Recensioni

Il cyberfemminismo di Donna Haraway

Rileggiamo un classico della teoria femminista posthuman: il Manifesto cyborg di Donna Haraway che, uscito negli Stati Uniti nel 1985 sulla rivista “Socialist Review”, presenta nell’edizione italiana una interessante introduzione di Rosi Braidotti.

Il cyborg è una teoria epistemologica femminista e un mito femminista. Donna Haraway crea un mito rivoluzionario. Chi scrive immagina una cosa non scritta dalla filosofa femminista: il cyborg come creatura ideata in laboratorio e poi fuggita. Il cyborg, infatti, non è nato né da uno scienziato, né da alcuno, tantomeno da un progetto scientifico intenzionale, e rappresenta la realizzazione di una perfetta fusione tra macchina e umano. Per un cyborg vengono immediatamente meno i dualismi che il sapere occidentale ha fatto propri: natura/cultura, maschile/femminile, e umano-animale/macchina. L’assunto è che nel cyborg non ci sono barriere dualistiche tra umano e meccanico. Si tratta di un costrutto post metafisico: non è manovrabile politicamente, sia perché conosce il significato degli ordini codificati dalle varie forme del potere, sia perché può smontare e riassemblare i suoi spazi e le sue funzioni e dunque il suo Sé. Quest’ultimo è un insieme di esperienze condivise con altri individui cyborg, una carta dove è tracciato il viaggio nomade di sottrazione al potere occidentale fondato sulle divisioni ontologiche e sui loro relativi valori. E in questo processo può trovare alleanze utili di altri cyborg.

Pensiamo al lavoro precario delle donne, e d’altra parte pensiamo anche alla perdita di posti di lavoro di uomini nelle occupazioni tecnologiche. Il cyborg ha due facce unite in una, sta dalla parte di chi è vulnerabile perché può rigenerarsi come corpo, e si adatta al nomadismo di chi fugge la divisione del lavoro, il capitalismo e la militarizzazione della società. In questa visione l’influenza di Deleuze è importante. Vi può sfuggire perché può attraversare generi e linguaggi. Non possiede il linguaggio della comunicazione perfetta, ma un linguaggio personale, traducibile senza tradizionali criteri linguistici, comprensibile da altri cyborg in maniera imperfetta, ma assolutamente condivisibile. L’integrazione e la solidarietà tra cyborg sono immediati. Esso è un corpo non maschile e non femminile, capace di scegliersi e determinarsi oltre le divisioni omo/etero. Chi è l’artefice del cyborg? Non ha madre, non è nato, non ha avuto uno stato d’innocenza. L’innocenza è un concetto a esso estraneo, come la vittimizzazione. Perché queste idee riguardano generi, classi sociali, divisioni biopolitiche che il cyborg può smembrare, sgusciandone fuori e scegliendo il suo posto di combattimento.

Marcare un corpo femminile come artificiale significa liberarlo dallo stigma della funzione di madre e dall’assegnazione di genere che la natura ha deciso, scioglierlo dal legame con una natura di cui una visione fallocentrica ha stabilito i ruoli e il suo dominio. Il cyborg non è etero, né uomo, né donna ma è in movimento nomadico costante. È la creatura non nata più libera al mondo. Donna Haraway costruisce in tal modo un mito politico fedele al femminismo.

Nel tardo XX secolo è avvenuto uno scambio reciproco tra le macchine che si sono animate e gli organismi che si sono meccanizzati. Non si sa bene chi sia l’artefice e chi il prodotto, tra umano e macchina. Il femminismo socialista postmoderno ha un mondo senza genesi né fine. Il cyborg è una creatura di un mondo post genere, non conosce l’unità con la natura del mondo moderno; non ha avuto uno stato d’innocenza preadamitica. È un Sé postmoderno e collettivo, il cui linguaggio può essere sottoposto all’assemblaggio e al riassemblaggio senza subire il controllo biopolitico. È un dispositivo biotico che elabora informazioni e lotta contro la comunicazione perfetta per un linguaggio di fusione tra animale e macchina. Ciò significa non avere identità, appartenere a una razza bastarda che si muove nel potere dei margini. Il cyborg è un non nato di donna, e non porta il peso della sua vittimizzazione. Il corpo è definito da Donna Haraway come una mappa dell’identità e del potere. Non esiste la matrice riproduttiva o la nascita, ma la rigenerazione. È una decostruzione della soggettività corporea che libera il soggetto dal controllo sociale dei ruoli. Il corpo non è più sede della natura. La diversità tra individui, o l’affinità, deve essere rivalorizzata, non a partire dalla differenza tra maschile e femminile. Il cyborg è eterodossia del desiderio codificato nel genere e apre la strada al soggetto queer.

Il cyborg rende problematica la condizione di uomo, donna, umano, razza, corpo. Il corpo femminile non è più il corpo materno; esclude ogni dualismo e ogni comunicazione universalmente comprensibile. L’oggettività occidentale si forma sulla separazione di mente e corpo. Il linguaggio femminista è ubicato, le sue conoscenze femministe sono situate, non esiste separazione soggetto/oggetto. La macchina è una allegoria femminista, capace in sé stessa di una visione del mondo non soggiogata e con ciò permette politiche di solidarietà e discorsi condivisi. Le ideologie dell’oggettività sono ideologie del potere. Le prospettive parziali aprono nuove investigazioni. Il sistema di conoscenza femminista è decostruzione. Il sapere diventa anche fantastico, il Sé è sempre ricostruito e ricucito imperfettamente, e può vedere come l’altro. Il femminismo ama le visioni parziali e multiple. Il genere è un concetto costruito socialmente, storicamente e semioticamente. Nei saperi situati, l’oggetto è attore e agente. La logica della distinzione natura/cultura porta alla distinzione sesso/genere, dove una parte domina l’altra.

In cosa somiglia alle donne femministe un cyborg? È vulnerabile e sfruttato, ma può assemblare e riassemblare, riposizionarsi socialmente, formare alleanze e distruggere i giochi del potere.

Per Codice Rosso, Francesca Fiorentin.

 

Donna Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, a cura di L. Borghi, introduzione di R. Braidotti, Feltrinelli, Milano, 1995.

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