Visioni

Broken Rage – la doppia anima di Takeshi Kitano, detto anche “Beat”

Broken Rage – Recensione di Falco Ranuli 

Prima di fare alcune osservazioni sull’ultimo breve, ma denso film di Takeshi “Beat” Kitano, bisogna partire da due questioni preliminari fondamentali: la prima è che il recensore stesso, come molti altri fan del grande regista giapponese,  non riesce a capacitarsi che uno dei massimi geni del cinema mondiale degli ultimi decenni non venga distribuito in sala in Italia dai tempi di Zaitoichi (2003), che quindi bisogna tutto sommato dichiararsi contenti di vedere da noi un suo film distribuito e doppiato, seppure solo su di una piattaforma come Amazon Prime Video, visto che dal 2003 il Maestro ha girato qualcosa come otto film, almeno la meta dei quali sono capolavori.

La seconda osservazione riguarda invece la poliedrica attività del nostro amatissimo, che è regista, montatore, attore, conduttore televisivo, scrittore, poeta e persino per hobby pittore, come dimostrano i bellissimi disegni da lui realizzati durante la convalescenza per l’incidente di motocicletta, che gli ha provocato una paresi (apparsi in quell’immenso capolavoro che è Hana Bi).

Detto questo, collegandosi all’ultima soprascritta affermazione, così come ci si ricorda che Kitano sia eclettico come artista, un personaggio quasi rinascimentale, del grande “Beat” bisogna anche ricordarsi che la commistione dei generi è proprio una delle caratteristiche più tipiche del suo cinema:  basti pensare come diversi suoi film prendono in ostaggio le regole di generi diversi, come lo Yakuza Movie (che sarebbe l’equivalente del nostro poliziottesco anni ‘70), ma anche quelle del cinema d’autore, del melò, le regole e i tempi della comicità manzai da cui Takeshi viene fuori, per mischiarle insieme e stravolgerle sempre in maniera geniale, a volte anche in modo poco comprensibile per noi poveri osservatori occidentali.

Ecco perché si può apprezzare – dopo queste riflessioni – ancora meglio l’operazione che sottosta a questo breve film (dura un’oretta), uscito adesso in streaming in Italia dopo la presentazione all’ultimo festival di Venezia, Broken Rage. La storia è semplicissima, Takeshi interpreta un Killer della Yakuza, che va a prendere i suoi ordini in un caffè, poi esce e va a compiere il suo incarico,  fino a che la polizia non lo becca e lo convince a infiltrarsi in un cartello Yakuza della droga, se non vuole finire in galera:  fin qui tutto bene, un plot da yakuzamovie alla Kitano, girato e montato con il suo stile, ben illuminato dal maestro Takeshi Hamada, popolato da una serie di facce perfette di ottimi attori, come Beat sempre sa scegliere. Solo che questa storia non si chiude con questa narrazione seria,  insomma da classico film di azione alla Takeshi – in cui lui fa o il poliziotto o lo yakuza – ma la storia ricomincia da capo, perché adesso lo spietato Killer interpretato da Takeshi diventa un perfetto babbeo che incespica letteralmente nei propri piedi e che colleziona una figura da cretino dopo l’altro, circondato comunque da un circo di personaggi simili, seguendo lo stesso plot della prima parte del film, ma in maniera parodica. Ora questa sarebbe veramente un’operazione incomprensibile, se non si conoscesse a fondo la filmografia di Takeshi dove ci sono opere, seppure non così estreme, che però assomigliano a questa,  mi viene in mente il fantastico Takeshi’s, dove lui mette in azione un suo sosia biondo sfigato, approfittandone per rivisitare tutta una serie di stereotipi del cinema giapponese, compreso il suo:  è questo il film che dà l’inizio alla cosiddetta “Trilogia del suicidio artistico” (che titolo fantastico!), ovvero dei film dedicati a una profonda riflessione sul ruolo della creazione artistica e del creatore, che solo un genio pazzo come Takeshi poteva combinare.

In questa trilogia troviamo anche un altro delirio creativo come Glory to the Filmaker (Kantoku Banzai), opera in cui Kitano, fingendosi privo di ispirazione, gioca con i generi un’altra volta, parodiando diversi tipi “classici” del cinema giapponese, compreso il suo, fino a mettere in scena il suo personale suicidio artistico, una rivisitazione originale di 8 ½ dell’amatissimo Fellini.

Ma è fondamentale, secondo me, per capire questa sua ennesima chicca, anche un folle e straordinario delirio come Getting Any!, film dalla trama completamente assurda, che inizia in un modo folle e finisce in una maniera totalmente delirante, sembrando nell’epilogo la parodia ghignante di uno di quei film di mostri giapponesi che tanto piacevano a noi ragazzetti degli anni 70, non dico Godzilla, ma le sue imitazioni brutte. Insomma per comprendere questa ennesima follia del nostro amatissimo Beat – è proprio il caso di chiamarlo così, con quel nome che usa anche quando fa il comico manzai sin dai tempi del duo Two Beats, è parte di lui  come ha sottolineato tante volte – bisogna mettere in campo tutte le anime di questo poliedrico personaggio, anche quella più distante dalla nostra concezione della comicità, dal nostro sguardo di bianchi occidentali, che devono fare uno sforzo per capire l’estrema provocazione lanciata da questo geniaccio del cinema, che non ha paura né di presentarci questa storia a specchio, né di giocare con lo slapstick, utilizzando a tale scopo la sua straordinaria maschera attoriale, per passare in pochi minuti dal ghigno del sadico Killer all’espressione beota dell’incapace da “Oggi le comiche”.

Concluderei volentieri la recensione sperando che qualcuno della distribuzione cialtrona italiana si metta FINALMENTE una mano sul cuore e porti in sala Kubi, il suo film del 2023 che non è possibile vedere in nessun modo nel nostro povero paese.

Falco Ranuli