Da Livorno a Shanghai: ripensare memoria e futuro nella città nascosta
«E se c’è un senso da trovare nei nostri corpi-memoria, in questo continuum materiale che lega le nostre vite tra le epoche, coltivo la speranza che, di fronte a questa evidenza ancora da documentare, accetteremo di vederci, noi, intendo dire, la nostra specie, ancora una volta, come umili ignoranti di fronte a una materia che sa infinitamente più di noi.»
(Camille de Toledo – Da una vita all’altra)
“Hawaii da Shangai” è una canzone di Bobo Rondelli che riesce a far risplendere, attraverso un naturale equilibrio di musica e parole, Livorno, il quartiere degli operai, la sua storia, i ricordi dell’infanzia, un’amicizia interminabile, quella del suo inseparabile Alessandro, e legarli ai sogni infiniti di una memoria profonda. Eppure quella città sembra non esistere più.
Questa pandemia interminabile e indefinibile sta attraversando le nostre città, spostando e influenzando equilibri, economie, flussi finanziari e commerciali, spazi e tempi d’azione e di riflessione. Gli anni a venire sono destinati a momenti di crisi, incertezza e panico. Il futuro ormai non è più quello di una volta.
Molte città del passato e altre del futuro sembrano sovrapporsi e confondersi fra loro, senza che la politica, la società e il pensiero attuale riescano a fare chiarezza, creare movimenti e orientare energie. Perché?
Le città del passato
Una profonda e lunga storia precede le nostre città, ma solo negli ultimi secoli esse diventano un elemento costitutivo imprescindibile della nostra vita quotidiana.
“Monete e città sono immerse a un tempo nella quotidianità più immemorabile e nella modernità più recente. Città e moneta sono a un tempo motori e indicatori.”
(Fernand Braudel)
In misura sempre maggiore la dinamica e la politica del capitalismo sono influenzate dalla perenne ricerca di territori favorevoli alla produzione e all’assorbimento delle eccedenze di capitale (David Harvey) e trasformano, giorno per giorno, le case, i quartieri, i luoghi di lavoro e di svago delle nostre città. Ma qui siamo sempre dentro quelle città geografiche fatte di spazi pubblici e privati, luoghi di lavoro, fabbriche, mercati, negozi e supermercati, agenzie di commercio, banche e assicurazioni e molto altro ancora. Eppure proprio in quelle città realizzate, concepite e sviluppate negli ultimi due secoli si stanno perdendo gli elementi che tenevano ferma e salda quel tipo di società che le aveva costruite: lavoro, scuola, salute pubblica, cultura, politica. Un cimitero interminabile di perdite di posti di lavoro, risparmi, tagli alla scuola e alla sanità pubblica, sicurezze, paura, odio verso il diverso, ritorno a episodi chiari di fascismo e di razzismo, atomizzazione del singolo e frammentazione delle relazioni. Questa città decrepita e inutile soffre di un vuoto di progettualità, dove politica, cultura e movimenti hanno rinunciato a concepire e costruire un altro tipo di società.
Le città del gioco
La città moderna, con le sue automobili e le sue strade allagate dal traffico, ha ridotto gli spazi destinati al gioco e alla scoperta. Il bambino è attratto naturalmente verso l’aperto e ogni via, quartiere e parco dovrebbero essere scoperti poco alla volta, come in una magica esplorazione, insieme ad altri coetanei, cercando di privilegiare l’aspetto ludico dell’esistenza. Il gioco, la relazione, lo scoprire amicizie e luoghi nuovi rappresenta un elemento imprescindibile del nostro crescere insieme. La città contemporanea, con i suoi spazi chiusi, la TV, i videogiochi e le sue invasive applicazioni porta a un isolamento e a un individualismo che si ripercuote nello sviluppo delle nuove generazioni.
Per Colin Ward nel suo fondamentale “Il bambino e la città” natura ed educazione vanno portati avanti insieme e il gioco rappresenta un avvenimento continuo, un costante atto creativo, mentale e pratico. E’ necessario accettare i bambini sulla base della partecipazione e gli spazi pubblici devono essere concepiti come risorse per aiutare le persone a capire, conoscere, attraversare, sentire e anche cambiare la propria città.
Le città digitali
Se le città del 900 sono strettamente legate fra loro da moneta, flussi economici e luoghi fisici, fabbriche, scuole, ospedali, parchi pubblici e piazze da riempire, negli anni 2000 spuntano megalopoli di milioni di abitanti e smart city, come quelle descritte da Simone Pieranni nel suo “Red Mirror” dove si fondono gli aspetti della sicurezza personale, dell’ecologia e del controllo sociale: rilevatori di ogni genere, videocamere di sorveglianza e riconoscimenti facciali, dove i cinesi ormai sono all’avanguardia. Il progetto “occhi acuti” del governo cinese rappresenta tutto un programma specializzato a controllare visi, movimenti, assembramenti e discorsi di ogni singola persona. La smart city delle smart city deve essere “verde e intelligente”, ma qui è necessario chiederci a quale prezzo politico e culturale? Cosa rimarrà di noi in quei luoghi? E soprattutto chi potrà permettersi città di questo livello tecnologico e ambientale?
Le città del controllo si fondono e vengono attraversate dalle città dell’informazione e della sicurezza dove la politica e il progetto collettivo perdono spazio d’azione e punti di riferimento. Nei primi anni del 2000 Paul Virilio ci avverte immediatamente, nel suo libro “ Città panico” sul futuro che stiamo vivendo: la rappresentazione politica scompare nell’istantaneità a beneficio di una pura e semplice presentazione. Rivoluzione dell’informazione, individualismo di massa e città ormai ripiegate in stesse, compressione temporale e inversione delle nozioni di dentro e fuori ci mostrano il crepuscolo delle nostre città.
Per intenderci e capire cosa ci aspetta, almeno a una parte del mondo, basta vedere le città cinesi che in un solo decennio sono diventate così:
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Mentre invece Prospera è il progetto di una città azienda dell’Honduras dove sicurezza, verde urbano e controllo sociale vengono gestite da imprenditori privati con un governo e un sistema di leggi autonomi in cambio di una quota annuale in dollari…
Le città invisibili
Nel suo libro “Le città invisibili” Italo Calvino ci racconta che i luoghi si sono mescolati e che nei nostri viaggi, reali o immaginari che siano, possiamo incontrare mille città particolari che rimandano uno all’altra: le città della memoria, del desiderio, dei segni, degli scambi, città sottili, continue e nascoste. In particolare ci riguardano davvero le città nascoste, quelle città future che sono “già presenti in questo istante, avvolte una dentro l’altra, strette, pigiate, indistricabili”.
Alla fine del libro il Gran Kan domanda a Marco Polo se non sia tutto inutile visto che l’ultimo approdo sarà quello della città infernale. Ma Polo risponde:
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne: il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare, e dargli spazio.”
Anche oggi come non riconoscere nella pandemia un avvertimento tragico su quello che è il nostro mondo e sul possibile inferno a venire?
Sarà fondamentale attraversare e ripensare il modello economico e sociale, i campi di lotta e di vita, la politica, la memoria, il futuro, la tecnologia, la scienza, la natura, il corpo e progettare tutte quelle città che non saranno più inferno e sofferenza.
Per Codice Rosso Coltrane59