L’importanza della teoria del crollo
Robert Kurz, esponente di spicco, padre, della scuola economica marxista chiamata “Critica del valore”, compie un’operazione di fondamentale importanza quando riorienta la definizione del concetto di crisi economica all’interno della nozione, di carattere forse più sociologico di crollo del sistema sociale. Nel senso che la crisi economica diviene pretesto, come d’altronde, non stupiamoci, avviene negli schemi più tipici del marxismo, del superamento del capitalismo stesso. La “visione” di un crollo, è ideal-tipo e concetto limite necessario: occorre per pensare esattamente la fine, dunque anche il superamento del sistema sociale attuale. Una risorsa decisiva per ogni prospettiva teorica di carattere rivoluzionario. Per Kurz però la consequenzialità tra il capitalismo ed il socialismo non è ne meccanica ne deterministica: lo scenario è aperto, ogni posteriorità è aperta. Questo è il quadro generale su cui si dipana la riflessione di suddetta scuola, e possiamo aggiungere noi come nessuna teoria rivoluzionaria possa fare a meno di un’idea del crollo, per ragioni teoriche ma anche etiche. Teoriche perché per pensare una società diversa occorre individuare il suo negativo anche, che è la società che abbiamo sotto gli occhi, e questa idea della diversità sociale non può che svilupparsi come negatività, alterità, rispetto all’esistente. Il concetto di crollo è appunto quello che Deleuze definirebbe “soglia”, è il passaggio qualitativo tra due frontiere, sia destruens che costruens. Un istante che esprime due dimensioni tempistiche: di rottura, rispetto al passato con cui va a relazionarsi, di costruzione rispetto al futuro che deve andare a dettare. Inoltre etica, se seguiamo il ragionamento dei critici del valore, perché inerente ad un “Che fare?”, cioè a come non perdere la più grande occasione di sempre laddove il capitalismo mostrasse davvero segnali di decadenza, ed in maniera epocale. La politica rivoluzionaria però è sempre legata ad un’alta intensità dell’agire politico, ad una conflittualità proliferante, ad una praticità, attività costante di trasformazione dell’esistente. Comunque la si imposti. Ecco che il legame tra concetto di crollo ed etica della rivoluzione resta, permane nel nostro immaginario con costanza e legittimità almeno dagli albori del pensiero rivoluzionario moderno, “scientifico”. Per Kurz, la modernità inizia dove il lavoro diventa socialmente centrale. Il tema del soggetto è un grande feticcio della modernità, d’altronde. La merce, lei sola plasma la società, soggetto compreso. Il capitalismo possiede una sola potenza creativa: la produzione di valore per mezzo del lavoro. Possiamo qui individuare, commentare noi come il dramma della modernità, sia giocato allora in questa prospettiva tra un’eterodirezione della praxis umana e l’assenza di uno spazio di libertà, di sviluppo ontologico cioè per l’ente uomo. L’essere umano si inserisce nella divisione del lavoro collettiva, qui viene soggettivamente plasmato e direzionato lungo questa unica via evolutiva. Nasci, consuma e crepa, il vecchio motto critico continua ad esprimere bene l’essenza delle nostre esistenze. Altra cosa è una sperimentazione libera di se, una crescita ontologica dell’uomo basata su meccanismi di spontaneità produttiva, dove per produzione si intenda la produzione di realtà, di senso, di significanti o nuovi concetti. Fondamentale torna ad essere allora il tema dell’alienazione, dove per alienazione si intenda esattamente quello che poco sopra andavamo ad individuare come il dramma della modernità. Alienazione come separazione del prodotto dal produttore, ma non solo in senso economico: in senso ontologico, avviene una separazione netta nel capitalismo tra uomo che produce e realtà che viene prodotta, che poi può anche arrivare ad essere lo stesso ambiente di vita, urbano, su cui si dipanano le nostre esistenze. Andiamo ad abitare città che esprimono esattamente questo meccanismo di alienazione. L’importanza della disciplina urbanistica non deve mai essere sottovalutata da chiunque debba svolgere attività di trasformazione sociale intervenendo sui meccanismi di alienazione urbana. L’esempio storico della lotta per l’abitare, se approfondito potrebbe offrire spunti interessanti in questa direzione. Sempre per Kurz, il solo antagonismo di classe, preso cioè come conditio sine qua non dell’agire pratico rivoluzionario è un riduzionismo. Per lui il proletariato non è il soggetto principe della trasformazione sociale ed il cuore del marxismo risiede nella critica della forma merce. Criticando la forma merce si critica ineluttabilmente anche il soggetto borghese. Non ci stancheremo mai di ripetere come il passaggio trasformativo debba più appunto concentrarsi su un’idea di crollo, di caduta del sistema sociale. La riflessione intorno alle soggettività rivoluzionarie è altrettanto fondamentale, ma se non si innestano queste dentro un’ “escatologia” della rivoluzione, dentro un’immagine della caduta del sistema, in pratica il ruolo svolto tradizionalmente nel pensiero rivoluzionario dalla profezia storica, non potremmo mai dedurne neanche l’etica della rivoluzione, ossia il suo concreto, diretto agire pratico. Se non si capisce in che direzione si deve andare si resta fermi, in pratica. Invece occorre inventare dei simboli, degli elementi trainanti di realtà, delle immagini che sappiano materializzare un “imperativo ipotetico collettivo”, una forza sociale capace di muoversi verso una trasformazione sociale, perché stimolata da circostanze (ipoteticità) fattive, concrete, OLTRE i meccanismi di alienazione. E’ una battaglia che si combatte nella dimensione microscopica, molecolare delle nostre esistenze. Non nei grandi orizzonti o nelle grandi promesse mancate. Ma come possiamo rinunciare alla profezia storica se parliamo al contempo di necessità “escatologiche”? La questione sta appunto nell’esaltazione della dimensione micro su quella macro, che viene da un disincanto verso la “teleologia”, cioè un evento futuro da cui si faccia dipendere le condotte attuali; questo evento futuro si esprime in forma diretta nel macro, nelle grandi utopie per es., nel “mito” del crollo del capitalismo, nel millenarismo, in tutte le forme ideologiche apocalittiche. Altra cosa invece è radicalizzare la propria condotta nell’agire politico collettivo, e questo avviene nella dimensione del micro, della socializzazione spontanea, altra cosa è guardare al futuro, ma al futuro che ci è diretto, a quello che incide sulle nostre condizioni di vita e che il più delle volte si esprime appunto sui territori, dimensione micro del Leviatano Stato Nazione, dove cioè la trasformazione sociale dovrebbe concentrare maggiormente i propri sforzi. Avvicinare il futuro dell’utopia radicalizza il nostro presente, ci agisce appunto in un’etica trasformativa, riconducendo le nostre condotte (sociali) all’interno di meccanismi orientati al crollo: noi stessi produciamo il crollo, siamo cambiamento in atto. Il concetto di crollo deve essere dunque secolarizzato. Per secolarizzare occorre essere empirici, il percorso teorico è obbligato. L’empirismo non ingenuo, l’empirismo forte in campo epistemologico del vaglio dell’intero novecento, che si intreccia e si perfeziona con l’antagonista storico, il razionalismo. La definizione di empirismo razionalistico di Bachelard è pregnante, ma anche quella di empirismo radicale di Deleuze lo è: empirismo radicale perché realtà empirica spinta agli estremi del proprio senso, piena di senso, dunque di elementi razionali. Ecco che il nostro agire politico per essere trasformativo ci appare adesso in una perfetta morsa schematica: deve pensare il crollo, in maniera diretta, avvicinando i termini della trasformazione alle possibilità del proprio intervento, ossia nella dimensione del micro, dove si esprimono empiricamente le maggiori dimensioni del senso.
DIEGO SARRI