Distopie del contagio (epidemie e paura nella letteratura e nel cinema)
L’allarme scatenato dalla diffusione del coronavirus rischia di trasformare la realtà in un vero e proprio universo distopico, come è stato tratteggiato in numerosi romanzi e film di fantascienza che mostrano una società del futuro devastata da virus sconosciuti. Se è indubbiamente lecito avere paura del coronavirus, è anche lecito temere tutto il sistema di controllo e isolamento messo in atto per cercare di contrastarlo. Sui telegiornali, sui social, sui blog e sui siti delle più svariate testate giornalistiche sentiamo parole come “zona rossa” (la “zona rossa”, impenetrabile per i manifestanti, c’era anche durante il G8 di Genova), “quarantena”, “isolamento”, parole che si ricollegano, nel nostro immaginario, a tutto un sistema di controllo pervasivo e dittatoriale. Ad esempio, a quelli appena citati, può essere benissimo associato il termine “coprifuoco”: quest’ultima, come le altre, è una parola che viene usata per regolamentare e controllare il comportamento sociale degli individui. Siamo perciò nel campo semantico del controllo e della sorveglianza. Si corre il rischio che l’utilizzo di questi mezzi divenga eccessivo e incontrollato, dominato dal caos e dalla paura. Svolgiamo adesso alcune riflessioni su quanto sta accadendo intorno a noi. Il nostro immaginario corre subito alle raffigurazioni della società che abbiamo visto in molti film distopici: interi quartieri e città blindati, controllati dall’esercito in tenuta antisommossa e con maschere di ossigeno, mitra spianati contro chiunque non rispetti il divieto di passaggio, coprifuoco notturno come in tempo di guerra e chi più ne ha più ne metta (e si noti che questi scenari catastrofici sono generati proprio dal prevalere del caos e della paura). Seguendo le fila del nostro immaginario, perciò, vediamo come nella letteratura e nel cinema sia stato trattato il tema della diffusione e del contagio di virus e malattie, fino alla vera e propria rappresentazione distopica della realtà.
Il tema della diffusione e del contagio della malattia è presente fin dalla letteratura antica: ad esempio, nel I libro dell’Iliade, Apollo scatena, scoccando le sue frecce, una terribile pestilenza nell’accampamento greco per punire Agamennone della mancata restituzione della figlia al sacerdote Crise. Sofocle, nell’Edipo re, racconta invece di una terribile pestilenza che devasta Tebe accompagnata da funesti presagi. L’unico modo per stornare la pestilenza sarà quello di allontanare l’uccisore di Laio (lo stesso Edipo). Come si vede in questi due esempi, la pestilenza assume la valenza di una punizione che gli dei infliggono agli uomini per le loro malefatte. Essa, perciò, non si scatena in modo casuale, come in molte rappresentazioni letterarie della modernità e della contemporaneità.
Con un salto di secoli, non si può non ricordare la peste che imperversa nella cornice del Decameron di Boccaccio: qui, la pestilenza rappresenta proprio il motivo trainante del racconto. È per sfuggire alla malattia che i giovani si pongono in una condizione di isolamento volontario in campagna e, per trascorrere il tempo, decidono di raccontarsi le novelle. Un’altra potente rappresentazione moderna della peste e degli appestati è offerta da Alessandro Manzoni, con la raffigurazione della peste a Milano nel Seicento ne I promessi sposi.
Ma una raffigurazione sicuramente più interessante della malattia e della paura del contagio la incontriamo in un racconto di Edgar Allan Poe, La mascherata della morte rossa (The Masque of the Red Death). Come in una favola ‘nera’, così suona l’inizio del racconto: “Da lungo tempo la ‘Morte Rossa’ devastava il paese. Nessuna pestilenza era stata mai così orribile o così fatale. Il suo avatar era il sangue e il suo marchio il rosso e l’orrore del sangue”. Solo il Principe Prospero continuava a condurre un’esistenza felice e spensierata fino a rinchiudersi nel suo castello fortificato con tutta la corte. Nel bel mezzo del carnevale, durante una festa in maschera, irrompe però la Morte Rossa diffondendo il contagio tra gli invitati. La diffusione della malattia, nel racconto di Poe, avviene entro una dimensione carnevalesca, in stretta associazione, come è stato delineato da Michail Bachtin, con la sfera del corpo festoso associato al bere e al cibo. Anche nel racconto di Poe, come nel Decameron, i personaggi si isolano e, per di più, si rinchiudono in un baluardo fortificato, il quale però si dimostrerà del tutto inefficace per la loro protezione.
Sullo scorcio dell’Ottocento e sul declino dell’età vittoriana appare poi un romanzo che, fra i suoi temi cardine, annovera anche quelli del contagio e della diffusione della malattia: Dracula di Bram Stoker (1897). Come bene dimostra Franco Pezzini, il romanzo abbraccia importanti tematiche e problematiche novecentesche: il rapporto Occidente-Oriente, il tema del sesso e il ruolo della donna, le paure dello straniero, dell’epidemia, della follia, la riflessione sul potere, l’ossessione dell’identità e del non riconoscersi allo specchio. Dracula diffonde il vampirismo in Occidente per mezzo dei suoi morsi e non è difficile riconoscere in esso una malattia come la sifilide che, all’epoca, impauriva non poco. Estremamente interessante è poi la rilettura cinematografica che del romanzo di Stoker ha offerto Werner Herzog con Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979), il quale riprende la tessitura filmica di Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens, 1922) di F. W. Murnau. Nel film di Herzog vengono tematizzati in modo assai significativo la diffusione e il contagio della malattia portata dal vampiro, una vera e propria pestilenza che si diffonde in città tramite miriadi di ratti. Le strutture del controllo e dell’ordine cittadino vengono falcidiate dalla peste, metafora del vampirismo, mentre un lugubre e funereo carnevale irrompe nella piazza principale della città. Il vampiro, nel film, insieme al terrore inconscio della collettività, rappresenta anche un vero e proprio sovvertitore dell’ordine costituito, rivestito di tratti dionisiaci.
Una visione più peculiarmente distopica del contagio è offerta dal romanzo di Richard Mateson, Io sono leggenda (I Am Legend, 1954): un’epidemia causata da un batterio ha trasformato l’intera umanità in vampiri. L’unico non infetto è il protagonista, il quale vive barricato nella sua villetta, uscendo solo di giorno per procacciarsi il cibo. Dopo l’incontro con una donna, apparentemente non infetta, il personaggio si ritroverà a scontrarsi con una comunità di esseri umani contagiati ma non completamente trasformati in vampiri, i quali finiranno per avere il sopravvento. La malattia, trasformatasi in una dimensione più ‘umana’ ed accettabile, sembra perciò vincere la dimensione umana tout court. Dal romanzo è stato tratto un interessante film, L’ultimo uomo della Terra (1964), con la regia di Ubaldo Ragona e con Vincent Price nel ruolo del protagonista. Gli elementi più suggestivi del film sono sicuramente offerti dall’ambientazione: gli esterni sono infatti costituiti dalle geometriche architetture dell’Eur, a Roma; vediamo il personaggio aggirarsi in esse unicamente in compagnia di un cane, come all’interno di in un paesaggio devastato da qualche sconosciuta catastrofe, mentre miriadi di morti sono riversati per le strade (interessante, in questo senso, anche l’immagine distopica delle strade di una Milano del futuro, ricoperte di cadaveri, offerta da I cannibali, 1969, di Liliana Cavani).
Un altro film significativo, in tema di virus e contagio, è sicuramente Cassandra Crossing (The Cassandra Crossing, 1976), di George Pan Cosmatos. Dei terroristi svedesi, penetrati in alcuni laboratori dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra per piazzare una bomba, sono contagiati da alcuni nuovi virus che lì vengono studiati. Uno dei terroristi, fuggito su un treno, contagia alcuni passeggeri e, a Norimberga, il treno viene sigillato e condotto verso un campo di quarantena in Polonia. Nonostante venga poi scoperto l’antidoto per il virus, il treno viene ugualmente lasciato correre verso il “Cassandra Crossing”, un ponte fatiscente ormai dismesso da anni , che sicuramente crollerà al passaggio del treno, condannando a morte certa tutti i passeggeri. Il film è interessante perché unisce il tema della paura per il virus e il contagio agli orrori legati al recente passato del regime nazista. Uno dei passeggeri, infatti, è un ex deportato nei campi di sterminio e, non volendo tornare in Europa Orientale per non rivivere l’incubo della deportazione, compie il gesto suicida di staccare un vagone dal treno salvando così la vita a numerosi passeggeri. La prigionia sul treno delle persone colpite dal virus, perciò, rimanda anche all’orrore della deportazione verso i campi di sterminio mentre il potere che li isola e li pone in quarantena è quasi assimilabile a un nuovo regime nazista.
Un romanzo più recente, Cecità (Ensaio sobre a Segueira, 1995) di José Saramago, mostra invece la diffusione della cecità, la quale è assimilabile a un vero e proprio virus. Anche in questo caso lo scenario è catastrofico: morti per le strade, la città in totale stato di abbandono, gruppi di ciechi che occupano le case altrui e lottano l’uno contro l’altro per assicurarsi il cibo. La cecità rappresentata dal libro ha sicuramente un valore metaforico e rappresenta l’incapacità di guardare oltre e più in profondità, da cui deriva l’assuefazione alle dinamiche oppressive di qualsiasi potere.
L’immagine di una Terra devastata da un virus letale è offerta anche da L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, 1995) di Terry Gilliam: al centro del film vi è infatti un virus che, nel 2035, ha ormai devastato l’intero pianeta e ha costretto gli unici superstiti a vivere nel sottosuolo. Gli scienziati, promettendogli la grazia, mandano allora un detenuto, James Cole (Bruce Willis), indietro nel tempo per cercare di capire le cause della diffusione del virus. La Terra del 2035 è presentata, in forma distopica, come un mondo invivibile, devastato dall’aria irrespirabile prodotta dal virus. Al tema del contagio e dell’epidemia, il film affianca anche quello della distruzione del pianeta causata da scempi ambientali che provocano aria irrespirabile e devastazione della natura.
Nel cinema vi sono poi tanti altri film incentrati sulla rappresentazione distopica di un futuro devastato dalla diffusione di un virus: basti pensare a Virus letale (Outbreak, 1995), di Wolfgang Petersen, alla saga di Resident Evil, oppure a Contagious – Epidemia mortale (Maggie, 2015). In quest’ultimo film viene mostrata la propagazione attraverso il globo di un virus noto come “Necroambulist”, il quale trasforma gli esseri umani in creature simili a zombie. È evidente, qui, il richiamo agli zombie movie e, in particolare, ai capolavori di George A. Romero, nei quali il contagio zombie si diffonde come una malattia.
Il virus e il suo contagio, nonché la dimensione della malattia, in tutti questi film, si trasformano in un vero e proprio orrore che si nasconde nell’inconscio collettivo, assimilabile ora a terribili orrori reali del passato (lo sterminio nazista) ora, invece, a ipotetiche guerre nucleari, devastazioni, invasioni aliene, catastrofi cosmiche. Questo è l’immaginario generato dalla letteratura e dal cinema più recente ma, come scrive Susan Sontag, l’immaginario colpevolizzante che ci tiene lontano dagli altri è più difficile da sconfiggere di quanto non lo siano le malattie. L’immaginario colpevolizzante e le metafore che lo sostengono sono il maggiordomo e le ancelle del potere che ha sempre regolato la vita degli uomini con la paura.
Guy van Stratten
Riferimenti bibliografici:
Michail Bachtin, Estetica e romanzo, trad. it. Einaudi, Torino, 1975.
Franco Pezzini, Il Conte Incubo. Tutto Dracula, vol. I, Odoya, Bologna, 2019.
Edgar Allan Poe, Tutti i racconti e le poesie, trad. it. Le Lettere, Firenze, 1990.
Susan Sontag, Malattia come metafora, trad. it. Einaudi, Torino, 1979.
In copertina: immagine tratta dal film Cassandra Crossing (1976)