Far West Islanda
Nell’immaginario collettivo solitamente l’Islanda viene associata ai paesi scandinavi: paesi fatti di ordine, puntualità, pulizia, laboriosità, efficienza e una forte presenza di servizi dello Stato. Forse ciò potrà valere per la pulizia, l’ordine e la presenza dei servizi dello Stato ma non per l’efficienza e la laboriosità. Se andate in un bar o in un ristorante potete perdere tantissimo tempo semplicemente perché il cameriere ha dimenticato o sbagliato il vostro ordine. Fortunatamente non esiste lo stress da cliente “soddisfatto”. E non si tratta solo degli islandesi, ma anche, e soprattutto, dei numerosi stranieri che si sono stabiliti in questo paese praticando mestieri di manovalanza. Questo ci sembra un elemento positivo perché non esiste lo sfruttamento all’osso dei lavoratori manuali che esiste in Italia e in molti stati degli Usa. Il capitalismo non ha il suo volto feroce da bestia folle come da noi. Industrie ce ne sono poche, produrre in Islanda come a Taiwan non conviene. Nel corso di questo articolo speriamo che ne capirete il perché.
Passata di mano tra danesi e norvegesi, l’Islanda è diventata un paese della Nato che vive in Europa ma in sordina, come nei secoli passati. Era un paese di contadini asserviti a paesi europei, ora è diventata indipendente e membro Nato, ma gode di una libertà vigilata, di una libertà nata anche dalla perdita della memoria storica e delle tradizioni del paese iniziata con l’invasione americana del 1942.
Per quanto riguarda l’economia del paese, dobbiamo partire dalla considerazione del numero di abitanti, davvero esiguo, e dalla constatazione che si tratta di un paese energeticamente indipendente. L’energia è ricavata dall’abbondanza di acqua e avanza addirittura del 30 %. Il freddo e la lunga stagione invernale fanno sì che gli islandesi siano abituati a vivere in un guscio di poche relazioni sociali e vadano sotto stress se trapiantati nelle grandi metropoli. Dato che le coltivazioni non sono numerose, anche in primavera ed estate non vi è molto da fare e così la vita e i ritmi di lavoro sono scanditi da calma, tranquillità, lentezza. È encomiabile che non vi siano allevamenti intensivi di animali, ma del resto poi importano la carne come quasi tutti gli alimenti.
La cultura americana influenza in modo significativo quella islandese, come abbiamo potuto anche apprendere da alcuni italiani che vivono in Islanda da diversi anni. Dagli americani gli islandesi hanno recepito soprattutto la tendenza a seguire le mode, il cosiddetto “trend”: se c’è qualcosa di moda, va di moda in tutto il paese. Le mode sono dettate soprattutto dal divismo americano e se ascoltiamo alla radio un gruppo musicale islandese il cantante sembra un qualsiasi countryman americano. Di ascendenza a stelle e strisce appare anche la sfrenata passione per l’annuale manifestazione canora dell’Eurovision: anche se, come dice la parola stessa, si tratta di un evento che ogni anno vede in gara i cantanti delle nazioni europee, esso appartiene comunque ad una cultura di massa globalizzata e dominata dallo spettacolo, come molte manifestazioni americane. Quando ci è stato detto che la vita degli Islandesi era connotata soprattutto da tre eventi, l’arrivo dell’estate, il Natale e l’Eurovision, francamente, confessando la nostra ignoranza, ci siamo chiesti cosa mai fosse quest’ultimo. Si tratta in sostanza di una manifestazione ‘ufficiale’, figlia della società dello spettacolo e della ripresa postbellica dell’Europa (non a caso la prima edizione si svolse nel 1956 nella ricca e neutrale Svizzera), ripresa per la quale gli USA hanno giocato non certo un ruolo secondario. Il denaro corre veloce in mutui e prestiti prelevati dallo stipendio, come per gran parte degli americani.
Perché, possiamo chiederci, la cultura americana influenza in modo significativo quella islandese? Tutto nasce dalla seconda guerra mondiale, per la precisione dal 1941, quando gli inglesi – che occupavano l’isola – decisero di lasciare agli americani il controllo del territorio. Nel 1942, poi, a detta di wikipedia, cinquantamila soldati si stabilirono in Islanda fino al 1945. La presenza americana (i soldati erano in numero maggiore rispetto ai maschi autoctoni) fece nascere numerose relazioni fra americani e ragazze islandesi dalle quali nacquero dei figli che, in seguito, fraternizzarono con coloro che, nell’ottica dei vecchi islandesi, erano gli “invasori” (si rimanda ancora a questo link nella sezione “L’occupazione statunitense”). A questo proposito vi consigliamo di leggere La base atomica di H. Laxness, Nobel per la letteratura 1955. Quali americani hanno occupato l’Islanda? I militari, non dei lavoratori o degli studiosi. E la cultura yankee è maggiormente diffusa tra i militari. Gli americani non se sono certo andati dall’Islanda dopo la guerra (come anche, in maniera più pervasiva, in Italia) ma hanno lasciato un presidio fino al 2006. L’attuale cultura filo-americana probabilmente è stata radicata nel paese da quei ‘figli di americani’ che hanno avuto figli a loro volta. Gli attuali islandesi non ricordano più nessuna saga antica del loro paese. Sanno fare le cose lentamente come chi ha tempo perché comanda.
Passiamo al “DNA islandese”, che in parte esiste ancora. Una realtà considerata sacra, diffusa abbondantemente su tutto il territorio islandese, è materiale: è la lava, e di questa non prelevano assolutamente niente per le costruzioni. È addirittura vietato raccogliere le pietre laviche. Lasciano il paesaggio intatto. Solo piccole palline di lava sono vendute a caro prezzo come ciondoli, come pietre semipreziose. Nello scontro tra cultura americana e cultura islandese il paesaggio lavico è probabilmente una delle caratteristiche ‘tradizionali’ che è stata salvata. Non siamo d’accordo quando dicono che gli islandesi sono contadini arricchiti. La lavorazione della lana è un artigianato prezioso, e gli islandesi non sfruttano, come farebbe un capitalismo avanzato, le pecore, che sono libere di pascolare in primavera e in estate, e che in autunno vengono raccolte per proteggerle dal freddo. Un enigma percorre l’economia di pesca: vietata la caccia alle balene tranne che (e perché? Hanno anche loro il loro Berlusconi?) per un miliardario che fornisce chissà quali mercati; e i salmoni pregiati venduti al Giappone e a chi paga di più.
Anche da un punto di vista geografico e territoriale si possono notare delle somiglianze con gli Stati Uniti. Abbiamo percorso l’Islanda in lungo e in largo e siamo arrivati in un paesino sperduto nel nulla, quasi una terra di frontiera, per fare la spesa; ci è sembrato, senza mezzi termini, di arrivare in un villaggio del Far West: al centro della piazza principale c’era un locale che sembrava un saloon e, proprio vicino al supermercato, era parcheggiata in bella mostra un’enorme automobile americana. D’altra parte, la diffusione dei centri abitati appare molto simile a quella degli USA: piccoli paesi sparsi in grandi distanze come in Texas o nell’Idaho. Reykjavik, la capitale, è un po’ come una Dallas in mezzo al deserto: intorno c’è il nulla, solo spazi scarsamente antropizzati. E comunque, basta guardare una qualsiasi serie TV poliziesca islandese, come Trapped o I delitti di Walalla, per rendersi conto di come la stazione di polizia dei piccoli centri assomigli ad un avamposto isolato comandato da qualche sceriffo del Texas.
Nel nostro giro del paese abbiamo incontrato spesso un personaggio che potrebbe essere emblematico dell’aspirazione islandese ad essere ‘americana’: un turista statunitense che girava agghindato come un cowboy solitario, con tanto di stivali e cappellone. Un contemporaneo, malinconico Johnny Guitar o, se preferite, un Trinità stanco e ozioso che si trascinava attraverso i meravigliosi scorci naturalistici e paesaggistici islandesi. E alla fine del nostro tour, puntualmente, lo abbiamo ritrovato a Reykjavik, a percorrere le vie del centro con il suo stile on the road, come un Mr. Crocodile Dundee a New York.
Francesca Fiorentin e Guy van Stratten
(questi sono appunti scaturiti da un viaggio degli autori in Islanda dello scorso agosto)