Negli anni ’30 esisterà ancora il calcio italiano?
Se vuole una risposta secca alla domanda presente nel titolo possiamo dire: si. Il resto della risposta è, invece, modulato in modo differente, specie se si riavvolge il nastro degli ultimi dieci anni di calcio italiano. La crisi delle proprietà italiane di grandi squadre (Inter, Milan, Roma) all’inizio degli anni ‘10, assieme alla decadenza del complessivo sistema degli impianti, non si è risolta in modo da riportare il calcio nazionale a cosa era ancora a cavallo tra gli anni ‘90 e 2000: una industria fiorente, di qualità circondata da un mondo dilettantistico ancora in salute.
Già, perché il calcio è tante cose – PIL e coesione sociale, divertimento e formazione, grandi eventi globali e piccole categorie locali, evoluzione tecnologica e tradizioni artigianali – e la sua lunga crisi impatta sulla ricchezza nazionale come sulle radici della società.
Detto questo il calcio italiano negli anni ‘30, tra meno di otto anni, rischia di essere uno sport definitivamente declassato sul piano dello spettacolo, quindi con un gap ancora maggiore sul quello della redditività, con poche isole di eccellenza, con le grandi squadre alle prese soprattutto con la propria dimensione finanziarizzata, pochi nuovi impianti, con un sistema nazionale d’impiantistica penalizzato dall’assenza d’intervento del Pnrr. Per non parlare dei settori giovanili e dilettanti sempre più in difficoltà in una crisi, complessivamente, di settore industriale e di coesione sociale.
Inutile ricordare quanto PIL, e quante pratiche fuori dal denaro, crescono attorno al calcio dalle professionalità, alle tecnologie, ai legami territoriali e di affinità. E’ meglio forse ricordare che il governo Draghi, invece di potenziarlo, ha abolito il ministero dello sport, lasciando il professionismo nelle esclusive mani della finanza e del mercato dei diritti TV e il resto, sostanzialmente, al proprio destino.
Per capirsi sulle dimensioni del divario economico tra Italia ed Europa: la Lega serie A dai diritti TV incasserà fino al 2024, complessivamente 1 miliardo e mezzo l’anno. La Premier League quasi dieci volte tanto. Senza parlare della ripartizione di questi diritti, delle forme di mutualità e attenzione ai vivai che da noi sono tanto invocate quanto sconosciute. Questo gap economico nel settore più redditizio, i diritti TV che stanno subendo l’ennesima rivoluzione tecnologica (di quelle che da noi portano meno ricchezza), è un enorme campanello d’allarme sui rischi che corre il sistema calcio italiano.
Eppure, dati 2018, ancora il 12% del Pil del calcio mondiale in questi anni è stato prodotto in Italia. A quel punto quello che rischiamo è quello che avviene in altri settori dell’economia nazionale: semplicemente il Pil comincia a essere prodotto altrove.
Quello che serve è ciò che è accaduto in altri paesi – Francia, Germania, Gran Bretagna – quando si è messo mano al sistema. Un ministero dello sport che detta le linee d’indirizzo, un lavoro coordinato tra leghe, federazioni, enti locali e associazionismo calcistico. Ovviamente servono fondi, ben spesi, e un indirizzo politico preciso. Quello che fa rinascere un settore che è industria dell’intrattenimento – a livello professionistico – e coesione sociale a livello dilettantistico. Un settore ecosostenibile dal punto di vista culturale e ambientale e urbanistico perché le ristrutturazioni degli impianti sportivi orientano quelle della città. E qui torniamo alla domanda iniziale. Con questi presupposti che mancano ci sarà ancora calcio in Italia negli anni ‘30? Per ora l’unica prospettiva visibile è quella di uno sport ulteriormente impoverito.
Per codice rosso, nlp