“Immigrati”, “stranieri”, “migranti”: la mancanza di identità imposta dal Potere
Le parole del Potere hanno ormai già da tempo consegnato all’immaginario collettivo l’idea dei “migranti” come di una massa informe e indistinta: “immigrati”, “stranieri”, “migranti”, “extracomunitari” sono ormai parole di uso comune per indicare gruppi di individui senza una vera identità, senza una provenienza specifica e senza nome. Eppure, all’interno di questa massa indistinta e informe ci sono persone che appartengono a stati, nazioni, gruppi etnici estremamente diversi fra loro: ad esempio, fra un siriano, un pakistano, un senegalese e una persona che viene dal Mali ci sono enormi differenze. I media ci propongono le immagini di barconi stracarichi di esseri umani, di naufragi, tragedie in cui quegli stessi esseri umani perdono la vita (come recentemente a Cutro), gruppi di persone che si spostano a piedi attraverso i confini europei, accampamenti sterminati in cui uomini, donne e bambini, in fuga da guerre civili, genocidi e cambiamenti climatici, vivono ai limiti della dignità umana, come ad esempio nell’isola di Lesbo, in Grecia. Le immagini e le parole che vediamo e leggiamo sui più svariati media e sui social non trasmettono niente altro che una confusa e generalizzante anomia riguardo a questi esseri umani che stanno scappando da immani tragedie. Sono le stesse immagini e parole che capi di stato, ministri e politici hanno sempre usato per caratterizzarli come se appartenessero ad una massa oscura e pericolosa da cui bisogna difendersi: tutti i paesi alleati nella cosiddetta “Unione europea”, Italia in testa, non pensano ad altro che a “difendere i confini”, “rafforzare i controlli” per contrastare coloro che, in definitiva, si configurano come dei nemici. Addirittura, per come è filtrata dai dibattiti politici e dai media, l’idea dei migranti come massa indistinta può essere avvicinata all’immaginario degli zombie: migranti come zombie, come esseri abulici e senza nome che si spostano senza una precisa volontà[1].
D’altra parte, c’è una parola che, presso gli antichi romani, possedeva la stessa connotazione di indeterminatezza e di mancanza di identità: “barbari”. I romani, parlando di “barbari”, intendevano semplicemente i “non romani” senza preoccuparsi di distinguere tra gli Unni, i Vandali, i Goti, i Galli ecc. In questa generalizzazione bisogna senz’altro riscontrare anche una rivendicazione di superiorità da parte dei romani, come a dire: gli unici che contano siamo noi perché; voi non avete neanche il diritto di un’identità, siete solo una massa informe e indistinta. Non bisogna neppure dimenticare che la parola “barbaro” i romani la riprendevano dai greci, per i quali essa aveva il significato di “colui che balbetta”, “che non sa parlare il greco”[2]. Anche nei dibattiti politici contemporanei non si prende neanche in considerazione l’idea di assegnare un’identità ai “migranti”, agli “immigrati” o agli “extracomunitari”: sono e devono restare massa anonima, informe, ‘zombificata’, indubitabilmente inferiore rispetto agli italiani o agli europei.
Eppure, in tutta questa generalizzazione e anomia, c’è un gruppo di migranti che ha il diritto di nome, di riconoscimento: gli ucraini. Dicendo questo non si intende certo sminuire o sottovalutare l’immane tragedia che sta vivendo il popolo ucraino, e neppure vogliamo negare i genocidi e i crimini di guerra ai quali è ed è stato sottoposto. Si intende semplicemente constatare un dato di fatto: gli ucraini sono gli unici migranti che vengono chiamati per nome, che hanno un diritto di riconoscimento. Questo accade, probabilmente, perché sono bianchi come gli europei e, in definitiva, appartengono allo stesso continente europeo. Non sono stranieri al massimo grado come coloro che hanno la pelle scura e provengono dall’Africa o dall’Asia. E accade anche perché sono le vittime del designato nemico di turno degli Stati Uniti, della Nato e del blocco atlantico, la Russia. Un nemico elevato quasi a “bestia” dell’Apocalisse, capace di annientare il mondo attraverso la bomba atomica. Almeno, questo è quello che viene fatto passare dal Potere (non da un unico potere ma dalla fitta maglia di poteri che si intersecano) e dai media. C’è una terribile guerra, sì, nel cuore dell’Europa, ed essa indubbiamente tocca più da vicino i sentimenti degli europei e degli occidentali in genere. Se una guerra di questo tipo fosse scoppiata nell’Africa centrale – possiamo esserne certi – non avrebbe avuto tutta la risonanza mediatica che sta avendo il conflitto fra Russia e Ucraina (e Nato, e Stati Uniti). Per l’europeo la guerra in Ucraina ha un forte impatto “perturbante”, nel senso della categoria freudiana: il perturbante, secondo Freud, è lo “spaventoso” che si genera quando ciò che è familiare diventa inquietante[3].
Quelli che chiamiamo genericamente “migranti”, odiati indifferentemente dalla sinistra e dalla destra, da Minniti, da Salvini, da Meloni e dagli altri politici, non vengono certo in Italia e in Europa per una gita di piacere: di guerre dimenticate nel mondo ce ne sono tante, soprattutto nei paesi asiatici e africani. In Africa, ad esempio, le guerre civili e i conflitti sono diffusi e portano con sé genocidi, distruzioni di paesi e villaggi, fame (soprattutto per migliaia di bambini). Bisogna tenere conto che coloro che sbarcano (o cercano di sbarcare, se non periscono prima, grazie alla lungimiranza dei politici europei ed italiani) dai paesi africani e asiatici fuggono anche dalle devastazioni provocate da un clima che sta cambiando, che sta inaridendo o sommergendo innumerevoli territori. Sono quelli che si configurano come “migranti climatici” (cfr. Chi sono i migranti climatici?), che a livello giuridico, ancora al giorno d’oggi, hanno poca protezione e scarso riconoscimento nel contesto internazionale. Ad esempio, “la mancanza d’acqua è il primo motivo che spinge più del cinquanta per cento della popolazione del sud dell’Iraq ad abbandonare la propria casa”[4]. Sul versante opposto, si può rilevare come, invece, gli abitanti delle Maldive (che nell’immaginario collettivo imposto dal mercato appaiono come una sorta di paradiso terrestre) siano assediati dall’innalzamento delle acque, soprattutto nella caotica e sovraffollata Malé[5].
Sotto le etichette di “migranti”, “immigrati”, “extracomunitari”, parole in bocca a chiunque con mille connotazioni dispregiative, c’è una complessità che non ci immaginiamo nemmeno. È necessario, adesso più che mai, reagire alla generalizzazione, all’anomia, alla semplificazione e al non riconoscimento dell’identità di cui sono vittime migliaia di persone che sono costrette ad abbandonare la loro casa e il loro paese non certo per loro libera scelta. C’è il sospetto che la generalizzazione – e la conseguente indifferenza – che fa nascere odio e paura dello ‘straniero’, sia figlia della stessa banalizzazione e semplificazione di molte dinamiche politiche, banalizzazione e semplificazione portate avanti dagli stessi esponenti del Potere. Oggi – viene detto a più riprese, soprattutto dagli esponenti del centro-destra – non c’è più differenza fra destra e sinistra, sono concetti superati, non esistono più né il fascismo né l’antifascismo. Una generalizzazione di questo tipo è assai pericolosa, soprattutto se è veicolata nell’immaginario collettivo (e fra le giovani generazioni) dallo stesso Potere e dai suoi media asserviti. Una generalizzazione che è deleteria anche quando i politici e i ministri, di fronte a una tragedia immane come quella di Cutro, dicono: “non dovevate partire”; “restatevene a casa”; “è solo colpa vostra, perché siete partiti”. Dal canto nostro, non possiamo che rispondere a queste parole ciniche e stupide con quelle finali della Ballata dell’emigrazione (1970) di Alberto D’Amico (qui nella bella versione dei Les Anarchistes) che si riferiva agli immigrati italiani in Svizzera: “Padroni sulla terra ci volete / per far la fame e per tirarne conto / ma verrà il giorno che la pagherete / e che non partirà neanche un migrante”.
gvs
[1] Cfr. G. Toni, Zombie (e) immaginari. Metafore politiche della figura del living dead, in AA.VV., Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, Prefazione di Valerio Evangelisti, Mimesis, Milano-Udine, 2018, p. 107.
[2] Cfr. M. Bettini, Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Einaudi, Torino, 2019, pp. 37-39.
[3] Cfr. S. Freud, Il perturbante, in Id., Opere 1917-1923. L’io e l’es e altri scritti, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1977, p. 82.
[4] E. Borgomeo, Oro blu. Storie di acqua e cambiamento climatico, Laterza, Bari-Roma, 2020, p. 95.
[5] Cfr. F. Deotto, L’altro mondo. La vita in un pianeta che cambia, Bompiani, Milano, 2021, p. 17 e seguenti.