Visioni

Un orrore perfetto: famiglia, religione, casa e televisione

Scartabellando fra i titoli proposti da Netflix ogni tanto si incontrano dei film davvero interessanti, come questo horror Tin e Tina (2023), diretto dal regista spagnolo Rubin Stein. La storia si incentra su una coppia che non può avere figli e decide di adottare due bambini orfani accolti da un vicino convento. La particolarità più inquietante degli orfanelli è che la loro esistenza appare meccanicamente scandita dalle preghiere e dal seguire quasi alla lettera i precetti biblici e poi dal fatto che sembrano usciti dal film di John Carpenter, Il villaggio dei dannati (1995): sono infatti caratterizzati da un anemico pallore, da strani occhi e da capelli bianchi platinati.

Sono diversi i temi affrontati dal film. Innanzitutto, il materno femminile come mostro, un tema già presente in un capolavoro come Alien (1979) di Ridley Scott. Come scrive Rosi Braidotti, nella tarda postmodernità il corpo materno è al centro dell’economia politica della paura. La madre, infatti – sottolinea la studiosa – “è assimilata al sistema tecnoindustriale; la riproduzione, nella fattispecie la riproduzione di bambini bianchi e maschi, è un bene primario nel sistema monetario postcapitalistico, che tra l’altro ha selezionato la sua stessa prole” (R. Braidotti, In metamorfosi. Verso una teoria materialista del divenire, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 248). Gli spazi domestici e familiari rappresentati nel film appaiono veramente come mostruosi: come ancora osserva Braidotti, oggi, nella letteratura e nel cinema horror e di fantascienza, l’angoscia si manifesta sotto la forma di “alterità interna”, appartenente quindi ad uno spazio familiare, alla casa, alla sfera più intima. La grande casa in cui il marito Adolfo porta la giovane moglie ha tutte le caratteristiche della “casa tomada” (cioè “occupata”, “infestata”) di Julio Cortázar, una dimora avita satura di segreti dai risvolti barocchi. In essa si celano i ‘nemici interni’ più pericolosi: quelli che in realtà sembrerebbero invece i più innocui e inoffensivi, i bambini di casa, i figli, anche se adottivi. D’altra parte (e basta solo dare uno sguardo su Netflix), oggi prolificano i film horror che propongono i personaggi di bambini e ragazzi ‘demonici’, che siano o no i discendenti cinematografici dei rampolli hitleriani venuti dal Brasile: un immaginario legato alle inquietudini della postmodernità (il film di Carpenter è il rifacimento di un omonimo film del 1960 diretto da Wolf Rilla e tratto dal romanzo I figli dell’invasione del 1956).

Un altro tema interessante è la pervasività dello schermo televisivo. Il film è ambientato nei primi anni Ottanta, un periodo segnato un po’ ovunque dal proliferare delle televisioni private e, di conseguenza, degli schermi domestici, divenuti comunissimi oggetti di consumo. Eccolo, dunque, un altro ‘nemico interno’: il televisore che tiene incollata allo schermo la famiglia ma soprattutto il padre, perennemente impegnato ad aggiustare l’antenna per migliorare la ricezione. Intento a guardare i mondiali di calcio di Spagna ‘82, poi, non si accorge che i due orfanelli stanno per far annegare nella piscina, nel tentativo di battezzarlo, il proprio tanto desiderato figlio. Non si può allora non pensare a Videodrome (1983) di David Cronenberg in cui il mostro peggiore non sta fuori di casa, non è un assassino, un violentatore o un efferato ladro che giunge dall’esterno; ma se ne sta già lì, in bella mostra, nel salotto, pronto a trasformarsi in un’arena infernale. Il televisore, grosso, catodico, panciuto e tondeggiante è la terribile divinità pagana che aleggia sull’intero interno domestico. E non c’è solo quello, ma anche un grande e pesante apparecchio stereofonico a cassette, pronto a diffondere orrorificamente di notte per tutta la casa un motivetto infantile rockettaro e ballabile. Come in  Dogtooth di Yorgos Lanthimos, i pesanti apparecchi televisivi e musicali degli anni Ottanta anticipano i sottili e invisibili oggetti digitali di oggi. Più piccoli ma non certo meno pervasivi, anzi. Non è poi un particolare irrilevante il fatto che i due bambini non abbiano mai visto un televisore, essendo vissuti in un monastero di suore quasi medievaleggiante, e chiedono agli stupefatti genitori adottivi cosa sia mai quella specie di scatola.

Il tutto è condito da intelligenti citazioni cinefile: in modo allusivo, “l’angelo sterminatore” che temono i due angelici fanciullini può rimandare all’omonimo film di Luis Buñuel del 1962. Una citazione diretta è invece quella del Nosferatu di Murnau del 1922, che i due anemici fratellini (apostrofati da un bulletto come “figli di Dracula” a causa del loro pallore), guardano in televisione spaventandosi a morte. E noi ci spaventiamo a morte guardando Tin e Tina? No, in fin dei conti. A farci paura è però quel mix micidiale e perfetto di famiglia, religione, casa e televisione. Questo sì che fa venire i brividi.

gvs