Speciale Bolivia: rischio golpe?
Dopo le elezioni tenutesi il 20 ottobre che hanno sancito la rielezione del presidente Morales la situazione politica in Bolivia si è fatta molto tesa: l’opposizione non ha riconosciuto i risultati e ha messo in atto una mobilitazione che come nel 2008 ha assunto un carattere violento ed eversivo, facendo ipotizzare un vero e proprio tentativo di colpo di Stato. Nelle scorse ore in alcune città la polizia si è rifiutata di intervenire contro i dimostranti e secondo gli osservatori la giornata di lunedì 11 novembre potrebbe portare allo scontro decisivo, con il rischio di una guerra civile.
Sulla situazione nel Paese andino pubblichiamo due articoli, il primo del giornalista argentino Pablo Stefanoni, ex redattore di Le Monde Dilpomatique e animatore di “Nueva Sociedad”, l’altro del sociologo boliviano Eduardo Paz Rada. Come i lettori vedranno, i due articoli rispecchiano una certa differenza d’interpretazione sulle vicende delle esperienze progressiste latinoamericane che si ritrova ormai in tutta la sinistra anticapitalista: da una parte si tende a mettere in evidenza le indiscutibili strategie golpiste della oligarchie locali e della reazione internazionale, dall’altra si ricordano i limiti dei governi progressisti in termini di qualità della classe politica, scarsa partecipazione popolare con rischi di involuzioni autoritarie e mancata transizione da un’economia estrattivista a una ecosostenibile (nell’intervista che abbiamo pubblicato giorni fa sul nostro sito a Raúl Zibechi riferendosi al governo di Morales parlava addirittura di “regime”).
Ci è sembrato quindi giusto pubblicare le traduzioni di due autori che pur ritrovandosi nell’ambito della sinistra antimperialista manifestano un diverso orientamento sulla questione boliviana. Buona lettura!
Nello Gradirà per Codice Rosso
Che succede in Bolivia?
Pablo Stefanoni
(Nueva sociedad)
Le elezioni presidenziali del 20 ottobre hanno immerso la Bolivia in una crisi politica. Quel giorno il presidente Evo Morales cercava un quarto mandato nella competizione più aperta dal suo arrivo al Palacio Quemado nel gennaio 2006, con il 54% dei voti. Da allora, il «primo presidente indigeno» ha vinto, elezione dopo elezione, con più del 60% dei voti ed enormi distanze rispetto ai suoi avversari, e si è connesso come nessuno dei suoi predecessori con la Bolivia indigena e popolare. Però in questa occasione la congiuntura era diversa: per la prima volta, c’era la reale possibilità di un secondo turno. Per evitarlo, Morales doveva ottenere più del 50% dei voti o il 40% con dieci punti di distacco sul secondo.
La notte del 20 ottobre si era conclusa con il ballottaggio come probabile risultato: la Trasmissione dei Risultati Elettorali Preliminari (TREP) si è interrotta quando il conteggio aveva raggiunto l’83% delle schede e il distacco era di sette punti. Gli exit poll dell’agenzia Viaciencia –l’unica autorizzata– aveva dato risultati simili. Il giorno dopo, quando fu completata la TREP, si annunciava ormai una vittoria di misura al primo turno per Morales. Questo quadro è stato confermato giorni dopo dal conteggio ufficiale che terminò con Morales al 47,08% e Carlos Mesa al 36,51%; cioè una differenza di 10,54 punti percentuali, 0,57 al di sopra di quanto necessario per vincere al primo turno.
Cosa è successo quindi ? Da una parte l’opposizione era preparata per denunciare dei brogli in qualsiasi scenario che non fosse il ballottaggio. Ma la sospensione della TREP e il significativo aumento della percentuale di Morales, oltre al margine esiguo per raggiungere la formula del «40 più 10», hanno contribuito, in un clima di forte polarizzazione, al fatto che la metà della Bolivia si convincesse che c’era stata un’alterazione dei risultati, al di là della possibilità di una conferma tramite una revisione scheda per scheda (sono su internet), e del fatto che il presidente cercava di rimanere al potere in ogni modo.
Che un conteggio rapido come la TREP non arrivi al 100% non è necessariamente motivo di allarme. Ma come ha mostrato il giornalista Fernando Molina, in questo caso il Tribunal Supremo Elettorale (TSE) e il Governo hanno dato almeno quattro spiegazioni differenti per giustificare la sospensione del conteggio: che non volevano si sovrapponesse il conteggio rapido con quello ufficiale, che già stava cominciando a quell’ora; che c’era stata un’allerta di attacco cibernetico ed era stata fermata per ragioni di sicurezza; che si ferma sempre intorno all’80%; che non era stato incluso il 17% delle schede perché quelle regioni lontane che si diceva mancassero non hanno internet per poter inviare le foto corrispondenti.
Ancora peggio, il vicepresidente del TSE, Antonio Costas, si è dimesso dichiarando di non essere stato né consultato né informato sull’ordine di chiudere la TREP e ha detto che « non è stata una buona decisione». Le sue dimissioni sono state enigmatiche: ha detto che lo faceva per una questione di principio ma che non c’era stata un’alterazione dei risultati. Contemporaneamente il Governo accusava l’opposizione «razzista» di voler rendere invisibile il voto rurale che, presumibilmente, spiegava il salto del candidato del Movimiento al Socialismo (MAS) nell’ultima fase del conteggio.
Al di là della discussione «tecnica» sullo scrutinio –il Governo ha proposto un audit da parte dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA)–, ci sono tre problemi di fondo dietro una crisi che sta provocando una profonda frattura tra la Bolivia rurale e quella urbana, che comprende anche lo scontro fisico.
– Evo Morales è arrivato a queste elezioni con la sua legittimità erosa dalla sconfitta nel referendum del 21 febbraio 2016 (21F), quando la sua proposta di modifica costituzionale per consentire la rielezione indefinita fu sconfitta di misura. Dopo questo scivolone, il fronte governativo si è dedicato per mesi a valutare «altre strade» per la rielezione e c’è riuscito tramite un errore del Tribunale Costituzionale Plurinazionale. Per questo ora la denuncia di brogli –che dev’essere provata– si confonde con la denuncia sull’«illegittimità» di Morales a candidarsi, cosa che rappresenta un intreccio di difficile soluzione. Per «cancellare» il più possibile i risultati del referendum, il presidente boliviano aveva bisogno di una vittoria clamorosa. Ma anche se è terminato in vantaggio su Mesa, non ha quasi superato la barriera magica dei dieci punti di distacco per evitare un ballottaggio nel quale poteva perdere. Cioè, questo risultato non solo non è riuscito a far dimenticare quello del 21F, ma lo ha riportato esplosivamente di attualità.
– Il MAS non riesce a introdurre nel suo immaginario la possibilità di uscire dal potere come un avvenimento non catastrofico. Evo Morales non ha mai abbandonato facilmente le cariche che ha occupato: è stato l’unico deputato del MAS che internamente aveva la possibilità di rielezione indefinita e dopo aver conquistato la Presidenza è rimasto il massimo dirigente della Federazione Speciale dei Lavoratori Contadini del Tropico di Cochabamba (organizzazione-madre dei coltivatori di coca). In questo senso, nonostante il discorso governativo, Morales non è mai stato un «un contadino tra gli altri». E più di recente, la sua immagine è stata costruita anche come quella di un leader eccezionale («C’è un solo Fidel, un solo Gandhi, un solo Mandela e un solo Evo», ha detto in un’occasione l’ora ex cancelliere David Choquehuanca). Questo, aggiunto a un’idea classica di rivoluzione, anche se costruita in un ambito democratico, rende difficile l’idea fondamentale di alternanza democratica, con il MAS come asse potenziale di una opposizione, che in caso di sconfitta lotti contro qualsiasi tentativo di indebolire le indubbie conquiste sociali, materiali e simboliche di questi 14 anni di «Rivoluzione Democratica e Culturale». La democrazia seguirebbe così la metafora della tramvia, sulla quale uno sale, arriva a destinazione (lo Stato) e poi scende.
– All’interno di un’opposizione che in linee generali è democratica (lo stesso Mesa è un centrista moderato) e oggi più numerosa che in passato, compaiono gruppi radicali con un discorso revanscista, razzista e violento. La comparsa di controverse figure del passato, come l’ex-ministro Carlos Sánchez Berzaín, profugo negli Stati Uniti per la sua responsabilità nel massacro di civili durante la Guerra del Gas, non aiuta l’opposizione e rafforza il discorso governativo contro il «ritorno al passato». La decisione del fiammante Comitato di Difesa della Democrazia (Conade), che raggruppa le principali forze di opposizione, di rifiutare l’audit internazionale e lottare per l’annullamento delle elezioni può contribuire, anch’essa, a radicalizzare la situazione, probabilmente con scarse possibilità di vittoria dell’opposizione. (Stranamente, la Bolivia è l’unico Paese della regione nel quale il segretario generale dell’OEA, Luis Almagro, è visto da molti come un «populista», quasi chavista, per aver avallato la candidatura di Morales).
In questo quadro la Bolivia può avanzare verso una versione soft di quanto accaduto in Venezuela: una situazione nella quale il Governo si impone, ma con forti deficit di legittimità, nel contesto di una reciproca delegittimazione tra governo e opposizione e con una radicalizzazione di quest’ultima. Ciò nonostante, come ha scritto Fernando Molina, è vero che il livello di violenza in Bolivia è molto minore, non c’è crisi economica (al contrario, la macroeconomia è uno dei punti di forza di Morales) e la classe politica è più pragmatica e meno ideologica di quella venezuelana.
Ciò nonostante esiste il rischio di una maggior polarizzazione e scontri di piazza tra sostenitori del governo e oppositori, oltre a un eccessivo uso statale dei movimenti sociali come forza di scontro contro chi protesta; di fatto ci sono già stati vari feriti. Morales ha risposto usando la stessa espressione di Lenín Moreno o Sebastián Piñera –golpe, destabilizzazione–, ha chiamato «delinquente» Mesa, ha accusato i giovani di protestare per denaro o per «voti» (una presunta e non provata ricompensa per gli studenti universitari per andare alle marce) e ha portato il suo discorso sul terreno de la dicotomia « Patria o muerte» . Tutto questo succede dopo una campagna elettorale Statocentrica, nella quale i movimenti sociali, senza l’epica di una volta, si sono limitati a seguire le iniziative tracciate dall’apparato statale, con le loro inerzie e forme tradizionali di conservazione del potere. L’opposizione, da parte sua, rifiuta l’audit e fa appello a «radicalizzare» i blocchi e gli scioperi nelle città per «asfissiare lo Stato» (di fatto sono già state bruciate alcune sedi locali del tribunale elettorale).
È significativo che personaggi di riferimento come l’argentino Juan Grabois argomentino che bisogna scartare qualsiasi osservazione sull’elezione in nome della « stabilità del Sudamerica» (curiosa immagine nella penna di un leader sociale). Questa è l’altra faccia della medaglia rispetto a coloro che hanno cominciato a denunciare brogli prima che si cominciasse a contare i voti. Certo è che Morales ha avuto durante i suoi 14 anni di governo altissimi livelli di legittimità (fino al punto di vincere nel 2014 nella regione di Santa Cruz) e che la sua erosione si deve, in grande misura, alla decisione di non rispettare i risultati di un referendum.
Questa è senza dubbio una brutta notizia, in un contesto nel quale la crisi dell’«oasi» cilena (con la sua combinazione disuguale di colonizzazione mercantile di tutte le dimensioni della vita sociale e gerarchie di vecchia data) e la vittoria del Frente de Todos in Argentina sembrano dare una nuova opportunità ai progressismi latinoamericani.
Nuova tappa della cospirazione imperialista in Bolivia
Eduardo Paz Rada (Sociologo e docente dell’Universidad Mayor de San Andrés, La Paz).
Quando sembrava che il processo politico elettorale boliviano si orientasse verso il rafforzamento istituzionale della democrazia radicale con la vittoria di Evo Morales nella consultazione del 20 ottobre, è comparso il volto cospirativo, nelle sue forme più conservatrici di razzismo, odio e violenza verso gli indios e il popolo, tramite oligarchie regionali capeggiate dal Comitato Cívico di Santa Cruz e dal candidato sconfitto Carlos Mesa, entrambi controllati dall’imperialismo e la loro strategia di frenare il processo di liberazione nazionale e sovranità che è in corso in Bolivia negli ultimi 14 anni.
Il volto del preordinato colpo di Stato si è smascherato due giorni dopo le elezioni, quando il presidente del Comitato Cívico di Santa Cruz, Luis Fernando Camacho, ha dichiarato pubblicamente di considerare Carlos Mesa, di Comunidad Ciudadana (CC), presidente della Bolivia e stabilire il suo governo a Santa Cruz de la Sierra, disconoscendo i risultati elettorali. Il suo obiettivo era quello di inventare un “Guaidó boliviano” che fosse riconosciuto dagli USA e altri Paesi, denunciando l’esistenza di una frode elettorale.
Nonostante il fallimento del grossolano tentativo iniziale di Camacho, la tattica subisce un cambiamento di rotta nel momento in cui si riunisccono diversi dirigenti politici neoliberisti, come lo stesso Carlos Mesa e Samuel Doria Medina, dirigenti cívicis come Fernando Camacho e Marco Pumari del Comitato Cívico di Potosí, e regionali come il governatore di Santa Cruz, Rubén Costas; e quello di Tarija, Adrián Oliva, che decidono di formare il Coordinamento di Difesa della Democrazia (CDD) e fanno appello alla resistenza dei cittadini, la stessa che ha auto elevati livelli di violenza, razzismo e insulti contro la popolazione india e meticcia.
Iniziative oligarchico-imperialiste
La polemica per giustificare la trama cospirativa è iniziata prima delle elezioni, quando i sondaggi davano un ampio vantaggio a Evo Morales e l’opposizione e il governo di Donald Trump denunciavano l’esistenza di brogli. Con i risultati ufficiali della votazione di quasi 7 milioni di persone che davano la vittoria presidenziale al Movimiento Al Socialismo (MAS) di Morales, con il 47.5% dei voti, rispetto al 36.9% dei voti del CC di Mesa al primo turno, si è dato inizio ad una campagna sui mezzi di comunicazione e sui social network, con blocchi e marce pubbliche, denunciando brogli elettorali e reclamando lo svolgimento di un secondo turno o ballottaggio.
A livello interno, il giornale sostenitore del CC, all’apparenza indipendente, La Prensa, e la catena internazionale CNN, si sono trasformati nei mezzi di diffusione di notizie false, voci e mezze verità per creare un clima di incertezza sui risultati elettorali e le azioni di violenza.
Anche gli ambienti reazionari internazionali sono stati presenti: il governo USA e la maggioranza dei Paesi suoi alleati dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), tra questi il Brasile, insieme all’Unione Europea (UE), si sono pronunciati a favore contro il riconoscimento della vittoria di Morales al primo turno, mentre i governi di Messico, Venezuela, Cuba, Cina, Russia e più di 90 Paesi del Movimento dei Non Allineati (Mnoal) hanno riconosciuto la vittoria di Morales e del MAS. Anche il presidente eletto dell’Argentina, Alberto Fernández, si è congratulato con il vincitore.
Un terzo tentativo di cambiare la tendenza politica e i risultati elettorali si è presentato con la richiesta di svolgimento di un audit da parte della OEA, che aveva una numerosa delegazione di osservatori in queste elezioni. Questa richiesta è stata canalizzata dal ministro delle Relazioni con l’Estero, Diego Pary, per realizzare il citato audit. Tuttavia, con un cambiamento radicale di posizione Carlos Mesa ha respinto l’iniziativa dell’OEA e ha proposto l’annullamento di tutto il processo democratico elettorale, modificando la sua posizione iniziale e ripetendo gli argomenti di Fernando Camacho.
Scontri e rapporti di forza
La ragione di questo cambio è che Mesa, che ha avuto come partner per la vicepresidenza il cruceño Gustavo Pedraza, è diventato un prigioniero dei settori dell’oligarchia agroindustriale e proprietaria terriera dell’ Oriente, rappresentati da Camacho, dato che grazie al voto di Santa Cruz il candidato dell’opposizione è riuscito a raggiungere un risultato importante nelle elezioni. Mesa ha vinto in questo dipartimento con il 48,85%, seguito da Morales con il 34,76%, lasciando molto indietro il candidato ufficiale dell’oligarchia cruceña, Óscar Ortiz, di Bolivia Dijo No (BDN), che ha ottenuto soltanto il 9,42% di adesione.
Questa mossa politica dell’opposizione è stata accompagnata da una mobilitazione sociale in cui si sono mischiati gruppi, famiglie, studenti e giovani di settori medi e agiati delle città centrali di La Paz, Cochabamba e Santa Cruz che hanno manifestato il loro disaccordo con il MAS ed Evo Morales, con gruppi di scontro organizzati per aggredire con violenza persone di apparenza etnica e abbigliamento indigeno o meticcio, com’è successo a Santa Cruz, dove sono stati attaccati con armi da fuoco commercianti che rifiutavano i blocchi, o a Cochabamba, dove gruppi di motociclisti armati di bastoni hanno colpito gente dei settori contadini.
Il deputato eletto di CC e giornalista, Edwin Herrera, ha annunciato che i risultati elettorali che davano la vittoria al MAS avrebbero prodotto una grande protesta popolare e avrebbero portato a una guerra civile in Bolivia. Si ricorda che nel 2008 si era presentato uno scenario di guerra civile quando le oligarchie dell’ Oriente (Santa Cruz e Pando) si sollevarono in armi contro il governo, con bande paramilitari che puntavano al federalismo e al separatismo, e furono sconfitti dai movimenti contadini, urbano-popolari e coloni.
Durante i primi otto giorni dopo la conclusione delle elezioni, le forze di opposizione hanno messo in atto un ampio repertorio di azioni e mobilitazioni denunciando i brogli, chiedendo il secondo turno elettorale, definendo Evo Morales un dittatore o reclamando l’annullamento delle elezioni, per cui di fronte a questo, a partire dalla seconda settimana del post-elezioni, i movimenti popolari hanno iniziato un’azione di risposta, guidati dalla Central Obrera Boliviana (COB) e dalla Coordinadora Nacional por el Cambio (Conalcam).
Due progetti storici in lotta
Nei rapporti tra le forze sociali e politiche nelle piazze e nelle strade, le azioni di massa dei minatori, contadini/e, cocaleros, gruppi di vicinato, di lavoratori, trasportatori, interculturali e indígeni dell’Oriente e dell’Occidente sono risuciti a spiazzare e sconfiggere i loro avversari che, anche tramite la CDD, hanno voluto circondare e prendere possesso della Casa del Popolo a La Paz, dove sono dislocati gli uffici del presidente Evo Morales. Il símbolo di questa disputa è stata l’irruzione nel centro della capitale dei minatori, che con l’esplosione di candelotti di dinamite hanno smantellato i blocchi e le proteste dell’opposizione ed hanno imposto l’ordine nella città.
È opportuno segnalare che nello scrutinio generale Morales ha ottenuto nel dipartimento di La Paz il 53,16% dei voti rispetto al 28,83% di Mesa, e a Cochabamba il 57,52% rispetto al 32,21% del suo avversario. Il MAS ha vinto in sei dipartimenti e il CC in tre. E la distribuzione dei seggi del potere legislativo dà al MAS 21 senatori e al CC 15, inoltre il MAS ottiene 68 deputati, il CC 50, il Partido Demócrata Cristiano (PDC), la sorpresa del candidato ultraconservatore di origine coreana Chi Hyun Chung, 8 deputati e BDN 4.
La polarizzazione politica ha svelato gli obiettivi ricercati dalle posizioni in lotta: da una parte la restaurazione del neoliberismo, promossa dalle oligarchie locali insieme all’alleanza strategica con gli USA, che cospirano contro il governo di Morales e la sua rielezione, e all’altra parte l’imprescindibile approfondimento di un processo nazional-popolare e antiimperialista che smetta di fare concessioni ai poteri economici interni ed esterni e costruisca le fortezze del potere popolare nell’economia e nella politica, con la democrazia partecipativa e il controllo sociale, promovendo allo stesso tempo il progetto di unità e integrazione emancipatrice dell’America Latina e dei Caraibi.
Fonte di entrambi gli articoli: Rebelión
Traduzione per Codice Rosso di Nello Gradirà