Una danza di zombie al “rumore bianco”
Rumore bianco (White Noise, 2022), di Noah Baumbach, è stato il film d’apertura della scorsa Mostra del Cinema di Venezia e dal 30 dicembre è disponibile su Netflix. Una doverosa premessa: piuttosto che su una piattaforma a pagamento, nella solitudine di un salotto, il film, avremmo preferito vederlo al cinema, insieme ad altri sognatori, in quella magica sala buia appunto dispensatrice di sogni, uno spazio che oggi purtroppo sta sopportando un periodo di intensa crisi, anche a livello locale, dove non si esita a distruggere questi luoghi magici. Odeon, Metropolitan, Gran Guardia sono tre nomi emblematici (e poveraccio davvero chi non ha avuto la fortuna di sognare ad occhi aperti in queste meravigliose sale) annientati per fare spazio a parcheggi, palestre, centri commerciali e altre schifezze. E così rimaniamo con pochissimi cinema cittadini che ancora resistono e con mostruose e abnormi macchine di spettacolo che si espandono a macchia d’olio nelle più squallide periferie.
Detto questo, veniamo al film, che riesce a rendere assai bene – ci sembra – l’atmosfera presente nell’eponimo romanzo di Don DeLillo da cui è tratto, Rumore bianco (White Noise, 1985), opera in cui, come è stato acutamente scritto su “Codice Rosso”, “tutto intorno alla storia ruota un mondo di consumismo, TV, suoni, luci, onde, radiazioni, farmaci, carte di credito, famiglia e sogno americano che da una parte nasconde, nella vita di tutti i giorni, questo malessere oscuro e dall’altra è parte integrante e costitutiva di questa nostra incapacità di vivere e sognare un’altra vita”. Il malessere oscuro è costituito dalla paura della morte e dal disagio che aleggiano un po’ dovunque nella società americana, soprattutto all’interno della borghesia benestante della metà anni ‘80 affrescata nel film, che si muove in spazialità dai colori sgargianti dove emerge ancora di più il senso di straniamento e solitudine, come in un quadro di Edward Hopper. Una solitudine esistenziale cui si cerca di ovviare affidandosi a farmaci anche in fase di sperimentazione: Babette, la moglie di Jack, un professore specializzato in “studi hitleriani” che insegna in una università somigliante a uno show televisivo, per vincere la paura e l’angoscia, ingurgita di nascosto un farmaco sperimentale, il “Dylar”, dispensato da un oscuro e – a dire il vero – simpatico personaggio, Mr. Gray, che pare uscito da un film dei fratelli Coen. Sembra che la figura di Hitler e l’immaginario ad essa associata, ossessivamente presente nel film, esondi tragicamente sotto la forma del consumismo anni ’80, un sistema manovratore delle coscienze all’interno di un baraccone spettacolare in cui tutti possono trasformarsi in cavie dell’industria farmaceutica. Tema, quest’ultimo, tra l’altro estremamente attuale anche ai giorni nostri.
Questo spettacolo che sembra costruito sulle scene di un teatro dell’assurdo, con la rappresentazione ipertrofica e iperbolica della famiglia (i protagonisti, marito e moglie, sono entrambi al loro quarto matrimonio e, insieme a tutti i loro figli, costituiscono la ‘perfetta’ famiglia americana), sembra andare in tilt nel momento in cui la latente angoscia di morte si materializza nella forma di un gas tossico fuoriuscito dai vagoni ferroviari coinvolti in un incidente. La ridente cittadina, colma di borghesi assurdamente soddisfatti, è sottoposta ad evacuazione e così emergono gli istinti più bestiali degli esseri umani in fuga, intrappolati in code chilometriche all’interno delle loro auto, con famiglie al seguito. In un accampamento d’emergenza, nel momento in cui si diffonde la notizia che sta arrivando la nube tossica, tutti scappano in modo disordinato trasformandosi in “massa” manovrabile da qualsiasi dinamica di potere perché, come ci insegna Elias Canetti in Massa e potere, la “massa” si configura come una momentanea assenza di identità. Tra l’altro, mentre la famiglia dei protagonisti si trova in auto, incolonnata sulla via della fuga, si scorgono dei centri commerciali pieni di gente e la bambina chiede: “Perché quelli comprano mobili durante un disastro ambientale?”. Al che la madre risponde: “Forse sanno qualcosa che noi non sappiamo”. Come, appunto, sulla scena del teatro dell’assurdo, sembra che il consumatore, forse latore di una conoscenza superiore diramata in chissà quali complottismi a stelle e strisce, non riesca a rinunciare alla sua sete di acquisti neppure durante un’emergenza ambientale. Gli esseri umani, in Rumore bianco, si comportano esattamente come zombie, secondo il modello dell’abulico consumatore reso celebre da George A. Romero nel suo splendido Zombie (Down of the Dead, 1978), in cui vediamo gli zombie aggirarsi proprio all’interno di un supermercato. Perché, come abbiamo avuto modo di scrivere sempre su “Codice Rosso”, “la figura dello zombie può rimandare all’incontrollata abulia del consumo”. Del resto, all’immaginario zombie rimanda anche l’incontrollata massa dei fuggitivi cui si è accennato sopra, intenta solo a scappare, autisticamente interessata solo alla propria, privata e personale salvezza.
Infine, una vera esplosione dell’immaginario zombie lo abbiamo nel finale, che cercheremo di descrivere senza spoilerare ulteriormente. Anzi, non nel finale propriamente detto ma al di fuori della ‘soglia’ testuale del film, durante i titoli di coda in cui, nell’esplosione di una scena da musical, vediamo i personaggi aggirarsi all’interno dell’enorme supermercato della loro città, muovendosi a scatti, in modo meccanico, appunto come tanti zombie. Nel supermercato, connotato da colori sgargianti che rimandano ad una iconografia glamour primi anni Ottanta, sono tutti intenti ad acquistare mentre i loro movimenti di danza mimano, in modo meccanico, i gesti di scegliere e prendere le merci dagli scaffali. E allora sembra che la lunga sequenza finale, al ritmo della musica, esondi dallo schermo e penetri nei salotti di altrettanti consumatori, quelli odierni delle piattaforme digitali a pagamento. Si sa, d’altra parte, che la ‘zombificazione’ si trasmette per contagio: e allora, quel contagio esce dallo schermo e si diffonde tra la popolazione dei nuovi consumatori di film e serie tv, seduti in salotto di fronte allo schermo, come in una ipertrofica e mostruosa evoluzione di quegli stessi primi anni ’80, regno indiscusso (almeno in Italia) delle televisioni private e del disimpegno. Come spettatori transgeneticamente modificati, evoluti in modo abnorme rispetto a quelli degli anni ’80, perduti nei loro salotti a fare zapping fra un canale e l’altro, fra uno show e un telefilm, davanti a ipertecnologici televisori oggi si sta. Ma ricordiamoci che il cinema continua ad esistere nel mondo di ‘fuori’: nonostante le distruzioni indiscriminate, nonostante le assurde chiusure dettate da una emergenza Covid gestita nel peggiore dei modi, nonostante la stessa esistenza delle piattaforme digitali, ci sono sporadici, valorosi e resistenti spazi di magia che, nel centro cittadino, per l’appunto, continuano a resistere.
gvs