Al di là del virus: Scrivere ancora per Livorno.
“ Vi sono momenti, nella vita, in cui la questione di sapere se si può pensare e vedere in maniera diversa da quello in cui si pensa e si vede, è indispensabile per continuare a guardare o a riflettere”. ( Michel Foucault – L’Uso dei Piaceri”)
Livorno, in questo momento delicato della storia mondiale, sembra vivere in una dimensione indefinita dove l’esistenza, il lavoro, la casa e tutte quelle cose che appartengono al quotidiano sembrano assumere dei contorni sempre più surreali e tragici al tempo stesso. L’emergenza sanitaria in corso, sommata alla crisi economica e sociale degli ultimi decenni, sta spingendo la nostra città verso una dimensione particolare, drammatica e unica, mai vissuta negli ultimi 70 anni.
150 ditte sparite in due mesi tra Livorno e Provincia, ristoranti, bar e stabilimenti balneari, cinema, teatri, impianti sportivi e tutti i lavoratori che ci girano intorno rimasti al palo, redditi di emergenza che stentano ad arrivare, disoccupazione giovanile, già alta, a percentuali indicibili; e tutto quello che verrà, e come verrà, riguarderà uno scenario ancora più drammatico.
In questo quadro devastante in termini economici, sociali e culturali scrivere ancora a Livorno e per Livorno diventa ancora più difficile e complicato; ed il senso di un giornale, un articolo o post che sia, si deposita su molti piani che sembrano non appartenerci più. Scrivere oggi vuol dire attraversare storie, luoghi, tempi, economie globali e locali, tecnologie invadenti e immaginari collettivi.
Scrivere significa tracciare delle linee, molte linee..
Vi è una linea millenaria che riguarda la storia delle civiltà che sono nate, si sono evolute e sono decadute nei secoli precedenti e che riguarda la storia del mito e del mare, dei sogni di intere generazioni e dei morti delle guerre, delle epidemie e delle ingiustizie del potere. Bisogna ricercare sempre, in queste linee e in quelle civiltà scomparse, il senso della storia profonda e della memoria collettiva.
Ormai da molto tempo, tre secoli almeno, c’è una linea economica, potente e invasiva come mai, che ha operato una serie di cambiamenti epocali, devastato natura e territori, creato città irrespirabili e invivibili, un capitalismo strutturale, finanziario e cognitivo che si è appropriato di ogni forma di lavoro, esistenza e dolore. Bisognerebbe tracciare un filo rosso indelebile che unisce il cantiere Orlando, la fabbrica della Spica, lo Stanic o il Porto stesso, a quel capitalismo strutturale, che ha modificato e influenzato la nostra città per decenni, e a quel sistema finanziario delle banche centrali e private e di quel clientelismo di natura politica e familiare che ha caratterizzato progetti e piani di sviluppo; per finire a quel capitalismo digitale, da Google a Facebook, che non conosce confini, mura o spirito labronico che sia e che è arrivato, da qualche anno ormai, in ogni pensiero, casa o piazza di Livorno: “il capitalismo è figlio dell’organizzazione di uno spazio smisurato” ( Braudel – La dinamica del capitalismo).
Inoltre la scrittura segue necessariamente la linea del tempo presente, il qui ed ora, lo spazio legato all’esistenza quotidiana di una città; si deve legare agli eventi contemporanei che condizionano la nostra storia e ai grandi temi attuali: la sanità, mai come oggi, la scuola, il lavoro o quello che rimane di esso, l’ecologia, il razzismo, le ingiustizie e le ineguaglianze del sistema. Fare inchiesta, evidenziare limiti di un bilancio, analizzare e criticare un progetto relativo a salute pubblica, istruzione o impianto sportivo riguarda non solo l’oggi ma il futuro delle generazioni a venire e di quella Livorno che dovrà pur rinascere.
Poi abbiamo quella linea dell’io che non ci lascia mai, l’egoismo di fondo,il tengo famiglia, la storia della Livorno del consumo e della moda, quello spirito labronico indefinibile, dalle ciabatte infradito alla catenina al collo, l’essere insieme ma non abbastanza…. di ogni città naturalmente..Tutto questo ha preparato il terreno e si è agganciato a quelle applicazioni e a quei social che ci avvolgono e ci assorbono totalmente. Ogni pensiero, immagine o scrittura, lì dentro, è presenza, velocità, mancanza di riflessione, fake news, falsa condivisione, dato in pasto all’algoritmo.
Scrivere oggi significa cercare di capire il nostro io devastato e moltiplicato, l’egoismo delle masse, il razzismo e il sessismo dentro e fuori di noi, l’impossibilità di un progetto comune, l’incapacità di unire le generazioni, l’economia senza fine, la tecnologia invasiva e mettere tutto ciò in relazione con la nostra vita reale, il lavoro, la politica, l’istruzione, la sanità e la malattia, anche il Covid-19..Capire, per esempio, che “ciò che intendiamo per malattia o per immunità è costruito collettivamente attraverso criteri sociali e politici che producono alternativamente sovranità o esclusione, protezione o stigmatizzazione, vita o morte.” (Paul B. Preciado).
Infine scrivere è cercare di lasciare delle aperture e dei segni per conoscere, studiare, essere, crescere insieme e riscoprire la memoria collettiva presente nella storia di Livorno e in quella di tutte le città del mondo.
Bisogna unire le linee del tempo ai luoghi del futuro e ricominciare a credere che tutto quello che hanno vissuto, sofferto e sognato le persone che non ci sono più, nei quartieri di Livorno o davanti al suo mare, gli operai di un cantiere in lotta, gli sfollati di una guerra, i 141 morti della Moby Prince o quelli dell’alluvione del 2017, sarà ancora vivo e profondo nei prossimi anni a venire.
Proprio come un “seme del piangere”..
Quanta Livorno, nera
d’acqua e – di panchina – bianca!
Sperduto sul Voltone,
o nel buio d’un portone,
che lacrime nel bambino
che, debole come un cerino,
tutto l’intero giorno
aveva girato Livorno!
La mamma-più-bella-del-mondo
non c’era più – era via.
via la ragazza fina,
d’ingegno e di fantasia.
Il vento popolare
veniva ancora dal mare.
Ma ormai chi si voltava
più a guardarla passare?
Via era la camicetta
timida e bianca, viva.
Nessuna cipria copriva
l’odore vuoto del mare
sui Fossi, e il suo sciacquare.
(Giorgio Caproni – Il seme del piangere)