Visioni

Quando lo spettacolo genera mostri

Dopo la visione della recente docu-serie Netflix Il caso Yara – Oltre ogni ragionevole dubbio (2024) diretta da Gianluca Neri, sorgono spontanee alcune riflessioni:

1) Perché una serie TV, pure se sotto forma di documentario, su un fatto di cronaca nera? L’argomento di cui tratta è, infatti, l’omicidio di Yara Gambirasio, avvenuto a Brembate di Sopra nel 2011. È un avvenimento terribile di cronaca, la sparizione e l’uccisione di una ragazzina di tredici anni. Perché, un fatto di questo tipo, intriso di dolore e di violenza, dovrebbe apparire sullo schermo sotto forma di serie TV, cioè sotto forma di spettacolo? Tanto più che, nel 2021, era stato realizzato anche un film (Yara, di Marco Tullio Giordana), sullo stesso avvenimento. Certo, spesso il cinema e la finzione si sono ispirati alla realtà e si possono fare film e serie TV sulla vita di personaggi famosi, su eventi storici, su tragedie e guerre che sono avvenute nel passato. Ma qui si tratta di un omicidio efferato che ha spezzato la vita di una bambina. Fino a che punto è giusto che il dolore della famiglia e delle persone a lei più vicine diventi qualcosa di dominio pubblico? Qualcosa di spettacolare? Su come ciò possa avvenire nell’Italia contemporanea, parafrasando l’espressione giuridica del titolo della serie, potrebbero sorgere molti ragionevoli dubbi. Ebbene, probabilmente bisogna andare a ricercare la nascita di questo tipo di spettacolarizzazione diffusa – anche dei fatti di cronaca più efferati – in un periodo che segna un vero e proprio spartiacque epocale, cioè gli anni Ottanta, che non sono soltanto gli anni della Milano da bere e del rampantismo ma anche della massima diffusione di riviste e rotocalchi come “Gente”, “Oggi” e via di seguito. Sulle pagine e sulle foto di queste riviste tutto diventa spettacolo, anche la morte e la violenza. Non a caso, Giuseppe Genna, nel suo libro Yara. Il true crime (Bompiani, 2023, qui la recensione su “Codice Rosso”) con il rigore e la lucidità che lo contraddistinguono, punta il dito contro la spettacolarizzazione del dolore e della tragedia privati, trovando nella tragica morte di Alfredino Rampi, caduto in un pozzo a Vermicino nel giugno del 1981, quasi l’archetipo della cronaca-spettacolo. Stanno iniziando gli anni Ottanta, e la tragica morte di questo bambino diventa per la prima volta un evento mediatico e spettacolare, quasi si trattasse di “Domenica in” o di “Lascia o raddoppia”. E, naturalmente, nell’Italia degli anni Venti del Duemila, è stata realizzata anche una serie TV sul fatto di Vermicino, Alfredino, una storia italiana (2021); sembra che la contemporaneità funga da cassa di risonanza, con un effetto rebound, per la spettacolarizzazione scatenatasi negli Ottanta: il dolore e le tragedie, negli anni Venti del Duemila, diventano spettacolo dello spettacolo dello spettacolo. E, ovviamente, non ci facciamo mancare neppure una serie TV sull’omicidio di Elisa Claps, avvenuto a Potenza nel 1993 (la giovane studentessa era ufficialmente ‘scomparsa’ fino al ritrovamento del suo corpo nel 2010) con Per Elisa – Il caso Claps (2023).

2) Eppure – e passiamo quindi alla seconda riflessione – tracce di questa ostentata spettacolarizzazione aleggiano già intorno all’omicidio di Ermanno Lavorini, avvenuto a Marina di Vecchiano nel lontano 1969. Anche qui ad essere rapito e ucciso è un bambino di 12 anni e il caso fu al centro dell’attenzione dei mezzi di informazione fra depistaggi, false accuse, intimidazioni e false piste fino a trasformarsi in un evento spettacolare con diverse vittime di linciaggio mediatico. Pier Paolo Pasolini scrisse un “Diario del «caso Lavorini»” in cui denunciava l’ostentata spettacolarizzazione dell’avvenimento affermando iperbolicamente che il cronista del «Paese Sera» e del «Messaggero» sono stati assunti da Fellini “come comparse nel Satyricon”, film che il regista riminese stava girando proprio nel 1969. Una delle accuse infondate cadde su Adolfo Meciani, sposato e padre di famiglia, che segretamente frequentava la pineta di Viareggio (non lontano dal luogo dell’omicidio) per incontri omosessuali. Meciani, arrestato, si uccise nel carcere di Pisa. Pasolini scrisse che i giornali, linciandolo pubblicamente sulle loro pagine, hanno trattato Meciani “come se fosse una cosa, un oggetto”. E, poco dopo, continua: “[la stampa] ha fatto una campagna di pressione sugli inquirenti, e poi ha divulgato su scala nazionale quei famosi nomi e quelle famose vicende che gli inquirenti avevano il dovere di considerare inattendibili, da una parte, o di esaminare comunque con la più assoluta cautela, dall’altra” (P.P. Pasolini, Diario del «caso Lavorini», ora in Id., Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano, 2016, p. 194). La stampa e i mezzi di informazione, divenuti ingranaggi fondamentali della dimensione spettacolare, hanno il potere di creare ‘mostri’ da sbattere in prima pagina (e lo ha anche dimostrato Marco Bellocchio nel 1972 con Sbatti il mostro in prima pagina, in cui campeggia l’interpretazione del grande Gian Maria Volonté). D’altra parte, Pasolini, in una sezione del “Diario” scritta in versi, scrive anche che la stampa e i lettori avrebbero di gran lunga preferito che i sospetti ricadessero su un “negro”: “Direttori, cronisti e milioni di lettori / hanno instancabilmente sperato che il capro espiatorio / – che mettesse loro l’anima in pace – fosse un negro” e “Sono rimasti a bocca aperta, vedendo / il negro divenire bianco mentre stavano per impiccarlo; / e ciò per tre volte” (ivi, p. 181). Il “negro”, nel caso Gambirasio, invece è emerso, eccome: il primo sospettato e fermato per l’omicidio è il marocchino Mohammed Fikri, che lavorava in un cantiere edile della zona in cui fu commesso l’omicidio. E la docu-serie ha il merito di mostrarci come l’Italia, e soprattutto l’Italia di provincia, poco importa se al Nord, al centro o al Sud, sia un paese profondamente razzista: vediamo infatti commenti soddisfatti da parte degli abitanti della zona per l’arresto del colpevole, uno di quegli ‘stranieri’ che ‘ci ruba il lavoro e violenta le nostre donne’. Il “negro” è naturalmente estraneo ai fatti e, come già aveva scritto Pasolini nel 1969, all’improvviso è diventato “bianco”, e cioè Massimo Bossetti. Non ci interessa qui disquisire sul fatto che sia o no colpevole, questo lasciamolo al gossip dello spettacolo. Non si può però non notare, come emerge dalla docu-serie, che questo individuo è stato trattato dai media e dagli inquirenti come una cosa, un oggetto, un reperto passato ai raggi x e non come una persona: la sua vita è stata scandagliata, anche con esiti drammatici, e sbattuta in prima pagina. In Italia, oltre a essere linciati e accusati se si è in qualche modo ‘diversi’, se si diventa vittime della macina dello spettacolo si può perdere qualsiasi dignità umana, in barba alla tanto decantata “privacy”.

3) La terza riflessione è che, quindi, non c’è nessuna differenza fra l’Italia del 1969 e quella contemporanea tranne che, per un fatto: la fiducia indiscutibile nella scienza e, di conseguenza, un suo emergente strapotere spettacolare. Se l’Italia del 1969, probabilmente, possedeva ancora un suo sostrato fatto di credenze e superstizioni, quelle credenze e superstizioni (che, ci mancherebbe, continuano ad esistere anche oggi: basta dare uno sguardo al bell’Almanacco dell’Italia occulta, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, Odoya, 2022) sembrano essere confluite, con un effetto di ritorno, nell’assoluta fede nella scienza. Bossetti è colpevole perché lo ha decretato il DNA: certo, sono indagini e risultati estremamente accurati ma non è possibile sbagliare? Sicuramente, niente e nessuno è infallibile: lo affermano anche autorevoli studiosi nella docu-serie. E poi, perché è sempre stato impedito che si facessero nuove analisi del DNA per confutare o confermare quelle precedenti? Perché non si poteva ammettere di aver sbagliato? Chissà. Fatto sta che la credenza assoluta nella scienza e di conseguenza il suo strapotere sono emersi recentemente in un evento traumatico che ha segnato la vita del paese, l’emergenza Covid. Ogni giorno il paese intero stava incollato al teleschermo ad ascoltare i dati forniti dalla scienza e in nome di questi dati quello stesso paese è stato posto agli arresti domiciliari. Erano i virologi, esponenti quindi della scienza medica, a regolamentare la vita delle persone; se poi la scienza medica e biologica si unisce allo spettacolo, come è accaduto durante la suddetta emergenza, il gioco è fatto: è così che nasce un potere abnorme. Non sarebbe azzardato affermare che il vero protagonista spettacolare sia del film che della docu-serie sorti dal caso Gambirasio è il DNA. D’altra parte, sempre in più settori scientifici che dovrebbero rimanere relegati allo studio degli esperti si nota invece una deriva spettacolare: dalla scienza medica (sempre nel periodo Covid il primo vaccino si è trasformato quasi in una pop star) fino alla meteorologia, che è divenuta oggetto di diffusione spettacolare e complottistica sui vari siti e sui social. Almeno una volta a parlare di meteorologia in televisione erano seri e pacati signori in giacca e cravatta, come Bernacca, Caroselli e Baroni.

Ci sono ragionevoli dubbi, eccome, su questa deriva spettacolare del paese, che si mescola alla sua essenza biologica fascistoide e razzista. Le serie TV sopra nominate, figlie di questi anni Venti, ben si attagliano all’Italia meloniana, spettacolare e ‘scandalistica’, in cui un ministro si dimette perché irretito in un miserevole palcoscenico da soap opera. Ci sono tanti dubbi su questo spettacolo che ci avvolge e che ogni giorno crea sempre nuovissimi mostri che si muovono in mezzo a noi.

gvs