Il conflitto oltre la fabbrica
Il contesto attuale presenta caratteristiche paradigmatiche per una molteplicità di aspetti, consta di particolari estremi, di situazioni sociali, storiche e geografiche sicuramente di eccezione. Il capitalismo è in netta difficoltà sotto più aspetti altamente indicativi: la difficoltà di lavorare ancora oggi con economie di scala nell’era della post-globalizzazione, che meglio sarebbe definibile come epoca di ridimensionamento internazionale di potenze economiche, politiche e militari egemoni per tutto il novecento (come gli Usa, prima forza militare sempre ma non più economica) sta riducendo il mondo ad una polveriera; l’incapacità di estrarre plusvalore crescente in un periodo di saturazione del grande macchinismo, dopo la terza rivoluzione industriale comprime i salari ovviamente, secondo la vecchia e nota legge della caduta tendenziale del saggio del profitto, salari ulteriormente aggrediti da un movimento regressivo da parte del capitale, che scarica su di questi il peso delle proprie criticità ad aggravare la situazione; le difficoltà di difesa del cosiddetto fattore lavoro, che nell’espressione della flessibilità lavorativa oggi trova smantellato tutto un diritto che le lotte dei decenni precedenti avevano costruito; le emergenze climatiche, dettate da un rapporto intimo tra sfruttamento selvaggio dell’ambiente e capitalismo stesso. Insomma, gli indici suggeriscono almeno due spunti: il capitalismo attraversa criticità epocali oggi ma i movimenti rivoluzionari, se centrati tradizionalmente su un apparato teorico che esalta esclusivamente la classe operaia, in un’accezione che non esiste più (operaio massa) , mancano dello strumentario sia analitico che pratico per affrontare le priorità di un’agenda politica che sia autenticamente anticapitalista, incapaci di produrre un’alternativa concreta: se crollo dovesse essere del capitalismo, dobbiamo dare ragione a Kurz, circa l’imprevedibilità degli esiti dello stesso, circa l’impossibilità di immaginare cosa storicamente possa seguire al sistema capitalistico. La frase topica “Socialismo o barbarie”, sembra oggi più che mai rivendicare attualità. Sia chiaro però che l’aut aut sia secco, laddove la barbarie si affacci come sviluppo storico davvero possibile. Ora, senza predicare l’iconoclastia della tabula rasa nei movimenti rivoluzionari, è senz’altro necessario oggi guardare alla realtà come a qualcosa di opaco e di lettura non immediata, almeno per lo strumentario analitico più classico. La categoria della Cultura, di origine weberiana è uno strumento appunto di questo genere. Si guardi bene, lo strumento non ha natura idealistica, ma appunto strumentale. Cultura è la riduzione ad elementi significativi, è conferimento di senso ad una realtà altrimenti priva di senso, almeno per la prospettiva umana. Cultura è appunto passaggio dall’oscurità alla luce della “comprensione”. Il concetto nasce nel contesto culturale dello storicismo tedesco, nella riflessione di Dilthey sulle scienze, distinte in scienze naturali e scienze storiche. Le prime sarebbero nomotetiche, cioè generali, le seconde idiografiche, ossia tendenti ad individuare un fenomeno nella sua individualità. Come sostenne a sua volta Simmel, altro illustre storicista le scienze fornirebbero delle posizioni ipotetiche valevoli solo fino a prova contraria, con contenuti veritativi frammentari e parziali, senza che esse aspirino a forme assolute di verità. Un contesto filosofico, quello storicista che appunto coglie il fatto sociale come un’individualità, come un evento unico ed irripetibile nella forma in cui si presenterebbe: un’occasione da cogliere, potremmo perifrasare nella nostra prospettiva. Il tutto sullo sfondo di una forte relativizzazione epistemologica del determinismo di carattere ottocentesco. La realtà attuale appare opaca perché mancano delle soluzioni adatte alle esigenze dei tempi e le operazioni di conferimento nuovo del senso alla realtà sociale diventano così prioritarie. Non ci stancheremo poi mai di postulare, dato quanto detto anche sopra, l’esigenza di ripensare l’azione della categorie della causalità. Althusser per questo sostituisce la classica contraddizione dialettica di ascendenza hegeliana. Per Hegel la totalità è una unità semplice (IDEA), basata sullo schema essenza-fenomeno, che si manifesterebbe in un primo momento in determinazioni alienate per ritrovarsi dialetticamente, infine, come Spirito. Tutte le differenze, nella totalità hegeliana vengono negate non appena le si affermino. Questo genere di totalità Althusser la definisce “espressiva”: tutte le parti parlano il linguaggio della totalità, la sua unità interna. Secondo lo stesso, la totalità marxiana deve essere invece complessa ed articolata: unità di una struttura articolata a dominante, di un tutto organico gerarchizzato. Questa struttura introduce un ordine specifico nell’articolazione delle componenti e dei rapporti, decisa dal MODO DI PRODUZIONE, che nel caso del capitalismo verrebbe a coincidere con la contraddizione economica. La nozione di SURDETERMINAZIONE descrive il gioco interno della complessità del sistema, il gioco appunto di rimando tra contraddizioni differenti: le altre contraddizioni retroagiscono su quella economica che così viene a sua volta determinata. Le soluzioni debbono essere scorte su questo piano di complessità, non con delle riduzioni al semplice, al meramente economico ( o economicistico, in senso degradativo). Ora, l’immagine dell’uomo economico per esempio gioca un ruolo ideologico al pari della cosiddetta mano invisibile. La nozione viene introdotta da Mill nel saggio “Sulla definizione di economia politica”. L’uomo, per gli economisti, non è da pensare nella sua globalità, ma solo per i motivi del suo agire legati alla massimizzazione della ricchezza. Un tassello ideologico nel pensiero liberale, un ideal tipo che però, valorizzato come riduzionismo, ossia materializzato in un agire empirico che tenda ad esaltare solo le esigenze di carattere economico, se inserito nella piattaforma di una forza sedicente rivoluzionaria può oggi produrre distopie non indifferenti. Comunque sia questo concetto viene posto alla base della razionalità economica. Ma come interagisce questa razionalità economica oggi col fattore lavoro? L’arretramento del Welfare (già debole storicamente nei paesi del mediterraneo europero), la riduzione di forza economica del salario, lo smantellamento del diritto del lavoro impongono una riflessione inedita. Il lavoratore oggi, preso come lavoratore tout court, che poi significa davvero poco, giacchè il classico operaio massa è oggi sulla via del tramonto nelle società a capitalismo avanzato, superato ontologicamente dalla priorità storica del lavoratore flessibile e la figura stessa del lavoratore risulta essere scomposta, dilaniata, persa in una costellazione di posizioni sociali apparentemente irrelate, inconciliabili, si vede ridurre la razionalità economica, viene alienato rispetto ad essa. La classe lavoratrice è oggi di fronte a un aut aut, pure essa: difesa di un modello sociale appartenente al passato, fosse anche un modello sociale a socialismo reale, modello basato sulla centralità del fattore lavoro quale propulsore di plusvalore, ed allora la polemica dovrebbe rivolgersi paradossalmente, verso l’automazione ed il macchinismo anche, che hanno prepotentemente spinto la società industriale verso un’intensificazione dell’estrazione di plusvalore su un terreno di forza lavoro ridotto all’osso; oppure, mantenendo un contatto pragmatico con le esigenze “residue” di razionalità economica, la classe potrebbe ancora, invece di farsi burocrazia di redditi da lavoro, aggredire l’economia attuale, per ottenere un equilibrio differente, secondo la formula marxiana, tutta da riscoprire circa l’esigenza di superamento dell’economia. Che poi non significa rinunciare al reddito da lavoro, che oggi, in alcune sue forme è diventato, paradossalmente, più lusso che piaga, quindi posizione anche da difendere e non nel senso della difesa corporativa di un’aristocrazia operaia, quanto piuttosto come punta avanzata nell’erosione di risorse lungo il conflitto capitale-lavoro. La difesa corporativa presuppone il mantenimento degli equilibri mentre l’altra prospettiva punta diretto verso l’avanzamento, verso il progressivo esaurimento del conflitto tra capitale e lavoro a favore del lavoro stesso. La tensione oggi è comunque sicuramente schizofrenica e questo dato di fatto non può che generare soggettività ibride. Quindi oggi questa tensione sociale schizoide deve essere accettata come dato di fatto, col lato delle esigenze pragmatiche di chi “debba arrivare alla fine del mese” e con quello di chi, concretamente potrebbe creare già spaccati di società inedita, che capitalizzino da subito la crisi attuale del capitale. Un 2 “gradualismo” rivoluzionario che sulle base delle opportunità aperte, delle “possibilità” reali apra ai primi sviluppi di una società nuova. Per fare questo urge però ripensare la stessa nozione di rivoluzione, affrontare con sensibilità nuova il nodo della “pars costruens”. Torniamo adesso alla figura sociale che sta egemonizzando gradualmente le economie delle società a capitalismo avanzato, quella cioè del precario. Nel precariato vengono recuperati alcuni aspetti arcaici del capitalismo, come l’altissima intensità dello sfruttamento nella discontinuità del lavoro. Un apparato che ribalta il precetto rifiutista, il tema del rifiuto del lavoro. Si inverte il segno del precetto, si mantiene la conquista del tempo libero, però depauperandolo in modo da tenere alto il potere di ricatto sul lavoro, ed addizionandoci sfruttamento intensivo durante l’orario di lavoro stesso. Altro che esercito industriale di riserva alimentato dall’immigrazione; i processi sociali che oggi impoveriscono le nostre tasche sono una soluzione che il capitalismo maturo ha trovato alle proprie crisi, attraverso il ridimensionamento del fattore lavoro e questi processi sono stati decennali, partendo direttamente dagli anni ’70. Pensare che il lavoro immigrato oggi sconvolga il mercato occidentale è miope, superficiale e riduttivo. Tra l’altro pretestuoso e non sempre onesto da un punto di vista sia etico che analitico. Dunque, se la fabbrica resta certamente un fronte di lotta, questo lo si deve porre sul medesimo livello di altri fronti di lotta, che si snodano oltre la fabbrica, nel tempo libero ed immiserito. Che sia in questi punti che si possa superare l’uomo economico? Se restituissimo forza e solidarietà al nostro tempo libero il ricatto che subiamo nel mercato del lavoro, il cosiddetto dispotismo di fabbrica, conoscerebbe una netta ridimensionata. Ma ridimensionare il dispotismo di fabbrica non avvicina all’obiettivo strategico della resa del capitale? Restituire una minima capacità di scelta dei propri percorsi di esistenza, tornare ad essere padroni dei propri sviluppi sociali non è una dimensione libera e solidaristica del vivere associato? E’ una strada traversa, indiretta con cui si possa concretamente aggredire la contraddizione principale, quella economica che piega il lavoro sul capitale. Da questo punto di vista lo sterminato campo di riflessione legato al reddito è determinante, poiché il reddito è una variabile sociale e non solo, genuinamente economica, perché esso rappresenta non solo il salario, ma anche tutti gli strumenti di integrazione ad esso. Basti allora pensare ad una proposta che agisca nella direzione che predicavamo sopra: strumenti liberi e non necessariamente istituzionali di sostegno al reddito che sappiano allentare il dispotismo di fabbrica, compresi dei meccanismi diretti di riappropriazione dello stesso reddito. Nella figura del precario si può quindi fare di necessità, virtù: se il salario arretra contemporaneamente si moltiplicano i punti di attacco al capitale, paradossalmente, nella sfera di esistenza posta oltre il salario il conflitto potrebbe davvero proliferare, in situazioni liminari, parcellari, laddove l’insicurezza sociale, l’instabilità manifestino effetti più plateali, laddove viga un regime (oggi comunque sia abbastanza generalizzato) di scarsità sul piano dei bisogni. Compresi quelli relativi all’ambiente: le battaglie ambientaliste sono un esempio abbastanza conclamato, dove, partendo da esigenze territoriali si sviluppino nodi di resistenza ai precipitati generali del capitalismo, che agiscono sempre sui territori come forze esogene, aliene, trascendenti, come è da sempre il sistema del capitale d’altronde, alienante ed impersonale.
DIEGO SARRI