Questioni di vita o di morte nell’era digitale
Nel corso della storia tutte le culture, con le loro religioni e concezioni del mondo, hanno elaborato strategie rituali per esorcizzare o attribuire un qualche significato alla morte. Per quanto quest’ultima sia stata sempre più allontanata dalla quotidianità e dalla vita pubblica, nei suoi confronti si è dovuta confrontare anche l’attuale civiltà ipetecnologizzata fortemente caratterizzata dalla sua estensione online[1]. Del rapporto con la morte nell’era digitale si occupa da qualche tempo la produzione audiovisiva che, soprattutto proiettandosi su scenari distopici, ha il merito di indurre a riflettere su come questo rapporto si stia trasformando nella realtà contemporanea assumendo forme inedite.
La cultura digitale, come scrive Alessandra Santoro, «sembra impegnata nel tentativo di mettere in discussione la stasi che deriva dall’irruzione che la morte porta nello scorrere del tempo, e lo fa offrendo la possibilità concreta di accumulare tracce con l’intento di conservare una memoria digitale (o eredità digitale) di quello che siamo stati e, in alcuni casi, si propone di rielaborare l’insieme dei dati accumulati nel corso dell’esistenza nel tentativo di realizzare una sorta di immortalità digitale: far sopravvivere i defunti sotto forma di “spettro digitale”, fornendo tecnologicamente un’autonomia vivente ai nostri dati, i quali sottratti dalla sostanza corporea che li animava e incarnandola nostra identità personale, proseguirebbero la vita, in versione digitale, che la morte ha spezzato»[2].
Nel suo ultimo film, The Shrouds (2024), David Cronenberg racconta di un personaggio che, distrutto per la perdita della moglie, realizza una particolare tecnologia capace di fargli mantenere un collegamento visivo con il corpo in decomposizione dell’amata. Per quanto derivata da una sincera e sentita esigenza personale di mantenere in vita il legame con la donna con cui ha condiviso la vita, il protagonista non manca di trasformare la sua invenzione in business mettendola a disposizione di chi può permettersela. Si tratta di una futuristica tecnologia che, attraverso sofisticati sudari che avvolgono i defunti, permette agli utenti di mantenere un legame di tipo scopico con le persone care scomparse continuando ad osservarle dagli schermi collocati sulle lapidi o direttamente dai monitor dei computer e degli smartphone personali. Parallelamente a tutto ciò, il protagonista del film si propone di prolungare la presenza della moglie attraverso un suo avatar digitale gestito dall’intelligenza artificiale con cui struttura un profondo rapporto empatico.
Nella fiction distopica il rapporto tecnologico con la morte, oltre che in The Shrouds, lo si ritrova anche in alcuni episodi della celebre serie televisiva Black Mirror (dal 2011) ideata da Charlie Brooker. Ad esempio, in Torna da me (Be Right Back, 2013) la difficoltà di accettare la morte induce chi resta a mantenersi in contatto con il defunto attraverso un software in grado di rielaborare il materiale che lo scomparso ha condiviso online durante la vita. La questione del rapporto tecnologico con la morte torna anche nell’episodio San Junipero (2016), ove un avanzato programma permette alle persone in vita di trasferirsi per alcune ore a settimana in un universo virtuale di giovinezza e divertimento, permanenza che, su richiesta, al momento della morte può divenire eterna effettuando il definitivo trasferimento della coscienza nel mondo artificiale. Come scrive Alessandra Santoro, nell’episodio San Junipero «il carattere distopico e l’ineludibilità della morte apparentemente sembrano perdersi con la costruzione di un upload in grado di racchiudere la coscienza delle persone in un corpo metallico da proiettare in una paradisiaca eternità virtuale che sembra vincere la morte e la malattia»[3].
Se quanto prospettato da The Shrouds e da alcuni episodi di Black Mirror appartiene alla fiction distopica, il rapporto tecnologico con la morte vanta però non meno inquietanti esempi reali. Tra i tanti servizi che nella realtà contemporanea si propongono di offrire una sorta di immortalità digitale dei dati e della persona scomparsa, vale la pena citare Eterni.me che, memorizzando i dati lasciati quotidianamente nei social e nei servizi online, elabora un individuo artificiale destinato a continuare la sua vita oltre la scomparsa terrena di cui potranno beneficiare coloro che vengono indicati dal cliente come eredi del suo spettro digitale.
Un caso di cui si è discusso molto è quello dello statunitense James Vlahos che, mosso da desiderio di voler continuare a percepire la presenza del padre dopo la sua scomparsa nel 2017, ha elaborato un particolare dadbot, un chatbot AI in cui ha riversato la trascrizione di lunghi racconti della vita del padre richiesti a quest’ultimo a partire dal momento in cui gli è stato diagnosticato un cancro incurabile. I racconti del padre sono così divenuti i dati di base su cui l’AI ha elaborato un chatbot capace di dialogare con il figlio al suo posto, riproducendone anche i tratti caratteriali. Come afferma Guido Scorza nel capitolo I chatbot dell’immortalità, contenuto nel suo recente volume Diario di un chatbot sentimentale (2025), si può dire che al momento della morte del genitore Vlahos assista a un «immaginario passaggio di staffetta tra il vero padre che si spegne e il dadbot che si accende tra le [sue mani, e] pur essendo perfettamente consapevole – avendolo programmato – che si tratta solo di dati, algoritmi e software imprigionati in un dispositivo elettronico, vi cerca conforto»[4].
A differenza di Joseph Waizenbaum che, riflettendo su quanto una tecnologia percepita come umana possa rivelarsi destabilizzante per gli esseri umani, ha finito per pentirsi sinceramente di aver realizzato, attorno alla metà degli anni Sessanta, Eliza, un primordiale modello di chatbot in grado di emulare uno psicoterapeuta, Vlahos, pur non mancando di riflettere criticamente sul suo dadbot[5], come il protagonista di The Shrouds, non si è sottratto dal trasformare in business il suo personale desiderio di mantenere un legame digitale con il parente scomparso, tanto dal lanciare sul mercato nel 2020 HereAfter AI, uno dei primi chatbot realizzati per rispondere al desiderio di immortalità digitale.
Se però inizialmente Vlahos è mosso dal desiderio di rispondere all’esigenza di «un figlio che cerca di garantirsi la possibilità di continuare a parlare con il padre dopo la sua morte», ciò che mette sul mercato risponde al desiderio di «un padre che vuole offrire al figlio questa opportunità»; insomma, ciò che HereAfter AI offre, come sostiene Scorza, è «una sorta di ibridazione digitale a beneficio di chi sopravviverà»[6], una risposta al desiderio di continuare a vivere dopo la morte a beneficio di chi resta. Non si tratta però di tramandare materiale su di sé, ma di lasciare questo materiale nella disponibilità di un chatbot che, in base agli algoritmi che lo governano, plasmerà le informazioni ricevute in maniera oscura ed indipendente rispetto al soggetto di cui si propone come fantasma digitale. Una differenza non di poco conto con cui i creatori di chatbot di questo tipo evitano di fare i conti.
La ricerca di un prolungamento digitale della vita, di un differimento dell’oblio, di dare ai propri cari o a sé stessi una sorta di immortalità, non è affatto una prerogativa occidentale, come dimostra la diffusione in Cina di ghostbots guidati da intelligenza artificiale replicanti il volto e la voce di una persona defunta e capaci di dialogare in maniera naturale anche su questioni mai affrontate in vita dalle persone a cui intendono prolungare digitalmente la vita. Con sistemi di questo tipo l’effetto Eliza, cioè l’incapacità di discernere tra l’umano e la sua simulazione tecnologica, diviene qualcosa in più di un possibile rischio.
La difficoltà di elaborazione della perdita di una persona cara vede sempre più persone cercare conforto nel prolungamento digitale della vita di chi è scomparso. Emblematico il caso della coppia cinese che, una volta perso il figlio mentre studiava da anni in un paese europeo, ha deciso di rivolgersi ad una società esperta nella realizzazione di avatar digitali per ottenere un clone dello scomparso sia dal punto di vista auditivo che visivo prolungandogli l’esistenza sugli schermi. Così facendo la coppia si è assicurata la possibilità di continuare ad incontrare il figlio in maniera audiovisiva, come del resto era solita fare quando era in vita ma dall’altra parte del mondo.
Nuovamente, non si tratta semplicemente di una sorta di maschera mortuaria, di un loop ripetitivo di tracce della vita di una persona scomparsa, ma di un sistema che, a partire dai dati immagazzinati, “decide di suo” come prolungare la vita digitale di un individuo facendogli assumere espressioni e dire cose che non si sono mai date prima. L’effetto Eliza può risultare devastante se si pensa all’impatto emotivo che investe chi, alle prese con la perdita di una persona cara, in una fase di elaborazione del lutto, si trova a rapportarsi con un avatar così abile non solo nel replicarla ma anche nel rendere credibile quanto di nuovo questa produce in termini audiovisivi.
Pur nella consapevolezza di essere di fronte ad agenti artificiali diventa pressoché inevitabile rapportarsi ad essi come se si trattasse di esseri umani e ciò avviene a maggior ragione se questi assumono le sembianze, la voce e il carattere di una persona cara venuta a mancare. L’impatto emotivo determinato da questo prolungamento digitale della vita di una persona cara non incide su chi resta soltanto nella fase di elaborazione del lutto, affrontata in maniera inedita, ma anche nel prolungamento di un rapporto in cui un essere umano viene sostituito da un essere artificiale che lo simula talmente in maniera credibile da essere vissuto da chi resta come se fosse umano veramente.
Per Codice Rosso, Max Renn
[1] Cfr. Christopher M. Moreman, A. David Lewis, eds., Digital Death: Mortality and Beyond in the Online Age, Praeger, Westport, Connecticut 2014; Alessandra Santoro, La digitalizzazione della morte nei media, in «Problemi dell’informazione», Il Mulino, fascicolo n. 2, agosto 2019, pp. 365-376.
[2] Alessandra Santoro, Morte, in Mario Tirino, Antonio Tramontana, a cura di, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale, Rogas Edizioni, Roma 2018, pp. 159-160.
[3]Ivi, p. 163.
[4]Guido Scorza, Diario di un chatbot sentimentale. Come le macchine ci imitano e ci manipolano, Luiss University Press, Roma 2025, p. 45.
[5] Cfr. James Vlahos, Talk To Me: How Voice Computing Will Transform the Way We Live, Work, and Think, Houghton Miffin Harcourt, Boston 2019.
[6] Guido Scorza, Diario di un chatbot sentimentale, op. cit. pp. 52-53.