Interviste

Virus, politica e sanità: intervista a Sara Gandini

L’emergenza Coronavirus in corso si sta trasformando in una vera e propria emergenza economica, sociale, culturale e umana che sta colpendo soprattutto le fasce più deboli della popolazioni come gli anziani, i poveri, i lavoratori sfruttati, ecc. Di fronte a questa situazione drammatica in termini di morti, sofferenza e solitudine diffusa, la politica e la sanità pubblica sembrano essere immobili ed inerti.

In che senso possiamo parlare di Sindemia e non di Pandemia per questa emergenza che stiamo attraversando? Il nostro rapporto con la natura, con il lavoro e con l’altro, da tempo ormai, è stato inesorabilmente compromesso?

Nominare COVID-19 come una Sindemia implica sottolineare che si tratta di una malattia che colpisce pesantemente quasi sempre persone con altre patologie e generalmente svantaggiate, perché con redditi bassi e socialmente escluse. Le malattie croniche concomitanti, che rendono la prognosi della Covid-19 peggiore di altre malattie, sono dovute a fenomeni eliminabili se si rinnovassero le politiche pubbliche su ambiente, salute e istruzione. È fondamentale riconoscere le cause sottostanti, quelle strutturali, e intervenire sulle condizioni in cui il virus diventa letale, altrimenti nessuna misura sarà efficace. A differenza della pandemia, che indica il diffondersi di un agente infettivo in grado di colpire più o meno indistintamente con la stessa gravità chiunque, parlare di sindemia vuol dire tenere in conto della interazione tra covid-19, malattie non trasmissibili e condizioni socio-economiche. Per ridurre la mortalità a livello di popolazione ha una importanza relativa quanto sia efficace un trattamento o protettivo un vaccino perché la ricerca di una soluzione esclusivamente biomedica al COVID-19 è destinata a fallire in quanto una larga parte della popolazione non ha accesso alle cure efficaci. Inoltre se tutti gli interventi si concentrano solo sul limitare il contagio e la diffusione del virus, perdiamo di vista che le misure restrittive a lungo termine possono aumentare le diseguaglianze sociali e creare un vero e proprio circolo vizioso che riduce i redditi già bassi e infine l’aspettativa di vita delle classi sociali più in difficoltà.

In questo momento drammatico per la nostra sanità è necessario rimettere in piedi i luoghi della sanità territoriali. Quali sono e come metterli in condizione di lavorare efficacemente di fronte a questa emergenza e a tutte le altre situazioni critiche della sanità italiana?

Le Regioni in cui l’assistenza sanitaria territoriale è più sviluppata sono quelle che hanno saputo gestire meglio le situazioni critiche dettate dalla pandemia. Nella prima ondata la Lombardia ha puntato sulla ospedalizzazione della quasi totalità dei malati, mentre il Veneto e l’Emilia-Romagna hanno scelto la via della presa in carico territoriale e dell’assistenza domiciliare. In Lombardia a marzo hanno ospedalizzato quasi il 100% dei pazienti affetti da Covid-19 mentre nello stesso periodo in Veneto era ricoverato circa il 30% e in Emilia-Romagna poco meno del 60. La presa in carico attraverso l’assistenza integrata ha contribuito a far diminuire la pressione sugli ospedali e sulle terapie intensive e, di fatto, a ridurre il tasso di mortalità legato alla diffusione del virus.
È importante quindi potenziare l’assistenza territoriale integrata per giungere a un’efficace riorganizzazione del Servizio Sanitario Nazionale.
Purtroppo tra il 2009 e il 2018 la spesa sanitaria pubblica italiana in relazione al Prodotto interno lordo ha subito una decrescita costante, passando dal 7,04% al 6,54, mentre negli altri principali Paesi europei, come Germania e Francia, il peso della spesa sanitaria sul Pil è aumentato rispettivamente dello 0,18 e dello 0,67%: http://www.ordinemedicifc.it/2020/10/02/lassistenza-territoriale-e-la-chiave-per-superare-lemergenza-e-riformare-il-ssn/.

Secondo l’istituto di statistica tedesco DESTATIS, la Germania ha un budget annuale per la sanità di circa 375 miliardi di euro, pari all’11,5% del Pil e 4.544 euro a cittadino. Secondo i dati della Comunità Europea, l’Italia investiva nel 2017 nelle spese sanitarie 2.483 € per cittadino pari all’8,8% del suo Pil. La media europea corrisponde al 9,8% del Pil, quindi la Germania investe molto di più sia dell’Italia che della media Europea. La Germania anche durante la seconda ondata ha una mortalità per Covid-19 molto più bassa degli altri paesi dimostrando al mondo che investire nella salute è fondamentale e che è possibile far collaborare sanità pubblica e privata per una migliore sanità a disposizione di tutta la popolazione. Non ha dovuto fare il lockdown completo perché, oltre ad una serie di misure per contenere l’epidemia, i Parlamenti hanno approvato sostanziosi sussidi e finanziamenti per la ricerca scientifica. Oltre alla Germania vorrei nominare anche la Svezia perché è la nazione che più ha puntato sulla fiducia e sulle relazioni. Anche Mike Ryan, capo del Programma di emergenze sanitarie dell’Oms, in conferenza stampa a Ginevra ha spiegato che la Svezia ha implementato una forte strategia di sanità pubblica e ha puntato sull’informazione e la responsabilizzazione dei cittadini. Le politiche pubbliche si sono basate su l’alleanza tra istituzioni e cittadinanza e questo aiuta soprattutto quando sappiamo che il virus c’è e rimarrà a lungo in famiglia e in comunità, per cui è importante lavorare sulla consapevolezza dei possibili rischi soprattutto per le persone anziane e con patologie concomitanti.
Un altro paese che è riuscito a tenere abbastanza bene sotto controllo le conseguenze della pandemia è il Portogallo, nonostante abbia il più basso tasso di posti letto in terapia intensiva d’Europa (4,2 ogni 100.000 abitanti) e un numero di ventilatori meccanici insufficiente per far fronte alle previsioni (1142 ventilatori per circa 10 milioni e mezzo di abitanti).
I dati dell’OCDE ci dicono che il Portogallo è il paese con il più alto numero di medici pro capite (5,0 ogni 1000 abitanti) anche se solamente 2,8 ogni 1000 lavorano nel pubblico, un valore al di sotto della media OCDE-36 (3,5 ogni 1000 abitanti).
La risposta alla pandemia di Covid-19 inizia i primi di febbraio quando in ogni unità funzionale di medicina generale e familiare vengono riconvertiti alcuni consultori in sale di isolamento, tutte dotate di ossimetro. Siccome circa il 95% dei casi accertati non necessita di cure ospedaliere, viene accompagnato telefonicamente da infermieri e medici di famiglia e da unità territoriali simili alle USCA italiane, strutture extra-ospedaliere dove medici e infermieri di famiglia visitano i pazienti, accertati o sospetti, con sintomatologia lieve.
La gestione dei casi da parte delle cure primarie si basa sulla sinergia tra medici di famiglia e medici di salute pubblica, quest’ultimi responsabili per il contact tracing e per la sorveglianza attiva dei casi entrati in esposizione con casi positivi. Anche nei momenti di stress questa gestione sul territorio permette agli ospedali di lavorare con relativa tranquillità, come dimostrano i dati dell’analisi realizzata dalla Società Portoghese di Medicina Interna: il tasso di occupazione dei posti letto per COVID19 è sempre rimasto sotto il 50%, e poco sopra il 30% per quanto riguarda i posti in terapia intensiva: (https://www.saluteinternazionale.info/2020/07/covid-19-in-portogallo/)

A marzo 2020 in Effimera hai parlato di “ Rendere politica la rabbia”, altri in questi mesi, di cercare di ripoliticizzare la scienza medica. Cosa vuol dire? Come possiamo costruire una salute pubblica e ripensare un sapere collettivo al di là degli interessi particolari della case farmaceutiche e del bombardamento mediatico di tv, giornali e social?

Parlo di rabbia perché da decenni siamo in mano a classi dirigenti che hanno portato il paese allo sfascio, tagliando sanità e scuola. Non si può quindi far altro che partire da questi sentimenti e tensioni che ci attraversano perché se li reprimiamo il rischio è la depressione o l’ansia. Io penso che la rabbia, intesa come sentimento legato al senso di ingiustizia, possa essere un motore politico, intendendo per politica quell’insieme di pratiche legate al partire da sé e a ciò che si sente come vero e giusto, perché sono convinta che solo seguendo quella che si sente come una lettura vera del mondo qualcosa di buono possa accadere e il mondo orientarsi di conseguenza. ‘Rendere politica la rabbia’ significa capire come trovare la mediazione giusta perché il senso di ingiustizia non si disperda, non diventi violenza, populismo, ribellismo sterile. Parlare di rabbia quindi è importante per non cadere in posture depressive. Mi riferisco ad una  politica lontana da ideologie, schieramenti e interessi di partito.
Ci tengo a parlare di politica, intesa come amore per il mondo (non intesa in senso partitico), sapendo che la scienza non è staccata dalla società, gli scienziati non possono pensare di muoversi senza che questo abbia delle ripercussioni sulla cittadinanza. La scienza deve muoversi con indipendenza simbolica ma con il Covid-19 è emerso ancora più chiaramente come sia strettamente legata alla politica. Come epidemiologa che studia i fattori di rischio delle malattie e i trend delle malattie nei vari paesi per me  sono ancora più evidenti le ripercussioni dei risultati della scienza sulla società. Questo implica avere una visione ampia che tenga conto della complessità delle tante poste in gioco (le altre malattie, il lavoro e la povertà diffusa, l’aumento dell’ansia sociale e individuale…)
Per ragionare con il necessario senso critico e non cedere alle varie pressioni psicologiche, ideologiche, e ricatti affettivi che sono scattati durante il Lockdown ci vuole indipendenza simbolica e una comunità di riferimento, quindi radicarci fortemente nella nostra verità soggettiva per capire cosa ha davvero valore nelle nostre vite, fuori dalle ideologie.
La comunità scientifica, come comunità, con i suoi lunghi processi e linguaggi complessi, aveva armi spuntate e infatti sono stati pubblicati anche parecchi articoli scientifici senza basi solide. La comunità scientifica funziona quando ha il tempo per potersi confrontare, discutere, tenendo la complessità delle varie patologie e i limiti metodologici degli studi. È un po’ quello che cerchiamo di fare con Pillole di Ottimismo, uno spazio virtuale che è nato su iniziativa spontanea di Guido Silvestri, un virologo di fama mondiale che lavora alla Emory University e che ha catalizzato attorno a sé una serie di persone dalle competenze più diverse che hanno messo a disposizione il proprio lavoro, le proprie competenze, le proprie passioni, senza interessi personali, senza agende di partito da seguire o strumentalizzazioni ideologiche. Indipendenza simbolica, onestà intellettuale, condivisione generosa sono un po’ le cifre di questo progetto in cui sono coinvolti sia scienziati che giuristi, economisti, giornalisti… e lo scambio non è sempre facile, anche perché tutto avviene online. L’ambizione è quella di una costruzione collettiva del sapere che permette di recuperare la fiducia e l’autorità nella scienza. Ciò che ci guida è l’esigenza di tenere in considerazione i rischi del virus e quelli sociali, psicologici, economici legati al Lockdown, alle misure di contenimento del virus: usiamo la metafora della nave che naviga tra i due scogli e puntiamo sull’ottimismo che viene dalla conoscenza.

Il 10 ottobre 2020, durante il seminario organizzato da Effimera sul valore dei corpi perduti e dei corpi ritrovati, hai accennato di un bisogno di una nuova postura umana, non basata sulla paura, ma sulla relazione, sull’amore e sulla politica.
C’è ancora tempo davvero e come possiamo prepararla in maniera collettiva e con un insieme sociale, culturale e digitale che oggi sembra parlare un’altra lingua?

Quello che si è visto all’opera è la politica della paura versus la politica della responsabilità e con De Luca abbiamo visto che la prima piglia più voti. Incide prima nei confronti dei giovani per definizione incoscienti, poi nei confronti degli insegnanti egoisti, in generale verso i cittadini, per definizione analfabeti funzionali, a cui è necessario imporre misure estreme dall’alto, perché non sarebbero in grado di agire con buon senso… Eppure i cittadini, inclusi i giovani, hanno accettato di buon grado un lockdown molto severo (che dovrebbe essere una estrema misura, da attuarsi se tutto il resto ha fallito). Persino l’OMS ha ringraziato l’Italia perché i cittadini italiani hanno dimostrato in maniera esemplare di stare anche alle peggiori restrizioni.
Io ho sentito fin dall’inizio il desiderio di mettere in discussione il modo in cui è stata impostata la gestione della pandemia perché quello che ho visto in gioco è proprio una modalità autoritaria, paternalista, se non proprio patriarcale e antidemocratica.
Non si è puntato sul senso di responsabilità, sulla fiducia nei cittadini e sul loro rapporto con le istituzioni, sulla politica, intesa proprio come legame tra cittadini e istituzioni, ma nemmeno sulla presa in carico personale e collettiva della crisi, non si è puntato sulla comunicazione responsabile e seria… L’opposto di quello che è successo in Svezia, ma anche in Germania. Si è seguita una visione misera, secondo la quale non ci si può fidare dei cittadini perché incapaci, incoscienti, ignoranti, indisciplinati, quando in realtà la responsabilità della crisi che stiamo vivendo è tutta a carico di chi ci ha governato finora.
Fin dall’inizio la mia preoccupazione era lavorare per togliere paura, perché il terrore arrivava quotidianamente dai media e la paura è uno straordinario strumento di repressione dell’intelligenza collettiva. E poi sentivo la necessità di allargare il quadro: il problema è il virus o la società in cui viviamo? Perché la pandemia è un problema essenzialmente politico e strutturale, lo è stato fin dall’inizio. Ma per poterci porre quelle domande radicali che possono portare ad un reale cambiamento ci vuole indipendenza economica e indipendenza simbolica, non esser ricattabili a livello professionale e non dover difendere posizioni ideologiche come le posizioni del governo.
Io sono stata criticata perché ho rimesso al centro del discorso anche l’economia, non cedendo al ricatto “o il lavoro o la vita”. Penso infatti che non si possa banalizzare il discorso sull’economia, come se si trattasse solo degli interessi del capitalismo e di Confindustria, perché sappiamo bene che il capitalismo farà di questa tragedia l’ennesima occasione di sviluppo. Naomi Klein lo insegna bene con il suo discorso sul ‘screen new deal’ in cui spiega che la pandemia è una fantastica occasione per i giganti della tecnologia che approfitteranno della situazione con politiche aziendale che minacciano di distruggere il sistema educativo come la scuola virtuale e la didattica digitale. Come se le tecnologie fossero la chiave per proteggere la vita. È emblematico che la pubblicità delle auto che si parcheggiano da sole al tempo del virus usi questa retorica: «C’è stato un notevole progresso verso una tecnologia senza umani e senza contatto» «Gli esseri umani sono biologicamente pericolosi, le macchine no». Per il capitalismo sarà solo l’ennesima occasione per fare profitto e chi pagherà le conseguenze della crisi economica a cui andiamo incontro sono i precari, coloro che non hanno uno stipendio su cui contare, le classi sociali più povere chi vivono nelle periferie, i giovani a cui stiamo consegnando una società distrutta, senza speranze.
La retorica che sta passando è quella del sacrificio per qualche mese, fino all’arrivo del vaccino, fino alla fine del virus…Ma se l’emergenza diventasse la nuova normalità? Se la didattica a distanza, il lavoro da casa senza orari, la mancanza di insegnanti, la sfiducia nei cittadini, la necessità della distanza sociale, la paura dell’incontro con l’altro da sé, la necessità di non fare assembramenti diventasse normale? Se “la cura”, il lockdown, rischiasse di essere peggio del male che si vuole curare? Se vaccini e trattamenti avranno bisogno di diversi mesi per essere efficaci? Se la prossima pandemia non fosse così distante?
Sono convinta che sia fondamentale ragionare facendoci domande radicali partendo dalle strategie di convivenza che non impediscano le relazioni in presenza, perché da lì passa l’Eros, una energia di cui non possiamo fare a meno. Una energia che riguarda l’amore nelle relazioni e per il mondo, e che ha a che fare con la politica che ho imparato nel femminismo.
In un articolo del 2015 pubblicato sul sito della libreria delle donne di Milano (Ripartire dall’essenziale) ricordavo Aleksandra Kollontaj, rivoluzionaria russa e prima donna nella storia che abbia avuto l’incarico di ministra e di ambasciatrice. Agli inizi degli anni ’20 ha intitolato una delle lettere alla gioventù Largo all’Eros alato. Le sue parole sono: «L’amore non è affatto un fenomeno “privato”, una semplice storia tra due “cuori” che si amano, ma racchiude in sé un “principio di coesione” prezioso per la collettività, infatti l’umanità, in tutte le tappe del suo sviluppo storico, ha dettato delle norme per determinare “come” e “quando” l’amore doveva considerarsi “legittimo” e quando invece doveva considerarsi “colpevole” (cioè in conflitto con gli obiettivi posti dalla società)» Kollontaj rispondeva a chi criticava i giovani lavoratori perché erano «più occupati dall’amore che dai grandi compiti con i quali la repubblica dei lavoratori doveva misurarsi». In un contesto in cui i suoi compagni marxisti erano interessati prevalentemente all’ideologia, Kollontaj spiega come l’amore entri a ordinare la società, il lavoro, l’arte, relegando nel privato le relazioni e la soggettività. Questa presa di posizione suscitò polemiche e dissensi ufficiali, al punto che queste lettere non furono mai più ripubblicate e restarono praticamente sconosciute fino a pochi anni fa.
E voglio ricordare anche Chiara Zamboni che nel suo libro “Pensare in presenza” parla della politica delle donne e di quanto sia importante la presenza sulle pratiche politiche. “Le donne desiderano partecipare ad un percorso politico dove il contagio, il contatto, la compresenza e le narrazioni di contesti vissuti sono essenziali. Si tratta di un godimento d’essere che crea effetti a catena nelle pratiche politiche inventate dalle donne, che alcuni uomini hanno cominciato a comprendere, ad apprezzare.” “Il bisogno di scambiare con altri sentimenti, racconti, sogni, guadagni di verità” lei dice “si ricrea sempre di nuovo, quando nasce il desiderio di sottrarsi al simbolico dominante e di orientarsi nel pensiero e nell’azione politica. Così è stato per ogni vera rivoluzione, in particolare per la rivoluzione femminista, per la quale la parola viva scambiata tra donne è stata formativa di un modo di vivere, di pensare e di fare politica”.
Il femminismo ha insegnato come la politica, che è arte della mediazione, non in senso di compromesso ma come capacità di fare spazio per la verità dell’altro, gode della presenza dei corpi che accompagna un’apertura involontaria agli altri.

 

Sara Gandini è epidemiologa e biostatistica. Laureata in Statistica economica, ha conseguito il master in Biometria presso l’università di Reading (UK) e il dottorato in Ricerca epidemiologica presso l’università di Birmingham (Publich Health).