Le ferite notturne del potere: “Esterno notte”
La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto «al momento giusto».
Elias Canetti
Dopo Buongiorno notte, del 2003, Marco Bellocchio, con Esterno notte, riporta sullo schermo la vicenda del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro ad opera delle Brigate Rosse. Ma se il film del 2003 era marcatamente pervaso di un habitus onirico, adesso, la ricostruzione della vicenda sembra delinearsi all’interno di un impianto cronachistico più accentuato. Spicca anche stavolta, nel titolo, la parola “notte”. E se l’accostamento “buongiorno notte” rimandava ad una vera e propria antitesi presentata in forma ossimorica, il nesso “esterno notte” riecheggia invece un gergo cinematografico, con una precisa allusione alle tecniche di ripresa. Come se si trattasse di una messa in scena cinematografica il più fedele possibile (un “esterno”) ma girata di notte. Si tratta infatti di vicende ambientate durante la “notte della Repubblica”, sulle quali sembra essere stato posto una sorta di filtro cinematografico appunto per creare l’“effetto notte”, come nell’omonimo film di François Truffaut (il cui titolo originale è La nuit américaine, 1973).
Il film, uscito in questi giorni al cinema, è solo la prima parte di una storia che si dilata fino ad assumere le sembianze di una serie tv (verrà infatti presentato in tv ad ottobre). Questa prima sezione del film si incentra sulle figure che attorniano il personaggio di Moro (interpretato da un bravissimo Fabrizio Gifuni) e non tanto sul suo pensiero o sulla sua volontà di aprire il governo al PCI. La politica di Moro era infatti mirata a garantire una maggiore stabilità e, forse, la fine degli scontri violenti di quell’epoca.
Per la pacificazione del paese, secondo Moro, era necessario far partecipare il PCI al governo, partito che – è detto chiaramente – si presentava come l’alfiere di una politica di “legge e ordine” tanto quanto la DC. Questa prassi politica fu da lui auspicata ed è stata oggetto anche della ricostruzione saggistica e romanzesca realizzata da Leonardo Sciascia con il titolo L’Affaire Moro (1978). Rispetto al film, il libro mostra un Moro più ‘umano’ e straziante nel suo chiedere aiuto agli amici. Nel lungometraggio di Bellocchio, d’altra parte, vediamo tutti i personaggi che partecipano all’“affare Moro”, senza tralasciare la Santa Sede (figura importante della vicenda è Paolo VI, magistralmente interpretato da Toni Servillo), e rende perfettamente manifesto l’inganno del voler far valere un principio a tutti i costi: non cedere a nessuna richiesta dei rapitori. Viene mostrato come le questioni di principio siano in sé sbagliate e siano strumentalizzate per allontanare i personaggi che lavorano per la pace del paese. Tra questi ‘amici’, Andreotti (Fabrizio Contri) è la figura più spaventosa; sappiamo benissimo che manovra le trattative per non salvare la vita dell’amico. Fisicamente sembra una maschera surreale (in modo anche più accentuato rispetto all’affresco del politico offerto da Paolo Sorrentino con Il divo, 2008), artefatta, dai lineamenti che ricordano il cospiratore, il traditore. Il film presenta anche una perfetta ricostruzione delle dinamiche di comunicazione tra un politico e l’altro. Non ci sono mai dialoghi spontanei ma tutto è pervaso della retorica degli ambasciatori che portano le notizie e ai quali si risponde con frasi brevi e sottintesi, esclusivamente di natura politica e mai umana.
La resa cinematografica di Bellocchio mostra anche la pesantezza e l’oggettività del potere, in tutta la sua granitica presenza: alcune inquadrature mostrano scorci architettonici di Roma, come Piazza Venezia, incancreniti in pose di geometrica compostezza, segnati da plumbei rigurgiti di fascismo. I politici percorrono le stanze dei palazzi come tante marionette irreggimentate in percorsi obbligati, costretti a percorrere oscuri corridoi che li fagocitano come tunnel. E se dei personaggi – soprattutto di Moro, ma anche di Cossiga (Fausto Russo Alesi) e di Andreotti – ci viene presentato anche l’aspetto più intimo e privato, ad avere il sopravvento è la loro caratterizzazione ‘pubblica’ che li fa somigliare a delle maschere. Ricordiamo quanto, riguardo ai politici democristiani, scriveva Pasolini nel celebre “articolo delle lucciole”, poi raccolto negli Scritti corsari: “Son certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d’ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto” (P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1995, p. 132). I politici che poi si riuniscono nei loro consessi, nel palazzo del potere, appaiono come tante rigide marionette, molto simili a come vengono affrescati dallo stesso Pasolini in Petrolio, durante la “festa della repubblica”, in cui i potenti sono elencati in modo quasi tecnico, come nella parte relativa al “catalogo degli eroi” dell’epica antica. Anche nel loro aspetto più intimo e ‘notturno’, anche nel loro privato martirio, quei politici sembrano degli automi manovrati da un potere altrettanto oscuro e notturno perché, come continua Pasolini nell’articolo delle lucciole, “i potenti democristiani coprono, con le loro manovre da automi e i loro sorrisi, il vuoto” (ibidem). Un vuoto che è ben visibile nelle strade romane percorse dalle automobili blindate dei potenti, quello scorcio di anni Settanta cadenzato da rabbia e da lotte. E queste ultime, dal momento che nel film sono viste quasi esclusivamente attraverso l’ottica del potere (quando l’auto di Moro si muove lungo un muro coperto di scritte a opera dei vari movimenti di contestazione sembra che scenda all’inferno), vengono caratterizzate, in modo riduttivo, soltanto da violenza e ferocia (almeno in questa prima parte).
Meno male che a stemperare un po’ l’atmosfera plumbea creata dalla pellicola intervengono alcuni momenti di ironia e di abbassamento delle tonalità ‘tragiche’ dominanti. Ad esempio, come se nulla fosse, durante diverse azioni sceniche parte il commento sonoro, ritmato e ballabile, di Porque te vas, un brano di Jeanette del 1974. La prima incursione musicale della canzone interviene a commentare l’apparizione di alcuni elicotteri della polizia che sbucano da dietro i palazzi, visti dalla moglie di Moro che ancora non sa nulla del sequestro. La notte, il martirio, la greve pesantezza di un potere che si scopre ferito sono intrisi anche di connotazioni carnevalesche, ironiche e leggere. E questo ci sembra, senza dubbio, uno dei punti di forza del film.
Per Codice Rosso, Francesca Fiorentin e Guy van Stratten