Comunicazione e culture

Marketing, rivolte e democrazia in America: se Apple, Nike, Adidas e IBM sono dalla parte dei manifestanti

Il rapporto tra marketing e politica è sempre stato visto come quello tra due soci di cui il primo conosce le tecniche di sviluppo aziendali mentre il secondo è più interessato ad acquisirle che a promuoverle. In parte questo luogo comune è vero in parte le cose funzionano in altro modo. In questo scenario, ciò che oggi assume indubbio interesse è il fatto che la politica non ha una propria autonoma strategia di comunicazione, e di sviluppo di un linguaggio, e ha naturalizzato l’adattamento delle proprie esigenze a stili, strategie e piattaforme di comunicazione sviluppati dal marketing. È un fenomeno curioso, dagli esiti culturali più strani: da una parte il linguaggio del marketing, quando usato dalla politica, si politicizza dall’altra, nel momento in cui il linguaggio della politica è adatto a esigenze di marketing, tende a depoliticizzarsi.  In generale si tratta del prodotto culturale comune a operatori di mercato e cordate politiche ovvero soggetti che tendono a utilizzare i flussi di comunicazione della società in modi differenti. Nell’ultima decade questo prodotto fa parte, a pieno titolo, della data-driven economy in diverse forme (dalla produzione di dati alla circolazione di merci oltre che, naturalmente, di consenso). Il fatto però che la politica tenda a perdere una propria autonoma originalità in questi processi -egemonizzati dalle tecniche di marketing e dalle esigenze delle data-driven economy – non rimane senza conseguenze. Basta vedere il processi di comunicazione collettiva durante il periodo più duro dell’emergenza covid: scomparso il ruolo comunicativo guida dei partiti (a parte qualche pagina facebook che, ricordiamo, è un prodotto di marketing ), ingessata la comunicazione istituzionale (per motivi di equilibrio di potere ma anche per esigenze comunicative delle figure tecniche durante la crisi) è la pubblicità che ha fatto la parte del leone nella propaganda dei comportamenti, e dei sentimenti, da suggerire alla popolazione nelle fasi dell’epidemia. E così il ruolo politico della propaganda è passato alle mozzarelle, alle fabbriche di divani, ai supermercati, alla comunicazione della filiera agroalimentare che hanno inondato il corpo sociale, come i social e i media,  di proposte di stili di atteggiamenti positivi, solidali, patriottici quelli che fanno una nazione una e unica, con una identità da adottare durante e dopo il lockdown. Non sono mancate, negli spot, le citazioni di Martin Luther King per dare un ruolo pastorale e di guida politico-spirituale al messaggio di marketing. Alla politica, quindi, la comunicazione ingessata e le polemiche velenose, alla pubblicità il ruolo guida della comunicazione politica, quello che definisce, tramite la propaganda, il modo con il quale una nazione si mobilita.  Un caso tipicamente italiano? No, se andiamo a vedere cosa è accaduto, anche se in forme diverse, negli Usa in queste settimane: l’esternalizzazione delle tecniche di comunicazione politica verso il marketing ha ottenuto, quasi ovunque, l’effetto di lasciare al mercato la produzione del linguaggio politico che parla alla popolazione. Quindi se Apple, Nike, Adidas e IBM si schierano, in forme diverse, a favore dei manifestanti contro Trump non fanno altro che tutelare la quota di linguaggio politico che detengono sul mercato.

Guerrilla Marketing2

Ma in Usa, di cosa stiamo parlando? Della presa di posizione delle aziende citate contro le misure di Trump adottate verso i manifestanti dopo l’uccisione di Floyd: tweet e retweet, tra Adidas e Nike, dichiarazioni del CEO, nel caso di Apple, prese di posizioni ufficiali del consiglio di amministrazione nel caso di IBM. Tutte a favore dei manifestanti, IBM addirittura contro i software di riconoscimento facciale (usabili contro chi scende in piazza) già fortemente criticati in USA poco prima della crisi a causa della vicenda Clearview (citata qui). Ma perchè accade tutto questo? Per una serie di motivi che vanno elencati brevemente.

1) si tratta di multinazionali non soddisfatte di Trump. Basta pensare alle criticità permanenti tra governo cinese e presidenza Trump  e realizzare che IBM è in Cina dal 1995,  Apple ha nel paese asiatico sia fabbriche che un importante mercato strategico e Nike esternalizza, anche oggi, la produzione in Cina. Come avviene per Adidas, che è tedesca, ma che in Cina ha quasi 130 fabbriche e, con queste posizioni, mette in difficoltà una amministrazione americana sgradita al governo di Berlino, un modo di fare politica estera efficace senza crerare frizioni visibili tra le cancellerie. In questo modo, e noi con Mediaset che a suo tempo si fece partito politico ne dovremmo sapere qualcosa, chi detiene quote di linguaggio politico grazie agli investimenti in marketing decide di intervenire in prima persona per rappresentare direttamente i propri interessi.

2) un modo particolare di fare marketing e customer care: se il problema di IBM è stato quello di aggiornare la propria immagine usando la questione del riconoscimento facciale, per Apple, Nike e Adidas – che  sono parte degli oggetti quotidiani usati da milioni di manifestanti – si tratta di un tipo di customer care dove il prodotto fornisce, tramite la comunicazione che viene fatta nella sfera pubblica, il valore aggiunto della dignità e del rispetto del manifestante. Insomma, il cliente Apple è seguito e curato ovunque, non come quello della ormai distrutta Blackberry che, strumento principe nei riot inglesi del 2011, non ha mai potuto usare questo genere di valore d’uso per il proprio marketing ed è finita sotto attacco in India e in Sudafrica come elemento di violazione della sicurezza nazionale. Per Nike e Adidas la customer care di questo tipo assume la funzionalità di un nuovo genere di street marketing, legato alle rivolte da strada.

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Dal punto di vista più strettamente legato alle teorie del marketing bisogna dire che, guardando ai classici del settore, l’obiettivo Guerrilla Marketing, nelle strategie comunicative delle multinazioni qui citate è pienamente centrato.

Ma cosa è il Guerriglia Marketing? Prima di tutto si tratta di una concezione aziendale, quindi pienamente interna al mercato, tratta dall’omonimo testo di Jay Levinson che si riassume così:  usare tattiche non convenzionali rispetto a quelle più praticate nella propria  epoca per fare marketing anche con piccoli budget a disposizione. Da notare come gli esempi proposti siano tutti di eventi comunicativi tutti a basso, bassissimo budget, con grande effetto sul pubblico e sulla politica, espressi con tweet e comunicati e ramificatisi in rete con spontaneità virale. Tutta roba che non stravolge certo i grandi programmi di spesa, e le politiche ufficiali di queste aziende ma che, quando è usata con intelligenza come in questo caso,  centra tutti gli obiettivi di questo genere di comunicazione agile: selezionare il target e colpirlo, parlare con linguaggio chiaro al proprio pubblico, creare attenzione generalizzata senza perdere l’identità del proprio business anzi, rafforzandola.  Vista l’entità delle rivolte in USA nei giorni scorsi si può dire che siamo di fronte ad un passaggio intelligente del Guerrilla Marketing: fare marketing sulla guerriglia urbana. L’esternalizzazione delle tecniche di comunicazione politica verso il marketing ha quindi ottenuto, in Usa come in Italia, l’effetto di lasciare al mercato la produzione del linguaggio politico che parla alla popolazione. Con una differenza fondamentale, come si è visto, in questo genere di produzione: in Italia la comunicazione politica, che promuove un prodotto, ha un budget tradizionale e si vuole sinergica con quella istituzionale; negli Usa si tratta di guerriglia marketing, a basso budget, che genera l’effetto di togliere credibilità al presidenza in carica.

C’è inoltre un effetto su cui il comportamento dei movimenti, escludendo i copycat dell’estetica della protesta proveniente da oltreoceano,  devono fare una riflessione: l’agitazione in forma di rivolta è sempre produzione di utopia ed è in nome di questa forza sociale dirompente che chi scende in piazza è davvero disposto a tutto. L’utopia è anche il grande valore aggiunto delle strategie di marketing nel momento in cui un prodotto da lanciare deve rompere con l’ordine esistente e rivoluzionare il mercato. Lo vediamo nel marketing delle tecnologie della comunicazione (con l’idea della libertà del comunicare-vivere rilanciata ad ogni nuova linea di prodotto di smartphone o abbonamenti flat), come in quello dell’abbigliamento sportivo (che si aggancia da tempo al linguaggio del mondo senza barriere razziali).  In questo senso l’utopia è sia  la connessione collettiva di cui i movimenti fanno parte che il know-how di chi deve lanciare un prodotto che rivoluziona il mercato. Fare quindi marketing sulla guerriglia non è solo sperimentare linguaggi ma anche alimentare know-how aziendali di grande importanza commerciale. È contrastabile questo modo di procedere?  Solo i movimenti, le culture più affini al concetto di guerriglia lo possono destabilizzare, guardando all’unico modo in cui la politica è efficace: quando trova la forza di emanciparsi dal marketing. Il resto, come si vede tutti i giorni, è già assorbito nel mainstream o, come nel caso della fase vincente della comunicazione di Salvini, fa guerrilla marketing per crescere nel mondo istituzionale senza mai uscire da quelle logiche. Infine vale la pena ricordare La democrazia in America anche se chi scrive ha un retropensiero: quello che vuole che Tocqueville non si sia mai fatto una grossa idea di cosa fossero effettivamente gli Stati Uniti che ha visitato. Tocqueville parla di democrazia in America come di un regime abbandondato ai propri istinti senza una reale regolazione giuridica e costituzionale.  Sembra strano ma dopo quasi due secoli di iperfetazione giuridica dell’America su sé stessa successivi al libro di Tocqueville, che esce nel 1835,  quest’idea del rapporto tra circolazione degli istinti e debolezza della democrazia pare proprio vada fatto uscire dagli archivi.  Perchè il rapporto tra istinto e utopia, connessi nelle tecnologie della comunicazione, è di quelli in grado di mettere in discussione le forme della democrazia. C’è solo da chiedersi se, in un senso, questo rapporto viene cavalcato dal marketing o, in un altro, dai movimenti.

 

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