Internazionale

La Globalizzazione neoliberista – Origini e sviluppi

Due importanti contributi di giovani studentesse sulla globalizzazione:

La Globalizzazione neoliberista

Uno sguardo al complesso fenomeno che ha interessato l’umanità negli ultimi 40 portando importanti cambiamenti in molti campi
La globalizzazione è comunemente definita come un processo di integrazione e interconnessione tra gli stati dal punto di vista economico, politico e culturale.
Dal punto di vista economico, si caratterizza per un aumento straordinario delle transazioni finanziarie e degli scambi internazionali di beni e servizi, che ha determinato la creazione di un unico sistema economico mondiale.
Politicamente, vede gli stati nazionali in crisi poiché il potere decisionale viene spesso esercitato da organismi sovranazionali e si osserva l’estensione del modello della democrazia liberale occidentale a livello globale.
Culturalmente, la globalizzazione ha portato all’universalizzazione del modello culturale occidentale, soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione che diffondono modelli di consumo europei e statunitensi, spesso descritta come l’imposizione a livello globale della cultura americana “McWorld”, orientata alla creazione di una società universale dei consumi.
La globalizzazione è stata determinata da vari fattori, tra cui l’adozione di politiche neoliberiste in campo economico e commerciale, la liberalizzazione della circolazione dei capitali (deregolamentazione), la riduzione dei tempi e dei costi di trasporto delle merci, l’innovazione nel campo delle telecomunicazioni, la crescita delle multinazionali nel numero e nelle dimensioni, l’abbandono del sistema socialista in URSS e nei suoi stati satellite (1989-1991) e la transizione della Cina al capitalismo (1980-2001) e lo sviluppo di associazioni economiche regionali e accordi fra blocchi regionali (es. UE, USMCA, MERCOSUR, ASEAN).
Tra i soggetti principali della globalizzazione vi sono le imprese multinazionali, che facilitano il trasferimento di capitali, tecnologia e competenze tra le diverse macroregioni mondiali, e le organizzazioni intergovernative che giocano un ruolo fondamentale nella gestione della globalizzazione, come l’ONU (a carattere politico), il WTO (ispirata a politiche neoliberiste), il FMI (che finanzia il debito dei paesi), la Banca Mondiale (che fornisce prestiti per investimenti produttivi) e i forum delle principali potenze economiche mondiali come il G7 e il G20.
Gli effetti della globalizzazione sono molteplici.
Dal punto di vista economico e sociale, ha determinato una forte crescita economica di alcuni paesi emergenti (Cina, India in primis) e a una bassa crescita o stagnazione economica di alcuni paesi meno sviluppati, trasferendo milioni di posti di lavoro nei paesi in via di sviluppo e causando la precarizzazione e riduzione di diritti e salari dei lavoratori nei paesi avanzati. Oltre 1,1 miliardi di persone sono uscite dalla povertà estrema, di cui 800 milioni solo in Cina, ma al contempo si sono acuiti gli squilibri socio-economici e territoriali sia interni agli stati che su scala globale, modificando la struttura sociale con l’ascesa dei ceti medio-alti nei paesi emergenti e l’arretramento dei medio-bassi nei paesi avanzati.
Culturalmente, ha portato all’omogeneizzazione culturale sul modello occidentale, rischiando di estinguere tradizioni e lingue, e per reazione alla crescita dei movimenti fondamentalisti e, soprattutto nei paesi sviluppati, al ritorno dei nazionalismi.
Politicamente, ha ridotto il ruolo degli stati e causato la crisi degli stati-nazione, favorendo la ripresa delle forze politiche ispirate al nazionalismo.
Dal punto di vista ambientale, ha causato un aumento del consumo di risorse rinnovabili e non rinnovabili, l’inquinamento di aria, acqua e suolo, il riscaldamento globale e conseguenti cambiamenti climatici, la deforestazione, erosione e consumo del suolo, desertificazione e perdita di biodiversità.
Le politiche neoliberiste, fondamentali per la globalizzazione, si basano su: riduzione delle barriere commerciali, deregolamentazione della circolazione dei capitali, privatizzazione dei servizi pubblici, riduzione della spesa sociale e degli investimenti produttivi da parte dello Stato e alleggerimento dell’imposizione fiscale, soprattutto sui redditi più alti.
Il Washington Consensus, formulato nel 1989 dall’economista John Williamson, comprende dieci principi economici: disciplina fiscale, riorientamento della spesa pubblica, riforma fiscale, liberalizzazione dei tassi d’interesse, tassi di cambio competitivi, liberalizzazione del commercio, liberalizzazione degli investimenti diretti esteri, privatizzazione delle imprese statali, deregolamentazione del mercato finanziario e protezione della proprietà intellettuale. Questi principi hanno guidato le politiche economiche di molti paesi, promuovendo il libero scambio e la deregulation come strumenti per stimolare la crescita economica globale.
La strategia della delocalizzazione industriale ha visto molte imprese trasferire la produzione nei paesi in via di sviluppo per sfruttare i costi inferiori della manodopera, le normative ambientali meno rigide e gli incentivi fiscali offerti da questi paesi. Questo fenomeno ha contribuito a ridurre i costi di produzione e a incrementare i profitti delle multinazionali, ma ha anche causato una perdita di posti di lavoro nei paesi sviluppati e ha generato nuove sfide economiche e sociali sia nei paesi d’origine che in quelli di destinazione.
La crescente rivalità tra Stati Uniti e Cina rappresenta il principale conflitti geopolitico e geoeconomico contemporaneo. Il recente aumento dei dazi statunitensi sui prodotti cinesi segna una svolta significativa, indicando la fine di un’epoca dominata dal libero scambio e dalla cooperazione economica internazionale. Gli Stati Uniti hanno reintrodotto i dazi per varie ragioni, tra cui la volontà di contenere la crescita cinese, riequilibrare il deficit commerciale con la Cina e proteggere le industrie nazionali dalla concorrenza estera. Questo ritorno al protezionismo riflette una crescente sfiducia e tensione tra le due superpotenze, con implicazioni profonde sia sul piano economico che su quello politico. L’aumento delle barriere commerciali e l’inasprimento delle politiche protezionistiche potrebbero ridurre il volume degli scambi internazionali e influenzare negativamente le catene di approvvigionamento globali (supply chain), con ripercussioni su molteplici settori economici a livello mondiale.
Dal punto di vista politico, questo scontro potrebbe alimentare ulteriormente le tensioni geopolitiche e favorire la formazione di blocchi economici rivali, minando la cooperazione internazionale su questioni globali come i cambiamenti climatici e la sicurezza globale.
Inoltre, la competizione strategica tra Stati Uniti e Cina ha innescato una corsa al riarmo, con potenziali rischi per la stabilità internazionale.

Adelaida Kalliku

Attività svolta nell’ambito del progetto Contemporanea..mente

Origine e sviluppi della globalizzazione neoliberista
Dalla fine di Bretton Woods all’attuale rivalità Usa-Cina: evoluzione geoeconomica e disuguaglianze globali

L’origine della globalizzazione
La genesi del processo di globalizzazione viene ricondotta da autorevoli economisti, come il prof. Bruno Amoroso, al 15 agosto 1971 quando il presidente statunitense Nixon, a causa delle corpose spese della guerra in Vietnam, dichiarò la fine della convertibilità del dollaro in oro e dei cambi fissi fra le valute, stabiliti negli accordi di Bretton Woods del 1944. Questi ultimi avevano come terzo pilastro fondante la centralità del dollaro come moneta di riferimento degli scambi internazionali. Questi accordi avevano stabilito le regole della nuova fase economica e finanziaria che si sarebbe aperta dopo la Seconda Guerra Mondiale.
La possibilità per la Federal Reserve di poter stampare moneta per coprire le spese di bilancio senza vincoli rispetto alle riserve auree possedute, creò le condizioni affinché il sistema finanziario mondiale venisse inondato da una grandissima quantità di dollari, soprattutto dopo la crisi petrolifera del 1973. Infatti, l’impennata di 3 volte e mezzo del costo del greggio, essendo quest’ultimo quotato in dollari, aumentò copiosamente la richiesta e l’emissione di biglietti verdi legati al petrolio che, per questo, vennero definiti petrodollari.
Così, i soggetti istituzionali, come governi, banche e fondi d’investimento, che possedevano o avevano in deposito ingenti quantità di dollari iniziarono a fare pressione affinché venissero tolte le barriere alla libera circolazione dei capitali, come in effetti avvenuto negli anni successivi. Questo possiamo definirlo come il fenomeno che ha innescato la globalizzazione nel settore finanziario.
Parallelamente, nel settore commerciale, ovvero quello di scambio dei beni e servizi, si innescò un processo di riduzione/abbattimento delle barriere doganali che gradualmente portarono alla liberalizzazione dei commerci.

Il sistema globale e la classificazione geoeconomica
Questi due fenomeni, a partire dagli anni ’80 determinarono in primo luogo, l’aumento delle transazioni finanziarie, e poi l’aumento degli scambi commerciali, tanto che già negli anni ‘90 le merci e i capitali si spostavano liberamente nel cosiddetto sistema globale, così definito dal geografo Dinucci nell’omonimo manuale di geografia economica.
I paesi più sviluppati iniziarono così a cercare localizzazioni economiche dove ridurre al minimo i costi delle produzioni per poi indirizzare i prodotti finiti in paesi ad economia avanzata, i cosiddetti mercati ricchi, dove potevano essere venduti in quantità ed a prezzi maggiori, creando enormi profitti e una forte concentrazione del capitale.
All’interno di questo unico sistema economico globalizzato hanno proliferato e sono cresciute di dimensioni le società multinazionali, vera forza propulsiva dell’intero processo, che, almeno nella fase iniziale appartenevano in netta prevalenza al cosiddetto Nord economico vale a dire quelli dell’Unione Europea, dell’America del Nord e dell’Oceania.
Nel 1981 fu tracciata per conto dell’ONU la cosiddetta linea Brant che separava i due emisferici economici: quello del Nord, chiamato anche Nord economico, in cui sono localizzate le regioni più sviluppate, come quelle sopracitate, e il Sud economico, dove si trovano le regioni meno sviluppate, divise in Paesi in via di sviluppo (Pvs) e Paesi meno sviluppati (Pms). A questa suddivisione dello spazio geoeconomico mondiale se ne aggiunge un’altra probabilmente più funzionale a interpretare ad inizio nuovo millennio il processo di globalizzazione. Sono state infatti individuate tre aree geoeconomiche distinte: il centro, ovvero un numero limitato di paesi che esercita il controllo del sistema globale grazie all’egemonia in campo finanziario e alla superiorità tecnologica (America del Nord, Europa e Oceania), la semi periferia, dove vengono delocalizzate le produzioni ed è costituita dalle potenze emergenti sia su scala globale che regionale (es. Brasile, Messico, Argentina, Russia, India, Arabia Saudita, Sudafrica ecc.) e periferia, zona in cui si trovano le regioni meno sviluppate e si trova al margine del sistema globale al quale fornisce materie prime energetiche, minerarie e agricole (es. Africa subsahariana).

Politiche neoliberiste e “Washington consensus”
In generale, la globalizzazione possiamo definirla come neoliberista, guidata cioè dai principi economici del neoliberismo.
Quest’ultimo, come ideologia economica, ha preso forma negli anni ’70 e ’80, influenzato profondamente dalle idee di economisti come Milton Friedman e Friedrich Hayek. Friedman, attraverso la Scuola di Chicago, promuoveva il libero mercato e l’importanza del monetarismo, ovvero una teoria economica che sottolinea l’importanza della gestione della quantità di moneta in circolazione nell’economia. Hayek invece, con il suo lavoro su “La strada della servitù” poneva l’attenzione contro il controllo statale e sull’importanza della libertà individuale. Queste idee si diffusero notevolmente nei contesti economici e politici dell’epoca, caratterizzati da stagflazione e crisi economiche.
Le idee neoliberiste sono state adottate da leader politici come Margaret Thatcher nel Regno Unito e Ronald Reagan negli Stati Uniti. Entrambi hanno promosso politiche di deregolamentazione, privatizzazione e riduzione delle tasse, con l’obiettivo di ridurre l’influenza dello stato nell’economia e aumentare la crescita economica, senza tenere conto dei costi sociali a carico delle fasce più deboli di popolazione. Queste politiche hanno avuto un impatto significativo, trasformando le economie dei rispettivi paesi e influenzando profondamente la politica economica globale.
Negli anni ’90, dopo la caduta del comunismo e la fine della Guerra Fredda, la globalizzazione neoliberista si è sempre più diffusa. Questo ha portato a una maggiore apertura dei mercati globali e a riforme economiche in senso liberista in molti paesi in via di sviluppo.
Nel 1989, venne coniato, dall’economista J. Williamson, l’espressione “Washington consensus” che stava ad indicare l’insieme di politiche economiche volte a ricreare le condizioni favorevoli per ottenere nel breve termine stabilità e crescita economica. Indica, nello specifico, un esempio di sviluppo imposto dalle istituzioni di Bretton Woods (Fmi e Bm), che prevede l’adozione delle seguenti riforme: stabilizzazione macroeconomica, liberalizzazione (dei commerci, degli investimenti e finanziaria), privatizzazione e deregolamentazione.

La delocalizzazione industriale
Altro fattore caratterizzante della globalizzazione è la delocalizzazione industriale ovvero una strategia industriale che prevede la scomposizione del processo produttivo nelle varie filiali e la loro localizzazione in localizzazioni che prestano questi vantaggi: manodopera a basso costo, mancanza di organizzazione sindacali combattive, legislazione in campo ambientale permissiva, regimi fiscali favorevoli, dazi doganali che vengono ridotti dove vengono create delle ZES (Zone Economiche Speciali), possibilità di utilizzare risorse nel paese ospitante, penetrazione commerciale nel paese che ospita le filiali (es. Nissan nella Ue).
Da qui, comprendiamo come i paesi in via di sviluppo siano praticamente fondamentali per il processo da globalizzazione in quanto forniscono una serie di fattori che permettono la produzione di beni a bassi costi per poi essere venduti a un costo maggiore nei paesi con economia avanzata. In questo modo, il paese ospitante riesce in parte a migliorare le sue capacità economiche grazie a un piccolo sviluppo ma nonostante ciò, non riesce comunque ad avvicinarsi alla grandi potenze che ne manterranno sempre il controllo.

Gli effetti della globalizzazione
Ovviamente la globalizzazione è stato un processo che ha portato a diversi cambiamenti con i conseguenti effetti in campo economico, sociale, culturale, e politico.
Nella sfera economica, oltre ad essersi sviluppata una forte crescita di alcuni paesi emergenti (es. India, Cina e altri paesi asiatici), si è registrata una bassa crescita o stagnazione economica di alcuni paesi meno sviluppati, oltre al peggioramento delle aree rurali, e al trasferimento di milioni di posti di lavoro nei paesi in via di sviluppo, a causa della delocalizzazione. Inoltre è avvenuta anche una riduzione della povertà.
Invece in campo sociale si è verificato un aumento dei flussi migratori internazionali e una modificazione della struttura sociale: i ceti medio-alti dei paesi emergenti hanno evidenziato un’ascesa, mentre i medio bassi del Nord un arretramento.
Dal punto di vista culturale è aumentata la diffusione del modello occidentale con il conseguente rischio di estinzione di tradizioni e lingue. È avvenuta poi una crescita dei movimenti fondamentalisti e integralisti, oltre alle riprese di nazionalismi e populismi, che hanno portato la diffusione di xenofobia e razzismo. Per giunta in campo politico c’è stata una riduzione del ruolo degli Stati (crisi degli stati) e la ripresa delle forze politiche che si ispirano al nazionalismo.
Da non dimenticare sono anche tutta quella serie di effetti ambientali come l’aumento del consumo di risorse rinnovabili e non, l’aumento dell’inquinamento di aria, acqua e suolo, il riscaldamento globale e i susseguenti cambiamenti climatici, deforestazione, erosione e consumo di suolo, desertificazione e la perdita di biodiversità.
In generale la globalizzazione ha prodotto un notevole aumento delle ricchezze mondiali ma coloro che ne hanno beneficiato maggiormente sono due gruppi di persone: il primo è rappresentato dalla classe media nei paesi in via di sviluppo (es. India, Cina), il secondo è il famoso top 1% ovvero gli oligarchi proprietari di multinazionali e di fondi di investimento, come Black rock, Vanguard e State street.
D’altronde la globalizzazione non è stata proprio del tutto inclusiva. Di fatto miliardi di persone in Asia, Africa e America Latina ne sono state escluse, e le classi medie e basse nei paesi sviluppati hanno visto peggiorare le loro condizioni di vita. Questo è spesso dovuto all’aumento della concorrenza globale che porta alla perdita di posti di lavoro, alla precarizzazione del lavoro, e alla diminuzione dei salari nel paesi del Nord.
In generale, la globalizzazione ha portato dei benefici per alcune persone e regioni, ma ha anche generato delle disuguaglianze sociali ed economiche che andrebbero affrontate tramite politiche pubbliche mirate alla protezione delle fasce più vulnerabili della popolazione e alla promozione di un’economia più inclusiva e sostenibile.

Lo scontro tra Usa e Cina sospinge il processo di deglobalizzazione
Ora però è necessario porre l’attenzione sui rapporti economici Cina – USA. Questo perché la Cina, a differenza di tanti paesi in via di sviluppo, ha mantenuto saldo il suo potere politico e soprattutto l’ha tenuto diviso dalle grandi oligarchie economiche interne le quali non hanno mai potuto influenzare la conduzione politica del paese. Inoltre, è riuscita a mantenere il controllo pubblico delle grandi banche e dei settori strategici dell’economia.
Un esempio su tutti è che oggi la Cina è in grado di produrre interamente automobili elettriche in modo autonomo e di esportarle in tutto il mondo. Questo però, non è visto di buon occhio dagli Stati Uniti che vedono insidiata la loro leadership, quindi il presidente statunitense Biden a maggio 2024, seguendo l’esempio di Trump del 2018, ha aumentato i dazi doganali, negando di fatto il “Washington consensus”, su molti prodotti esportati dalla Cina. Ecco che, negli USA, sta ritornando sempre di più il protezionismo, favorendo le merci “Made in Usa” rispetto alle altre.
Ecco alcuni esempi sull’aumento dei dazi:
* auto elettriche, aumento dal 25% al 100%
* batterie, grafite e terre rare, dal 7% al 25%
* gruppo portuali, aumento dallo 0 al 25%
* celle solari, dal 25 % al 50%
* semiconduttori, aumento dal 25 al 50%
* alluminio acciaio, dal 7,5% al 25%
La Cina non è stata indifferente a questi aumenti. Un esponente del governo cinese, Wing Yi, ministro degli esteri, ha dichiarato che “Questo è un tipico atto di bullismo che ha messo in luce la mancanza di sfiducia piuttosto che la forza di Washington” e che sottolinea, “non fermerà lo sviluppo della Cina, ma al contrario ispirerà 1,4 miliardi di cinesi a lavorare di più”.

Conclusioni
La globalizzazione in senso lato ha liberalizzato i commerci, le culture e le politiche mondiali. La ricchezza prodotta però, è stata accaparrata per la maggior parte dal famoso top 1% mondiale, quindi dagli oligarchi, e la parte restante dalla borghesia dei paesi in via di sviluppo.
La globalizzazione in questi anni ha poi sottolineato la forza ma soprattutto l’egemonia dei paesi sviluppati, in particolare degli USA, rispetto ai paesi in via di sviluppo che continuano a fornire forza lavoro a basso prezzo. Soltanto la Cina sta tenendo banco grazie alla sua forza politica e al controllo che ha sulle sue banche e sui settori strategici dell’economia. Perciò è riuscita a non farsi sottomettere al controllo delle grandi multinazionali ed ha accumulato capitali e sviluppato tecnologia in proprio ed oggi è divenuta leader nella produzione di auto elettriche e dei prodotti per le energie rinnovabili. Questo ha fatto sì che gli USA aumentassero notevolmente i dazi per ridurre la competitività dei prodotti cinesi e farne calare le vendite tanto che, già a partire dal 2012-2013, stiamo sempre più andando incontro alla fine della globalizzazione neoliberista come la conosciamo oggi dato l’avvento del Reshoring, nuova strategia industriale caratterizzata dal rimpatrio di attività industriali o di servizi precedentemente delocalizzati all’estero, il cosiddetto “Back to manufacturing” .
Dopo la pandemia il Reshoring si è articolato in varie forme soprattutto a seguito della frattura geoeconomica causata dalla guerra in Ucraina e dalle sanzioni occidentali. Una di queste è il Friend-shoring, processo tramite il quale la produzione si sposta in un paese alleato.
Inoltre, questo ritorno al protezionismo sta portando a una crescente instabilità economica e politica a livello globale. Le politiche di restrizione commerciale stanno causando tensioni tra i paesi e aumentando i rischi di una guerra commerciale. Ciò potrebbe portare a una diminuzione degli scambi internazionali, alla perdita di posti di lavoro e alla riduzione della crescita economica.
In conclusione, tutto questo sottolinea che il controllo dell’economia mondiale si trova nelle mani di pochi grandi economico-finanziari o comunque di pochi paesi. L’altra parte del mondo è una pedina mossa a piacere, mossa però dal più forte, dal più ricco, dal più armato o da chi in ogni momento può fare il bello e cattivo tempo. Solo la Cina al momento è riuscita a sottrarsi al ruolo di paese subordinato e a perseguire un modello di sviluppo che persegue l’interesse nazionale e la cooperazione internazionale su basi paritarie che portano vantaggio a tutti, i cosiddetti rapporti win-win.
La globalizzazione sarebbe concettualmente un’idea perfetta se ci fosse una distribuzione equa della ricchezza, se la differenza tra un paese e l’altro fosse solo per dimensioni e non per il PIL pro-capite.
Soluzioni? Forse il buon senso, ma è solo fantasia.

Francesca Simi 

Attività effettuata nell’ambito del progetto Contemporanea..mente

 

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