deserti luoghi”. Credo che si stia assistendo ad una vera e propria trasformazione del simbolico e dell’uso delle metropoli contemporanee;  questi in ogni caso non sono mai stati luoghi per bambini, non sono spazi da esplorare, sono spazi quadrettati come avrebbe detto Foucault.

La scuola

Ma in ogni modo la scuola dovrebbe rimanere al centro del progetto sociale delle nostre città. Più semplicemente la scuola sono i bambini; ma forse i bambini “non producono ricchezza, i bambini, non votano, non hanno alcun peso politico. Eppure sono la miniera più inestimabile: coloro che ci continueranno, a cui trasmettiamo sapere affinché portino avanti il mondo dopo di noi e lo cambino in meglio. Senza questo passaggio di testimone, senza questa prospettiva, cosa ha senso?” (Silvia Avallone – “La scuola diventi la casa di chi studia”). Ward, nel suo libro, scrive chiaramente che l’educazione scolastica deve aiutare le persone a capire, controllare e cambiare il proprio ambiente. Deve inventare modelli e sistemi scolastici pieni di fantasia, ricchezza creativa e varietà. In questo senso la città deve essere vista come un insieme di “laboratori per l’apprendimento” dove anche le piazze, i parchi, gli impianti sportivi, le strade e le feste rionali devono essere inseriti nella normale vita scolastica quotidiana. La scuola deve essere davvero il centro dei progetti sociali e urbanistici di ogni città?

TV. Colin Ward ha sempre sostenuto l’idea di un insegnamento capace di seguire il percorso di crescita dei bambini, non si è mai schierato dalla parte della scolarizzazione obbligatoria, piuttosto ha insistito sull’idea di coniugare le conoscenze “adulte” con quelle infantili, di seguirne il percorso piuttosto che addestrarlo. Non è solo la scuola, l’istruzione ad essere entrata in crisi quanto la disposizione a condividere esperienze e saperi in un ambito di comunità, lo screditamento della capacità critica, dell’agire in modo autodeterminato e il più possibile consapevole è uno svilimento che si è diffuso tra le molte pieghe del sociale e attraversa le classi. Conoscere non è più sinonimo di possibile emancipazione, ma di superfluo. La scuola dovrebbe ripartire da qui, da questa centralità disconosciuta perché non funzionale al progetto della scuola/impresa. La scuola dovrebbe tornare ad essere, come insegnano autori come il nostro, ma anche Fachinelli e molti altri, un luogo di esplorazione, di rafforzamento dell’immaginazione piuttosto che un’istituzione di addestramento alle competenze peraltro in continuo mutamento. Per tali motivi la scuola si nutre del territorio in cui è inserita, se invece vi si colloca come una monade non potrà che essere un luogo di esclusione. Escursioni, iniziative, momenti collettivi di condivisione di esperienze vissute, di espressioni creative sono il modo migliore per favorire questo approccio.

 

Biografia:
Tiziana Villani, filosofa. HDR, svolge lavoro di ricerca e insegnamento presso Il Collegio di Dottorato «Ambiente e territorio» DICEA, Università di Roma – La Sapienza Dip. INGEGNERIA. È associata all’Università Paris 8 UFR. Professore di «Fenomenologia dell’arte contemporanea» presso il Dipartimento «Visual Arts and Curatorial studies», dell’Accademia NABA di Milano. È direttore delle Edizioni Eterotopia France www.eterotopiafrance.com e della collana/rivista «Millepiani» e «Millepiani/Urban»  www.millepiani.org