Beppe Grillo e la visione
Le notizie legate alle serie fratture tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte vanno ben oltre la cronaca ed aiutano a capire le criticità della politica nel nostro paese. Stiamo parlando di qualcosa che ha altri significati oltre la frattura possibile all’interno dello schieramento giallorosa che ha sostenuto il governo Conte bis per più di un anno. La crisi del movimento 5 stelle rappresenta infatti un caso importante per capire la crisi, una volta vinte le elezioni, di quelli che nella letteratura della comunicazione politica si chiamano i catch-all-parties, i partiti pigliatutto, generalisti capaci di prendere voti ovunque ma anche di entrare in profonda crisi una volta vinte le elezioni. Intendiamoci, non è che in Italia siano mancate crisi di questo genere anzi, se si considerano le coalizioni per come sono state, cartelli elettorati catch-all per dirla all’americana, vediamo che è proprio dall’inizio delle stagione delle riforme elettorali, cioè dagli anni ’90, che in ciò che rimane della politica italiana, sopravvissuto alle crisi del politico degli anni ’80, si ripete sostanzialmente lo stesso schema. Quello che vuole un partito, o una coalizione, vincere le elezioni cercando di attirare più elettorato possibile da ogni parte del corpo elettorale per poi smembrarsi anche pochi mesi dopo la vittoria elettorale. Quest’ultimo caso lo si è visto nel centrodestra (elezioni del ’94) come nel centrosinistra (elezioni del 2006) mentre anche nel caso in cui un cartello elettorale catch-all è arrivato alla fine della legislatura (centrosinistra vincente nel 1996, centrodestra vincente nel 2001 e soprattutto nel 2008) con espulsioni di componenti, cambiamento di presidenza del consiglio e con l’assetto della maggioranza che ha visto profonde mutazioni. L’instabilità, a prescindere dalle leggi elettorali promulgate in nome della “normalizzazione” della politica, è stata quindi la caratteristica del trentennio che arriva fino a noi. Il sistema politico italiano in questo senso ha mantenuto caratteristiche del trentennio precedente, quello che si voleva superato in nome delle “regole”: una guerra continua per l’accaparramento di risorse e quote di potere tra cordate, reti di clientele, gruppi di interesse. Un fenomeno dagli anni ’90 appena mimetizzato sotto il brand dei partiti e delle coalizioni pigliatutto mentre nel trentennio precedente questa guerra continua viveva all’interno dei partiti di massa (fino a farli esplodere). Due le condizioni che, dagli anni ’60 hanno reso possibile da noi la riedizione moderna del parlamento come istituzione che serve sostanzialmente come terreno di scontro per l’estrazione di risorse: il vincolo esterno (economico, finanziario, di governance) delle decisioni prese altrove che, prima lentamente poi progressivamente, ha demansionato il parlamento nazionale lasciandolo in mano alla guerra tra bande comunque più comoda da gestire da fuori; la spoliticizzazione, anche qui prima lenta poi progressiva, della società che assieme alla aziendalizzazione dei rapporti sociali ha trasformato la politica in qualcosa di ibrido nel quale temi politici o attirano perché fanno spettacolo, l’altra faccia della spoliticizzazione, oppure servono in ultima istanza solo per esigenze di specifiche categorie economiche o gruppi di interesse.
In questo senso la crisi del movimento 5 stelle, nel modo con la quale è esplosa tra Grillo e Conte, rappresenta dei caratteri di continuità ma anche di novità rispetto a questo schema che vuole i catch-all-parties entrare in crisi dopo la vittoria elettorale entro un sistema parlamentare che sostanzialmente è un continuo terreno di scontro, sempre più deteriorato, tra cordate di interessi che si servono della politica. Veniamo ai tratti di continuità: il M5S ha rappresentato la veloce convergenza verso un unico punto elettorale di settori di società molto diversi tra loro -basti ricordare che nel 2018 è stato il primo partito operaio e il primo partito dei piccoli imprenditori- molto legato a single issue di tutela del territorio e di protesta (dai movimenti per l’acqua pubblica a Tav, Tap, Ilva) e alla questione della moralità della vita pubblica istituzionale. Grazie alla velocità di attrazione del M5s categorie di elettorato penalizzate dalle due gravi crisi a cavallo degli anni ’10 (Lehman e debito sovrano), anche se rappresentanti interessi e linguaggi diversi (pubblico impiego e partite IVA, pensionati e giovani, la categoria più attratta dal M5s etc.) hanno trovato nel movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio un elemento al quale donare consenso.
La novità, rispetto alla storia recente del nostro paese, è che l’elemento catch-all, capace di prendere voti ovunque, qui è passato dalla coalizione al movimento, soggetto politico unico per poi, dopo le elezioni formare coalizioni in parlamento molto diverse tra loro (il passaggio dal Conte 1 al Conte 2 è paradigmatico). L’iniziale rifiuto delle alleanze, che valorizzava l’aspetto identitario del catch-all definitosi infatti come “nè di destra nè di sinistra”, è diventato, nel momento in cui i cinque stelle hanno dovuto negarlo, un elemento di disgregazione dell’elettorato, ma anche della capacità di rappresentare interessi, mano a mano che il M5s non solo faceva alleanze in parlamento ma anche le cambiava. Si comprende come la dinamica centrifuga del M5s -legata all’impossibilità materiale di rappresentare organicamente gli interessi della forte e composita massa di elettori attirati – si sia manifestata nei modi che abbiamo visto a partire dalla prima esperienza del governo Conte, quella con la Lega, mentre, per completare il quadro, sono almeno due i fattori da considerare. Il primo è legato alla vita interna del M5s che, da prima della storica vittoria di Pizzarotti a Parma, si era già caratterizzata per una forte conflittualità tra base, corpo dei militanti e vertice. Ora, tutti i movimenti e i partiti storicamente vivono, e muoiono, entro questa dinamica.
Il movimento 5 stelle, a differenza delle affermazioni di Davide Casaleggio, ha semplicemente accentuato, e accelerato, la distanza tra base, legata alle dinamiche di democrazia online e vertice (carismatico, impermeabile alla democrazia come Grillo oppure nella forma del “capo politico” che rispetto allo storico “segretario” dei partiti contiene un surplus di potere) riproducendo, in forma più radicale, le contraddizioni della democrazia partitica novecentesca. Aggiungendo che i passaggi tipici della vita istituzionale di governo (accordi, disegni di legge etc) sono risultati sostanzialmente invotabili alla democrazia online, per non dire alla stessa democrazia interna dei gruppi parlamentari, riproducendo qui continuamente contraddizioni e fughe dal M5s. Il secondo elemento da considerare, come fattore aggiuntivo per capire la dinamica che sta svuotando il M5S, è quello della repentina accettazione del “vincolo esterno” economico, finanziario, di governance sovranazionale. Stiamo parlando infatti di una forza politica che, oltre a definirsi populista, ancora meno di un anno prima delle elezioni del 2018 parlava di referendum per l’uscita dall’euro. Sarebbe poco spiritoso ricordare troppo che oggi il M5S governa con Mario Draghi -l’uomo che da presidente della BCE ha riempito il mondo di bolle finanziarie per “salvare” l’euro- definito quest’anno “un grillino” dallo stesso Beppe Grillo. Fa bene invece ricordare la velocità con la quale il M5S, che pochi anni prima appoggiava la Grecia di Tsipras contro Draghi, è passato dall’essere un movimento politico antisistemico ad uno che cerca di rimanere nella politica sistemica. Anche in questo senso accelerando le dinamiche già vissute dalla sinistra: mentre, a suo tempo, il PCI per diventare, da antisistemico che oggettivamente era, a sistemico ci ha messo circa un quarto di secolo, per il movimento 5 stelle il tentativo di compiere questo passaggio è durato un paio d’anni. Segno, non dimentichiamolo mai, di quanto si sia alzata la soglia della complessità per fare politica per forze che nascono o si professano antisistemiche. E segno che, cosa di non poco conto, questa soglia di complessità ha anche forti caratteristiche globali.
Lo scontro critico tra Grillo e Conte non è quindi solo una questione di statuto, di poteri, di destini di parlamentari o, anche, di posizionamento nel mondo sotterraneo della assegnazione dei fondi del recovery oppure materia per capire se esiste ancora una coalizione giallorosa. Avviene piuttosto come capitolo successivo della letteratura della implosione di un catch-all-party nel solco, per quanto nuovo, di quanto avvenuto negli ultimi decenni della repubblica, tra crisi della rappresentanza, spoliticizzazione, dominio del vincolo esterno che demansiona la politica istituzionale e parlamento come terreno di scontro per la predazione della ricchezza. In questo scenario nel tentativo di riaffermare il proprio potere carismatico, libero da vincoli di rappresentanza, Beppe Grillo, contrapponendosi a Conte, parla di una “visione” politica, che gli apparterrebbe, che vada oltre i comportantamenti del presente. Troppo e troppo poco, onestamente. Troppo poco perché, parlando del 2050 come orizzonte della progettualità politica, Grillo non appare in grado di capire che, così operando, rischia di parlare del futuro trascinandosi dietro l’ultimo mezzo secolo di problemi non risolti legati al funzionamento della politica, e della stessa società, che, come abbiamo visto hanno mostrato capacità di traslocare dal fordismo in cui sono nati al nostro mondo postmoderno della “transizione ecologica”. Troppo perché guardando al 2050 non si vedono i problemi che abbiamo alle porte e che vanno risolti per evitare l’implosione della società italiana e il suo progressivo impoverimento. I nostri anni decisivi non stanno da qualche parte nel 2050 ma tra la metà degli anni venti e l’inizio della prossima decade quando tra crisi climatica, invecchiamento demografico, rivoluzione 4.0, in campo economico e sociale, e crisi del modello della immissione di liquidità della banche centrali, in campo finanziario, tutti gli orologi del mondo potranno girare al contrario e questo paese avrà bisogno di soggetti politici solidi nella tempesta delle trasformazioni.
Dopo aver sparato sulle sinistre, giustamente, è il momento nel quale chi vuol far politica si deve accorgere che gli ostacoli da superare, per garantire un futuro a questo paese, sono comunque gli stessi del passato, che si presentano in abito differente. E stiamo parlando dei problemi sui quali le varie sinistre si sono, letteralmente, distrutte. Perché la politica è quel fenomeno, per noi contemporanei, ai confini della realtà nel quale niente si inventa ma è allo stesso tempo impossibile vivere senza innovazioni. Si tratta di un fenomeno incomprensibile ed irrisolvibile per i noi contemporanei? Può darsi. Ma, come scriveva Carl Schmitt, in politica “anche nella lotta più accanita fra le vecchie e le nuove forze nascono giuste misure e si formano proporzioni sensate”. È di queste proporzioni sensate, che nascono come equilibrio di forze terribili, di cui abbiamo bisogno per i nostri anni decisivi.
Per codice rosso, nlp