Visioni

Il Collezionista di Carte di Paul Schrader

Gli eroi tormentati di Paul Schrader, sia come sceneggiatore che come regista, sono spesso esseri solitari e abitanti della notte, insonni come Travis Bickle (Taxi Driver), John Latour (The Light Sleeper) o Frank Pearce (Al di là della vita), tormentati tutti dal senso di colpa e dal desiderio di redenzione tipicamente calvinista, come accade anche sorprendentemente nel caso del disinvolto Julian Kay di American Gigolò, la cui discesa agli inferi arriva solo dopo una partenza apparentemente glamour e solare.
Il protagonista dell’ultimo film di Schrader, Il Collezionista di Carte, William Tillich – che si presenta però come “Tell”, l’eroe nazionale svizzero, il paese adottivo di Calvino appunto – si unisce brillantemente a questa schiera di solitari eroi/antieroi che annaspano meglio che possono in un mondo spietato e feroce com’è quello della società Usa contemporanea, muovendosi in situazioni sempre estreme e genialmente rivelatrici di tensioni ed nervi scoperti e sensibili dell’orgoglio Yankee.
Subito dall’inizio lo vediamo avanzo di galera, per essere stato torturatore ad Abu Ghraib (ma questo lo sappiamo dopo), dove ha letto Marco Aurelio e studiato le carte da gioco, per diventare giocatore professionista che si accontenta di vincite basse per non dar nell’occhio, vivendo per lo più di notte e spostandosi di città in città, osservando scrupolosamente una serie di manie ossessive (come quella di coprire tutti gli oggetti delle stanze di albergo con dei teli bianchi che si porta in valigia): si rende invisibile, appunto, come Travis, come John Latour, anche lui affronta un ambiente che vive in bilico sul terreno della legalità, ma soprattutto ha a che fare con un mondo che si regge sull’apparenza dei soldi, non esclusivamente su quelli reali che si guadagnano (non così tanti in realtà, lo si spiegherà nel corso del film), ma sullo spettacolo che essi danno, dal momento che il pubblico di questi casinò, il pubblico televisivo e on – line che segue le gare di poker, che William si deciderà a intraprendere a un certo punto, viene invece indotto a credere che le somme in questioni sono molto più alte di quanto in realtà si giochi sul tavolo verde.
L’aspetto simbolico del denaro travolge la sua stessa consistenza reale, che esiste solo per le vincite piccole e medie di William, che noi vediamo nelle sue mani, raccolto in mazzette come quelle dei gangster movie dei tempi ruggenti, mentre quello che appare su tavoli, impilato accanto alle grottesche figure che popolano questo circo di disperati (tutti in un modo o nell’altro dei veri o propri freaks) sono solamente mucchi di gettoni che hanno un valore fittizio rispetto alla realtà, come spiegherà La Linda (manager di William per i tornei di poker) al perplesso giocatore.
Proprio La Linda e Cregg (figlio di un commilitone di William) sono la molla che portano l’uomo a uscire dal suo isolamento, a entrare nel giro più grosso per aiutare il ragazzo e distoglierlo dal suo proposito di uccidere l’ex-capo di William e del padre, oltre che per la simpatia che sente per la donna: il trio forma per la parte centrale del film una di quelle famiglie disfunzionali, unite da vincoli di affetto complicati ma reali, che hanno fatto la grandezza di maestri come Nick Ray, per citare un altro grande regista americano spietato critico del sistema e amico per eccellenza di emarginati e derelitti, anche se non turbato dalla colpa come Schrader, che accusa in maniera non sottile tutti quanti, quando mette in bocca ai suoi personaggi delle battute come “Il marcio non è nelle mele ma nei cestini” (a proposito del fatto che per Abu Ghraib abbiano pagato solo i soldati e non i capi, né tanto meno il sistema), ma anche il “Io credo che ognuno sia responsabile delle sue azioni” con cui il protagonista chiosa l’inizio della resa dei conti finale col suo ex – capo.
La redenzione impossibile di William passa così per un confronto diretto con la parte più oscura di se stesso che, non tanto paradossalmente, lo riporta nello stesso luogo da dove è partito, il carcere, un luogo per cui lui “si sente adatto”, dice lui, così come tutta la società americana messa in scena ha il solo specchio possibile della propria essenza mistificatoria, della violenza che genera e insieme subisce e trova una paradossale pacificazione solo nel rituale egualitario dell’universo carcerario, nella dimensione della punizione asettica dopo i falsi fasti luccicanti delle sale da gioco e del denaro.

 

Per Codice Rosso Falco Ranuli