Memorie

Il Cile e la memoria -Nel 50° anniversario dell’inizio del crimine

CILE LA MEMORIA I
3 settembre 2023 Nel 50° anniversario dell’inizio del crimine
Cavalcando ricordi sparsi sulle note degli Inti Illimani Parte prima

Questo testo è la Postfazione del libro scritto dagli amici e compagni Eduardo Mono Carrasco e Francesco Comina, “Inti-Illimani Storia e mito, Ricordi di un muralista cileno” (Il Margine, Trento 2010).
Racconto il percorso di costruzione della mia memoria e di quanto hanno contato in questo percorso gli Inti, e cioè la musica e la poesia.
Per non annoiarvi troppo, l’ho diviso in 5 parti.

1) Parafrasando Guccini, posso dire che ricordo bene qual era l’epoca dei fatti e qual era il loro mestiere: Roma, fine febbraio 1974, artisti.
Ero appena arrivato a Roma, senza pagare il biglietto, da pacco postale con le stigmate del sopravvissuto. Non sapevo bene ancora a cosa e a chi dovesse la mia sopravvivenza. Continuo a non saperlo, ma ho smesso di domandarmelo da parecchio tempo.

2) Ognuno di noi ha tre tipi di memoria.
La prima è documentale, puramente cronologica. Ci permette di ricordare la data delle guerre, delle rivoluzioni e degli onomastici delle persone care. E’ importante per orientarsi nel tempo, ad esempio per ricordare quanto siano vecchi i neonati e quanto siamo ancora giovani i vecchi.
La seconda è collettiva e si collega alle risposte sociali radicate nel corpo e nel discorso, ossia agli imbrogli della vita in comune: come comportarsi in una chiesa, come trattare un anziano, come seppellire i morti … La chiamiamo senso comune e si materializza in atteggiamenti, riti, cerimonie e istituzioni, permettendoci di agire adeguatamente senza bisogno di pensare.
Tuttavia, se non pensare è indispensabile per prendere misure già codificate per affrontare una situazione di emergenza – una tormenta o un terremoto – è pericoloso se ci troviamo davanti a tradizioni insensate, come l’ablazione del clitoride o l’esportazione della democrazia. Perciò, la memoria collettiva, il senso comune, va costantemente rivista e razionalizzata.
Infine, c’è la memoria individuale sedimentata attorno a costumi e oggetti. A me pare che ciò che segna veramente il nostro carattere è sommerso nel nostro corpo come un flusso di ripetizioni e cicatrici, di gesti rinnovati a fatica, di lunghe abitudini e angusti frammenti. Come la strada della scuola, la pioggia inclemente che ha accompagnato la mia fanciullezza patagonica, l’odore iodato dell’oceano, il richiamo del gelataio ambulante, il fruscio dei primi calzoni lunghi, la luce invernale proiettata sul mobiletto ereditato dal nonno, l’odore della naftalina, le porcellane sopravvissute ad ogni trasloco, il rosso della rosa che ci attirava a una strada appartenente alla “monnezza” e ai fumatori …
Questa terza memoria – che possiamo definire idiosincrasica e metereologica, è composta da creazioni linguistiche erette senza considerare le norme valide per gli ambiti più ampi quali invenzioni dei singoli parlanti che formano parole e strutture sintattiche in base alla propria fantasia, alla loro struttura cognitiva e ai loro umori – può tradursi facilmente persino in cinese, perché si lega ai sensi, perché è patrimonio condiviso e perché, aggiungendone i quattro elementi della natura – fuoco, aria, acqua e terra – è terreno collettivo e universale. Ma, proprio per le sue caratteristiche, non può tradursi senza uno sforzo introspettivo e linguistico che riscatti ciò che, essendo comune, è rinchiuso nel proprio corpo. Uno sforzo che chiamiamo con diversi nomi. Ad esempio, “poesia”, “musica”, “letteratura”.

3) Tra i paradossi del capitalismo e delle sue tecnologie ancillari c’è la sua potente capacità di erosione dei tre tipi diversi di memoria.
Quella documentale è stata indebolita dalla sua stessa capacità tecnologica di registrazione e archivio: tutte le date, i dati, le statistiche, sono ormai immagazzinate su supporti esterni che hanno svuotato le nostre teste nella quale galleggiano, come fa il pane tostato nella zuppa, alcuni avvenimenti senza collegamento, isolati dalla storia, resi monumenti dai media che, come Nestlé e Disneyland, producono caramelle, giocattoli e merci.
In un dialogo di Platone, un amanuense egiziano dice a Solone che i greci erano come dei bambini, perché non riuscivano a ricordare nulla oltre tre generazioni, mentre loro, possedendo la scrittura, potevano risalire, nome a nome e data a data, fino al loro passato più remoto.
Noi, come l’amanuense egiziano, abbiamo la scrittura, ma nel frattempo il capitalismo ha cambiato le regole e ora produce bambini persi in un tempo uniforme, senza limiti né approdi.

4) Con la memoria individuale è stata danneggiata anche la memoria collettiva.
Siamo capaci di parlare di specie animali scomparse o minacciate da estinzione, ma abbiamo dimenticato i gesti millenari, le cerimonie comuni, le risposte collettive. Possiamo ancora pensare a mestieri morti, a liturgie cerimoniali estinte, a forme di organizzazione politica e a vincoli di solidarietà che sembrano definitivamente disfatti ma, ormai, le risposte automatiche – ovvero quello che ho chiamato senso sociale senza pensiero – non derivano più dalla tradizione, dall’istituzione o dall’educazione, con i loro vantaggi e rischi, bensì dalle multinazionali.
Come superare un lutto? La Roche ha messo in commercio una pastiglia adeguata.
Come seppellire i morti? Le pompe funebri, ovviamente private, s’incaricano professionalmente del residuo. Come baciarsi, dove divertirsi, come vestirsi, cosa mangiare, come viaggiare, cosa guardare? Ci pensano Disneyland, Dolce e Gabbana, Upim, Monsanto, MacDonalds, Sheraton, Franco Rossi …
Solo i poveri, i molto poveri, hanno ancora una biografia.
I ceti medi ed i loro imitatori dispongono soltanto di una raccolta di souvenir o di un catalogo standard di fotografie. La memoria individuale – le ripetizioni e le cicatrici, le abitudini e gli oggetti – è stata sostituita da un universale depliant pubblicitario in cui, sprovvisto di corpo, ogni soggetto è intercambiabile con qualsiasi altro.
Cosa ricordiamo? L’area di servizio dell’autostrada, la finale del mondiale di calcio, il logo della Nike, la pubblicità della Toyota, l’atrio d’ingresso del Hotel Plaza, le offerte della Esselunga, l’icona iniziale della Microsoft … Avendo eliminato i cinque sensi ed i quattro elementi di cui sopra abbiamo contemporaneamente eliminato la possibilità di avere un’esperienza personale e di comunicarla.

5) Di tutto questo, la mia testa aveva sedimentato poco o nulla in quel febbraio 1974.
Era un sabato. In un teatro romano di cui non ricordo il nome, era in programma un concerto degli Inti. Per i cileni molto poveri come me, circa un centinaio di esuli allora, lo spettacolo era gratuito. Ma il teatro era pieno di italiani paganti che, pur nutrendo grande sfiducia sulle capacità artistiche dei musicisti, esprimevano la loro sofferta solidarietà accompagnandoci.
Invece, fu un concerto memorabile, anche per loro. Degli Inti si possono dire molte cose, ma è difficile sostenere che non sappiano suonare.
Ho risentito la stessa sfiducia molti anni dopo, alla fine degli anni ’70.
Lucio Dalla cantava: “La musica andina, che noia mortale, sono più di dieci anni che si ripete sempre uguale”. Ma era un “giudizio estetico”, del tutto legittimo.
Non credo lo fosse invece, il giudizio “etico-politico” espresso dal critico musicale milanese de “Il Manifesto” negli anni ’80 quando, a proposito di un concerto che non aveva neppure ascoltato (ciaccolava incessantemente), per assistere al quale avevo dovuto pagare, scrisse: “Il pubblico presente era persino peggio dei musicisti. Continuava a chiedere canzoni stantie come «El pueblo unido jamás será vencido»”.
Tralasciando la politica e la morale perché – come diceva la mia mamma – “sui gusti non c’è nulla di scritto”, corredo cotanta sapienza con un detto popolare cileno: “Se gli stronzi volassero, sarebbe sempre nuvolo”.

6) Gli Inti attaccano: “Se Juanito Laguna, arriva alla nuvola, è il vento che viene, lo ama e lo tira su … Ah Juanito Laguna, se volasse l’aquilone con la tua fortuna”.
Suonavano chitarre, charango, quena, sikus e zampogne ma la memoria, che ha solo i confini dettati dall’ignoranza e dall’opportunismo, mi riportò lontano.
Rivisitai, prima, il bandoneon di Astor Piazzola e le parole di Horacio Ferrer: “Nelle notti, faccia sporca, da angioletto con i jeans, vende rose tra i tavoli, della bettola di Bachín. Se la luna splende sulla griglia, mangia luna e pane di fuliggine. Ogni aurora, nella spazzatura, con un pane e uno spaghetto, si costruisce un aquilone per andarsene, ma è ancora qui!…”
Poi saltai ai versi del poeta spagnolo, allora esule a Roma, Rafael Alberti che – meraviglia delle meraviglie – ci aveva fatto visita in albergo per regalarci alcune sue poesie: “Creiamo l’uomo nuovo, cantando. L’uomo nuovo di Spagna, cantando. L’uomo nuovo del mondo, cantando. Canto in questa notte di stelle, in cui sono solo ed esiliato. Ma nella terra non c’è nessuno da solo, se sta cantando. L’albero ha le sue foglie, e se è secco non è più un albero. L’uccello ha le nubi, il vento, e se è muto non è più un uccello. Il mare ha le sue onde, e il loro canto allegro le navi. Il fuoco ha fiamme e scintille e anche le ombre quando è alto. Nessuno è solitario sulla terra, creiamo l’uomo nuovo cantando”.
Questo testo, trasformato in canzone, si trova in “Inti-Illimani 6 Chile Resistenza”.

CILE LA MEMORIA II
4 settembre 2023 Nel 50° anniversario dell’inizio del crimine
Cavalcando ricordi sparsi sulle note degli Inti Illimani Parte seconda

7) Essendo allora molto povero, avevo ancora una biografia. Non senza fatica, ho cercato in seguito di preservarla.
Lo considero essenziale perché resto convinto che bisogna cercare di vivere come si pensa sia giusto vivere per evitare di finire a pensare come si vive. Sarebbe sufficiente, ma c’è una seconda ragione: non mi piace, ma in quanto esseri umani condividiamo alcuni tratti distintivi. Pur se non risulta facile accettare che si condividono alcuni tratti costituenti con determinati individui.
Il primo tratto comune è l’originalità: abbiamo bisogno di senso per vivere.
Ciò rende permanente il nostro bisogno di ricerca ma non esclude – anzi presuppone – la fedeltà a noi stessi, a ciò che siamo stati e a ciò che siamo.
I sensi che maneggiamo riconoscendoli nostri sono mossi dall’affetto, non dalla scienza.
“La convivialità è l’antidoto alla sopraffazione. La Società conviviale è una società in cui lo strumento moderno è utilizzabile dalla persona integrata alla collettività, non riservato ad un corpo di specialisti che lo tiene sotto controllo. E’ una società dove prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni.” (Ivan Illich, “La convivialità”, 1973). Credo risulti evidente la vicinanza tra questa idea di società conviviale e l’idea della democrazia tra uguali.
Il secondo tratto è che, pur cercando l’originalità, siamo anche e sempre relazione. Scrive Michail Bachtin: “Tutto ciò che tocco, a cominciare dal mio stesso nome, perviene alla mia coscienza dal mondo esterno, passando attraverso la bocca degli altri, con la loro intonazione, la loro tonalità emozionale, e i loro valori. Inizialmente non prendo coscienza di me se non attraverso gli altri” (“L’autore e il personaggio nell’attività estetica”, in “L’autore e l’eroe”, 1929). “L’essere dell’uomo è una comunicazione profonda. Essere significa comunicare. Essere significa essere per l’altro e, attraverso l’altro, per sé. L’uomo non possiede un «territorio» interno sovrano. Egli è integralmente e sempre su una frontiera: guardando dentro di sé, guarda negli occhi altrui, o attraverso gli occhi altrui. Non posso fare a meno dell’altro, non posso divenire me stesso senza l’altro” (“Dostoevskij. Poetica e stilistica”, 1934).
Infine, seguendo l’intrecciarsi dei propri tempi di vita, originalità e relazione si coniugano col nostro essere futuro e col nostro essere radicalmente vulnerabili. Vulnerabilità che deriva dal fatto che il male non è un’entità metafisica, come vorrebbero la pubblicistica religiosa e quella politica, bensì una degenerazione che comporta la distruzione del tessuto relazionale in cui siamo immersi.

8) Reazionari e razzisti confondono la realtà con ciò che vedono e ciò che vedono con ciò che pensano di vedere.
Probabilmente per questo sono ossessionati dalla necessità di possedere un’idea realistica dell’universo. Ma, essendo la loro un’idea fissa (come a volte accadde anche a non conservatori reazionari né razzisti), è un’idea realista quanto lo è la prospettiva senza orizzonte di cui godono i cavalli e le mucche in campagna.
Fa niente. Per loro, questa è la realtà, non una illusione pietrificata. Nei cervelli cortocircuitati questa parvenza immobile acquista le sembianze di una realtà indiscutibile.
Nemmeno in questo c’è nulla di nuovo. Si ricorderà che in altre epoche erano considerate realtà indiscutibili che la terra fosse piatta e finisse con le colonne d’Ercole, che immense tartarughe sostenessero il mondo o che le streghe provocassero il cattivo tempo per cui bisognava torturarle fino alla morte o bruciarle sul rogo in nome della verità e a difesa della realtà.

Non è solo la nostra storia ad essere una storia di crimini e stragi.
Il passaggio dal feudalesimo al capitalismo si concretizza con tre trasformazioni complementari: l’invenzione del lavoro salariato, l’esproprio e la privatizzazione massiccia delle terre fino ad allora comuni, la subordinazione e il confinamento delle donne all’interno delle mura domestiche.
Fino all’avvento del capitalismo le donne potevano dedicarsi all’agricoltura di sussistenza, ma anche al lavoro nelle città. Ad esempio, racconta Immanuel Wallerstein, partecipavano a 72 delle 80 corporazioni inglesi (“Il sistema mondiale dell’economia moderna”, 1982). Ma con l’avvento del capitalismo furono costrette a dedicarsi al lavoro domestico non rimunerato, il che aumentò esponenzialmente la loro sottomissione ai maschi. La scelta era tra la povertà e il fuoco, poiché nei secoli XVI-XVII il capitalismo emergente metteva in pratica la caccia alle streghe ed i conseguenti roghi, pratica che certamente nulla aveva a che fare con la loro presunta capacità di produrre filtri o dialogare col diavolo durante il tempo libero ma, quanta banalità, col fatto che il capitalismo emergente aveva bisogno di sviluppare una nuova divisione sessuale del lavoro che le confinasse al lavoro riproduttivo.
L’antecedente immediato della caccia alle donne si ritrova nella crisi economica e demográfica susseguita alla peste nera che eliminò un terzo della popolazione europea nel 1348.
La brutale riduzione del numero di lavoratori ne aumentò il costo e costrinse a migliorare le loro condizioni di impiego. Quando scarseggiava la terra i signori feudali potevano controllare i contadini minacciando di espellerli ma, diminuita la popolazione, l’aumentata disponibilità di terre toglieva efficacia a questa minaccia. Quindi, mentre i raccolti andavano in malora i contadini potevano muoversi liberamente alla ricerca di nuove terre da coltivare.
Nel ‘400, questo nuovo peso dei contadini e artigiani moltiplicò gli scioperi in tutta Europa, raddoppiò il salario reale e fece calare ad un terzo il prezzo del cibo e della giornata lavorativa. La risposta dell’aristocrazia agraria e dei nuovi Stati all’incremento del costo della manodopera e al conseguente calo delle rendite feudali, fu terribile: nei tre secoli successivi s’impossessarono delle nuove fonti di ricchezza, espansero la loro base economica e misero sotto controllo il maggior numero possibile di lavoratori. Recintando le terre, eliminarono il sistema dei campi aperti e la proprietà comunale, mentre l’espansione della proprietà privata sostituiva l’uso collettivo della terra.
Grazie a queste “riforme”, nel ‘500 i prezzi del cibo si moltiplicarono per otto ed i salari si deteriorarono velocemente. In Spagna, ad esempio, tra il 1511 e il 1600, ossia in piena espansione coloniale, i salari persero il 30% del loro potere d’acquisto. Ciò non fu indifferente per la costituzione delle orde poi spedite a “evangelizzare” l’America.
Per tutti i lavoratori, prima di ritornare ai livelli salariali raggiunti alla fine del Medioevo occorreranno secoli, ma alle donne andò ben peggio: ai primi del ‘500, a parità di lavoro, percepivano la metà del salario di un uomo; a metà del ‘700 ne percepivano un terzo, peraltro di un salario molto ridotto. Per la maggioranza della popolazione era un disastro, per le donne la perdita della terra e il crollo del villaggio aumentarono le loro difficoltà di movimento e di vita indipendente esponendole direttamente alla violenza maschile. Vennero confinate al lavoro riproduttivo proprio quando questo veniva svalutato (Silvia Federici “Caliban e la strega: le donne, il corpo e l’accumulazione primitiva”, 2004).

Alla persecuzione delle donne diede una mano consistente il Vaticano.
Nel 1484 il Papa Innocenzo VIII commissionò a due Inquisitori domenicani, Heinrich Kraemer e Johann Sprenger, uno studio sull’eresia e la stregoneria. A partire dal 1486 il loro testo intitolato “Malleus Maleficarum” (“Martello di Streghe”), diventò la bibbia dei cacciatori di streghe che lo applicarono per oltre 2 secoli.
Essendo lo scopo la sottomissione delle donne, bisognava anzitutto terrorizzarle per poi punirle adeguatamente. Quindi, il manuale forniva istruzioni pratiche per la cattura, il processo, la detenzione e la eliminazione delle streghe. Per processarle erano sufficienti i pettegolezzi pubblici; per annientare ogni loro possibilità di difesa, stabiliva: “Una difesa troppo vigorosa da parte del difensore prova che anche quest’ultimo è stregato”. Forniva poi indicazioni per evitare che le autorità fossero soggette alla stregoneria, ma rassicurava sulla loro capacità di resistere: “In quanto rappresentanti di Dio, i giudici sono immuni ai poteri delle streghe”.
Da buon manuale, dedicava ampio spazio alla illustrazione delle tecniche più adatte ad estorcere confessioni e praticare la tortura durante gli interrogatori. Ad esempio, per trovare il marchio del Diavolo, prova principe della colpevolezza, raccomandava l’uso del ferro infuocato per rasare l’intero corpo delle accusate.
Ma se per i cacciatori il “Malleus Maleficarum” era solo un manuale, per gli studiosi era di più. Non si limitava a definire le streghe in base all’uso dei filtri e al dialogo con il maligno ma specificava: “Quando una donna pensa per conto proprio, pensa soltanto a cose cattive. Perché sono più deboli nel corpo e nell’anima, non sorprende che possano soccombere all’incanto della stregoneria. Ogni stregoneria proviene dalla lussuria carnale, che nelle donne è insaziabile”.
Mutatis mutandis, affermazioni non del tutto strane nemmeno oggi.
La religione pervadeva tutto. In Spagna, dove i regni conservarono i loro ordinamenti giuridici propri e molti aspetti della loro antica sovranità, la prima istituzione “nazionale” fu proprio la Santa Suprema Inquisizione che solo il regno spagnolo ebbe il privilegio di avere indipendente da quella romana. Il regime la utilizzò come arma essenziale del proprio potere politico. Poi la esportò in America dove, raccontano i cronisti (spagnoli), durante l’epoca coloniale (che durò fino al XIX secolo), le donne indigene venivano giustiziate sulle piazze in modo tale che, morendo, strangolassero i loro figli piccoli. Così si coglievano tre piccioni con una fava: si puniva le streghe, si ammoniva le altre donne a non pensare per conto proprio e si risparmiava lavoro (remunerato) ai boia dei santi tribunali.
La coincidenza temporale dei tre processi collegati al controllo del costo del lavoro – caccia alle streghe, tratta degli schiavi e invasione/colonizzazione/sterminio delle popolazioni americane – fa dell’irruzione del capitalismo uno dei periodi più sanguinosi della storia europea.

Forse a Guantanamo circolano ancora copie del Malleus Maleficarum, ma i torturatori moderni hanno molto perfezionato le tecnologie dell’orrore socializzando molti contributi, da quelli di “Mastro Tita, er boia de Roma”, al “pau d’arara” brasiliano e alle indescrivibili crudeltà delle dittature latinoamericane (e non solo).
In portoghese, pau d’arara è il “trespolo del pappagallo” e, per analogia, uno strumento dal quale appendere e torturare i dissidenti politici, applicando una tecnica degli schiavisti portoghesi che la usavano per punire gli schiavi disubbidienti.
Si tratta di una barra di ferro su cui viene appeso e arrotolato il prigioniero, in modo che il palo resti bloccato tra l’incavo delle braccia e l’incavo delle gambe. Successivamente vengono legate le caviglie con i polsi ed il torturato viene appeso a circa un metro dal suolo e lasciato in quella posizione finché il sangue non circola più, il corpo si gonfia e cessa il respiro causando traumi fisici e psicologici.
Se tenete presente questa descrizione diventa ovvio che un torturato resterà sempre un torturato e un torturatore resterà sempre un torturatore.
Nei centri adibiti all’uopo dalle dittature latinoamericane, e a Guantanamo, si combina con elettroshock, torture sessuali e waterboarding (annegamento simulato, ad esempio introducendo la testa del malcapitato nel cesso).
Da “tecnologia”, è stato usato anche ad Auschwitz durante la seconda guerra mondiale, dov’era noto come Bogerschaukel (altalena di Boger), dal nome dell’ufficiale delle SS che lo applicò per primo.
Nel Brasile della dittatura militare raggiunse una diffusione enorme. La usavano comunemente in tutte le stazioni di polizia gli agenti della polizia politica contro i dissidenti politici, ovviamente per estorcere delle confessioni.

9) I mercati non sono affatto una invenzione della modernità capitalistica.
Almeno diecimila anni fa, i mercati erano già il centro della vita dei popoli, il luogo d’incontro dei colori e degli odori dell’esperienza umana, delle idee e delle passioni, del baratto e delle preghiere al Supremo, dei dubbi e delle certezze.
Almeno diecimila anni fa, arti e religioni, scienze e idee, lingue e storie, erano già scambiati con tappeti e datteri, pelli e perle, sale e peperoncino, coltelli e specchi.
Ora i mercati sono ridotti ad una storia silenziosa o sono una rumorosa risorsa destinata sostanzialmente ai turisti. Rimane poca cosa di ciò che è stato, magari un’ombra colorata, un rumore, un salto incompiuto.
Ora, i mercati finanziari sono il centro dove muoiono idee e passioni, denaro e preghiere al Supremo, lingue e storie, l’esperienza umana e la sua memoria, il dubbio e la certezza.
Ora, popoli e individui sono legati ai loro terminal informatici e le reti sociali sono i nuovi cimiteri della società.
Non ho nulla contro i cimiteri, anzi, credo che convenga visitarli ogni tanto per ricordare parenti che sono partiti, amici che non ci sono più (da non confondere con quelli che non sono più ciò che erano, che si ritrovano nelle banche), ma credo che sia triste vivere nel cimitero, privi dell’esperienza umana, orfani della vita di carne e ossa delle antiche città.
Ovviamente, ci sono eccezioni. La più notevole, credo, è quella egiziana.
Alla periferia de Il Cairo, un milione e mezzo di poveri e disoccupati vive in uno dei cimiteri più grandi del paese, senza elettricità né servizi igienici. Lo chiamano “la città dei morti”. I suoi abitanti vengono soprattutto dalle campagne in cerca di lavoro. Qui non devono pagare affitto in cambio di alcuni servizi di guardia alle tombe. Salvo eccezioni, le loro aspettative non troveranno mai risposte positive perché la popolazione cairota, stimata intorno ai 21 milioni, cresce ogni anno e con essa la richiesta di case. Ma, spiega Al Jazeera: “Nulla di particolarmente macabro come il nome potrebbe far credere. Si tratta solo di una specie di ridestinazione d’uso per un’area insolita” (“La città dei morti”, 12 febbraio 2009).
A Il Cairo, nelle favelas brasiliane, nelle villas miseria argentine, nei cantegril uruguaiani, nei pueblos jóvenes peruviani e nelle baraccopoli di ogni dove, i media piegano la realtà ad una rappresentazione che legittima l’ingiustizia e abitua la popolazione a credere che sia normale parlare, pensare ed agire in base ai canoni prefissati da oscure autorità.
Combinando bruttezza, aggressività, vouyerismo, narcisismo, volgarità e stupidità, questa rappresentazione continuamente in onda invita lo spettatore a compiacersi dall’immagine infantile e degradata di sé stesso che si rappresenta.
Ma, per garantirne una lunga vita, la bugia si è tramutata in un culto feticista presieduto da Divinità chiamate Mercati che agiscono in Templi denominati Borse. In questi luoghi di culto si svolgono funzioni religiose quotidiane alle quali possono partecipare soltanto gli eletti, ma il popolo dei credenti può entrare in comunione con le Divinità attraverso lo schermo della TV, il computer, il giornale, la radio o lo sportello bancario. Così, in ogni angolo del mondo centinaia di milioni di persone, a molte delle quali si nega il diritto a soddisfare i propri bisogni di base, sono invitate a celebrare le funzioni. Ciò è facilitato anche dal “servizio pubblico” radiotelevisivo, il quale dedica quotidianamente buona parte della sua programmazione alle rubriche per credenti intitolate al Tempio, con nomignoli del tipo “Questioni di borsa” e simili.
Va da sé: come accadde per ogni credenza, non è importante la condizione di partenza, in questo caso il fatto che la schiacciante maggioranza dei credenti/ascoltatori non disponga nemmeno di un’azione. Ciò che conta davvero è la speranza, “la speranza di diventare come loro”.
Trattandosi di una speranza manifestamente infondata, il nocciolo della credenza è profusamente curato. Ad esempio, poiché le funzioni avvengono nella lingua degli eletti, è necessaria una caterva di giornalisti ed esperti incaricati di tradurre alla ciurma i messaggi delle Divinità, aiutandola a carpirne segnali, umori e sanzioni.
Come scriveva Guy Debord nel 1967, “lo spettacolo non è un insieme d’immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini, una visione del mondo che si è oggettivata” (“La società dello spettacolo”).
La funzione dello spettacolo è la stessa assunta dalla religione nelle società tradizionali e dall’arte nella formazione del capitalismo: trasformare la rappresentazione in qualcosa che sembra più reale dell’esperienza vissuta, più reale dei nostri stessi bisogni, per ridurre l’individuo alla condizione di spettatore passivo (della politica, della produzione e del consumo) e, in quanto tale, costringerlo ad accettare lo stato di cose esistente.
Infatti, andando in onda permanentemente, lo spettacolo trasforma frottole inaudite in credenze diffuse. La popolazione, inerme e disarmata, viene indotta ad assumere come verità un sacco di fregnacce.
Capire qualcosa d’economia è utile per non essere preso in giro troppo facilmente ma, più della teoria e dell’informazione economiche, serve la vecchia lezione del poeta León Felipe (“Sê todos los cuentos”): “Io non so molte cose, è vero. Dico soltanto ciò che ho visto. E ho visto: Che la culla dell’uomo la dondolano con storie. Che le urla d’angoscia dell’uomo le affogano con storie. Che il pianto dell’uomo lo tamponano con storie. Che le ossa dell’uomo le interrano con storie. E che la paura dell’uomo ha inventato tutte le storie. Io non so molte cose è vero. Ma mi hanno addormentato con tutte le storie. E conosco tutte le storie”

Rodrigo Rivas