Editoriali

Covid19: “Fase 2” inevitabile ma con molti interrogativi

di Ciro Bilardi

Il 10 di marzo, quando fu deciso il cosiddetto “lockdown”, la situazione sembrava veramente fuori controllo. La priorità era quella di evitare il collasso del sistema sanitario, cioè il totale esaurimento dei posti letto in terapia intensiva, con il risultato di non poter ricoverare non solo tutti i pazienti covid ma anche coloro che ne avessero avuto bisogno per altri motivi. C’era il timore di dover arrivare a scelte terribili quali quelle di non assistere i pazienti più anziani privilegiando coloro per i quali si poteva prevedere una maggiore aspettativa di vita. Si trattava anche di prendere un po’ di tempo per capire meglio le caratteristiche del virus e magari trovare farmaci che risultassero almeno parzialmente efficaci.

Anche se in altri Paesi sono state fatte scelte diverse, sono state queste considerazioni a far accettare a tutti noi una sospensione dei diritti individuali e collettivi senza precedenti che però poteva durare soltanto per un periodo di tempo molto limitato.

Le previsioni erano quelle di una rapida ascesa dell’epidemia, che bisognava ad ogni costo rallentare, attendere che dopo il famoso “picco” la curva calasse e poi riaprire. La speranza di tutti era che le misure di isolamento e chiusura avrebbero portato a zero il numero dei contagi in tempi abbastanza ristretti.

Dopo un mese e mezzo i ricoverati in terapia intensiva sono calati sensibilmente, ma il numero di morti è ancora molto elevato e anche i cosiddetti “nuovi contagi” rimangono piuttosto alti.

Le misure adottate dunque sembrano aver raggiunto alcuni risultati ma non tutti quelli che ci si aspettava. Il calo dei ricoveri in terapia intensiva può dipendere da una minore aggressività del virus, da una diagnosi più tempestiva o dall’utilizzo di farmaci più efficaci, ma non dall’isolamento a cui la popolazione si è sottoposta.

Però è evidente a tutti che la quarantena non poteva durare all’infinito; la situazione economica è arrivata a un punto di tale gravità e il peso psicologico è diventato così insostenibile che la riapertura era inevitabile.

A determinarla non sono state le preoccupazioni per il rispetto dei diritti delle persone, quanto la fortissima pressione del potere economico. I media a un certo punto hanno cambiato atteggiamento e sono passati dal tono quasi terroristico di inizio epidemia a un tono molto più rassicurante, esaltando il numero dei guariti ed evidenziando, anziché il numero dei contagi totali, quello degli “attualmente positivi”, che tende a calare non solo per i guariti ma anche (purtroppo) per i morti.

Al contempo si sta dando ad intendere che il rallentamento dell’epidemia dipende in massima parte dai comportamenti individuali, additando come capro espiatorio chi va a correre in un bosco deserto o chi si dimentica la mascherina. La retorica del “furbetto”, dell’italiano indisciplinato è stata sparsa a piene mani e i media hanno cercato di trasformare ognuno di noi in un delatore, quando invece durante la quarantena si sono viste forme di solidarietà collettiva che nella nostra società atomizzata sembravano ormai un ricordo del passato.

Questo vortice di informazioni strumentali, spesso contrastanti, prima ha creato il panico e poi una percezione di superamento dell’emergenza che è del tutto ingiustificata e che rischia di provocare un altro disastro.

A questa schizofrenia comunicativa non ha certo giovato il presenzialismo di presunti esperti che anziché migliorare il livello del dibattito e portare informazioni utili si sono gettati anche loro a capofitto nelle polemiche da pollaio tipiche dei social network, si sono contraddetti da un giorno all’altro e hanno pontificato su tutto, dal campionato di calcio alla metafisica, forse in cerca di riscatto dopo anni di assoluta indifferenza dell’opinione pubblica al loro pensiero.

Ma il problema di fondo è che i dati a disposizione sono insufficienti per capire qual è esattamente la situazione e quali strategie siano più appropriate. In primo luogo: quant’è la prevalenza del virus nella popolazione generale? E sulla base di questa, quant’è il tasso di mortalità del covid? Nonostante le dichiarazioni di qualche politico o dirigente non sono stati fatti né esami “a tappeto” né studi su campioni rappresentativi. Ad oggi in Toscana per esempio, a fronte di 3.730.000 abitanti, sono stati effettuati 161.553 tamponi che corrispondono a 120.000 persone, cioè circa il 3% della popolazione. Di questi esami, 9.657 sono risultati positivi, quindi circa l’8%.

Se il campione dei “tamponati” fosse rappresentativo, si potrebbe stimare un numero di positivi nella regione pari a circa 300.000 persone. Ma siccome rappresentativo non è, questo calcolo è del tutto privo di senso. È probabile che si siano sottoposti al test soprattutto persone con sintomi o a rischio (es. operatori sanitari o familiari di positivi), e che quindi la prevalenza nella popolazione generale sia molto più bassa dell’8%. Peraltro questa percentuale sarebbe analoga a quella delle epidemie influenzali, che riescono a contagiare 6-8 milioni di persone a livello nazionale. Ma per dare un’idea della confusione proprio ieri un noto virologo televisivo ipotizzava che il 20-30% della  popolazione nazionale potesse essere già positivo. Questo naturalmente vorrebbe dire che il tasso di letalità del covid sarebbe più basso di quello dell’influenza. Ora è palese che le misure di contrasto cambiano radicalmente se si tratta di un virus ad alta contagiosità e bassa mortalità o viceversa, per cui non si tratta di una discussione accademica ma di un punto assolutamente centrale.

Il dato dei tamponi è viziato anche dal fatto che le persone risultate positive fanno diversi controlli e ad ogni controllo ancora positivo viene contato un paziente in più. Quindi è veramente impossibile stimare la prevalenza partendo dal dato dei tamponi. Inoltre il numero dei tamponi non è lo stesso tutti i giorni, quindi non si capisce neanche se il numero dei nuovi contagi aumenta o diminuisce.

Inoltre per capire l’andamento dell’epidemia bisognerebbe sapere quando si sono contagiate le persone che risultano positive, perché se il virus lo avessero preso -tanto per dire- tre mesi fa non si potrebbero certo considerare tra i “nuovi contagi”. Molti familiari di persone positive hanno lamentato che i risultati dei loro test di controllo sono arrivati dopo diverse settimane. Per questo tra i nuovi positivi sarebbe utile fare una distinzione tra gli asintomatici che probabilmente si erano contagiati mesi fa, chi ha avuto dei sintomi nei giorni immediatamente precedenti, chi ha avuto il risultato ora ma aveva fatto il test tre settimane fa ecc. Ma se è vero, come si legge, che la durata media dell’infezione è di 28 giorni, buona parte di coloro che risultano positivi oggi è stata  contagiata durante la quarantena. E allora quali sono stati i fattori di rischio ai quali sono stati esposti? Si tratta di operatori sanitari, commessi di supermercati, familiari di positivi o cos’altro? E se la gente si è contagiata perfino durante la quarantena, quali possono essere le conseguenze della “fase 2”?

Si capisce facilmente che per prendere decisioni sensate in merito alla riapertura delle attività pubbliche non si può non sapere quante persone sono positive in un determinato territorio e quali sono i meccanismi che continuano a provocare il contagio.

Fare milioni di tamponi sarà stato anche costoso e complicato, ma doveva essere l’obiettivo numero 1. Se era impossibile, si potevano fare dei piccoli screening su campioni di poche migliaia di persone che avrebbero fornito dati estremamente affidabili.

Dunque il problema più grave al momento della riapertura è che questi due mesi non sono stati utilizzati come si poteva e si doveva, cercando di mappare il territorio e di mettersi in condizione di tracciare tutti i casi positivi come hanno fatto in altri paesi dove le conseguenze dell’epidemia sono state ridotte di parecchio.

In una interessante intervista (https://www.tpi.it/cronaca/vespignani-coronavirus-intervista-virologi-italiani-e-3t-20200503595940/) l’epidemiologo Alessandro Vespignani ha chiarito molto bene tutti questi aspetti: per fermare l’epidemia -sostiene- sono necessarie le cosiddette 3 T: testare, tracciare e trattare.

“Hai l’ospedale Covid e l’albergo dedicato? Hai già l’esercito dei tracciatori? Hai test e tamponi? Hai regole chiare e intelligibili per chi torna al lavoro? Hai terapie intensive pronte? Hai modo di avere dati costantemente aggiornati su casi e decessi? Se non sei preparato devi sapere che stai correndo un rischio grave”.

Sono stati sviluppati modelli in cui in assenza di questa metodologia di prevenzione e assistenza si prevedono perfino 150mila nuovi decessi.

Invece si sta perdendo altro tempo con la polemica sulla app “Immuni” che al di là degli aspetti pur importanti relativi alla privacy non ha la minima possibilità tecnica di rappresentare un sistema efficace di tracciamento. “Serve un servizio umano” continua Vespignani “una tutela a distanza che non si può realizzare solo con un algoritmo o con le faccine sul telefonino”.

Tra l’altro dotarsi di una rete di promotori sanitari di comunità in questo momento sarebbe una bella soluzione occupazionale per centinaia di migliaia di giovani che hanno visto le loro prospettive, già difficili, azzerarsi di colpo a causa dell’epidemia.

E perché non riaprire strutture territoriali che la furia aziendalista dei vertici sanitari ha condannato al degrado e all’abbandono, come da noi la villa Rodocanacchi, ex sede dell’ASL di Livorno?

Probabilmente il modello proposto da Vespignani non verrà attuato, perché ci vorrebbe un cambio radicale di mentalità in tempio strettissimi da parte di chi ha in mano le sorti del sistema sanitario, cioè gli stessi che in tutti questi anni hanno smantellato gran parte di quanto era stato previsto dalla riforma sanitaria del 1978, distruggendo i servizi territoriali e riducendo al contempo i posti letto ospedalieri a livelli da sottosviluppo.

Qui però sono i cittadini che devono farsi sentire, e forse se un effetto positivo questa tragica situazione l’ha avuto è stato il generale ripensamento su quanto negli ultimi decenni si è detto sui sistemi sanitari pubblici, sulla loro presunta inefficienza e su quanto sono belli i privati e le polizze assicurative.

In assenza di questo cambio di prospettiva non ci resta che sperare negli effetti “antivirali” della bella stagione o nella famigerata “immunità di gregge”.