L’esperienza del Fuori
Chissà, probabilmente anche Goliarda Sapienza ha provato nella propria scrittura “l’esperienza del fuori” di cui parla Michel Foucault e in cui “l’essere del linguaggio appare di per se stesso solo nella scomparsa del soggetto” (M. Foucault, Il pensiero del fuori, SE, Milano, 1998, p. 17). Si tratta di un’esperienza che presuppone “un pensiero che si tiene fuori da qualsiasi soggettività per farne scorgere come dall’esterno i limiti, per farne scintillare la dispersione e non raccoglierne che l’invincibile assenza” (ibid.). E bene ce lo mostra Mario Martone nel suo recente bel film che si intitola proprio Fuori (2025), tratto dal romanzo L’università di Rebibbia (1983) della scrittrice catanese, in cui a ricoprire il ruolo di Goliarda Sapienza è una bravissima Valeria Golino. Il film si ambienta nel 1980 e racconta prevalentemente l’esperienza di detenzione vissuta dalla scrittrice nel carcere di Rebibbia nonché la sua grande amicizia con altre due detenute. Goliarda, nel film, appare costantemente sull’orlo del pensiero del fuori, esperito contemporaneamente nella scrittura del suo capolavoro L’arte della gioia, un manoscritto che tiene nel cassetto e che torna costantemente a rimaneggiare e continuare e che verrà pubblicato nella sua interezza soltanto dopo la morte dell’autrice.
Intanto, un’idea corre costantemente nella mente del personaggio di Goliarda, e cioè che non c’è nessuna differenza fra “dentro” e “fuori”. Il “dentro” è il carcere, il “grande internamento” sorto dalla meccanica del “sorvegliare e punire”, per citare ancora Foucault, mentre il “fuori” è la cosiddetta ‘libertà’ che si respira al di là delle sbarre. Eppure, forse, si è più liberi dentro il carcere piuttosto che fuori, in cui vivono individui proni alla più scontata quotidianità basata sulla mercificazione dell’esistenza. Non a caso, durante una delle sue scorribande notturne con Roberta (Matilda De Angelis), osservando i palazzi dei quartieri residenziali romani, si dimostrerà sorpresa che la gente, la sera, non esca dagli appartamenti in palazzi grandi come alveari nei quali è costretta a vivere. Tutti sono chiusi in casa, nessuno esce… non dimentichiamo che il film si svolge in una data cruciale, il 1980, anno che segna l’inizio del “riflusso”, della chiusura nella sfera individualistica, nonché dell’avvento delle televisioni private che costringono le persone al chiuso dei loro salotti domestici. Finisce l’impegno politico – Roberta, che era stata in carcere per terrorismo, appare come una delle ultime schegge impazzite di quell’impegno – e tutti si rinchiudono nella sfera privata dei loro appartamenti. Non solo, ma anche il pensiero, per certi aspetti, cambia: a quello del fuori si sostituisce quello del dentro, rivolto all’individualismo. La stessa scrittura romanzesca, (che è anche quella attuata da Goliarda nel dentro/fuori del suo appartamento), a detta di Gianni Celati “definisce uno stato d’incoscienza: l’essere fuori di sé come condizione di chi è fuori della famiglia” (G. Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità, scrittura, Einaudi, Torino, 1986, p. 31): il personaggio romanzesco – del grande romanzo del Sette e dell’Ottocento – è traviato da “idee chimeriche” che lo allontanano dall’occludente universo borghese, esattamente come il personaggio Goliarda del film.
Bisognerebbe allora dire qualcosa di più sul dentro/fuori del suo appartamento, con finestre e terrazze che si aprono su parchi e boschi lontani, in spazialità nelle quali di notte e di giorno trema, nella sua immobilità assoluta, l’estate romana. La scrittrice è dentro ma è anche fuori; scrive, pensa e si dispera nel chiuso dell’appartamento che è al contempo proteso su spazialità aeree; in esso la scrittura fluisce aperta e libera, come la musica, come lo stesso errante pensiero. Ugualmente si può dire del carcere: luogo atroce, certo, ma aperto sulle spazialità borgatare di Rebibbia, su pratoni di periferia che possiedono una profonda anima pasoliniana. Profondamente pasoliniana è anche la camminata delle quattro ex detenute fino a quegli stessi prati, in un meriggio assolato, quando una di loro si esibirà nel canto di uno stornello popolare che giunge fino alle finestre del penitenziario proteso nel sole della borgata, in una scena che sembra uscita da un racconto romano della raccolta Alì dagli occhi azzurri (1965) di Pasolini.
La stessa città è protagonista insieme alle personagge: una Roma assolata e notturna, intrappolata nei suoi ritmi estivi che sanno ancora nel profondo di anni Settanta, solcata da linde e perfette automobili vintage di quell’epoca, fintamente predisposte per il film (e divertendoci, in alcune scene, abbiamo scorto anacronisticamente alcuni modelli di auto che nel 1980 non erano ancora usciti). Anch’essa è tutta fuori, intrisa di ritmi picareschi e malandrini, fuori come Goliarda e le tre ex detenute, pronte però a immergersi in una nuova epoca di chiusura, fatta di salotti e TV, di rampantismo sociale e politica spettacolare che, in quell’atroce 1980 (si scorge su un calendario, durante un dialogo fra Goliarda e l’editore per il quale lavora come correttrice di bozze, la data terribile della strage del 2 agosto), non ha ancora avuto il tempo di emergere e mostrarsi. Il pensiero del fuori di Goliarda si insinua in quegli anni Ottanta, tanto intrisi di ripiegamento su sé stessi, apoteosi del ‘dentro’ dei salotti e della sfera intima e privata; e sarà un pensiero ribelle e difficilmente domabile.
gvs