Internazionale

Il populismo 1- Rodrigo Rivas

Parte 1
Molti commenti sulla questione argentina si concludono con frasi come “il populismo pavimenta la strada al fascismo”.
Se le parole hanno un senso, ciò significa che dopo il populismo – nel caso specifico, dopo il peronismo – arriverà sempre, o quasi, il fascismo.
La conclusione del ragionamento è lampante: bisogna evitare ad ogni costo il populismo e, se per sfiga ci capita, tocca augurarci che il padreterno ci trovi confessati.
Più che un’analisi del fenomeno Milei lo definirei un “sahumerio”, ovvero il rito del sacerdote maya che, incenerendo in un contenitore d’oro 49 grani di mais col fuoco sacro, lo riduceva al fumo che addormenta la mente e cancella la coscienza.
Conviene pure notare che questa pavimentazione o sahumeria è stata meno che lenta: tra Perón e Milei sono passati 80 anni, troppi per il prete ed i suoi fedeli ma troppi persino per concludere la Salerno – Reggio Calabria.
Le dittature militari latinoamericane della seconda metà del XX secolo, che avevano indubbie caratteristiche fasciste, fanno parte di un’altra storia: quella dell’imposizione del neoliberismo a sangue e fuoco nel pollaio latinoamericano, per costituire la base materiale di sperimentazione necessaria alla sua successiva espansione universale con in testa i crociati Reagan e Thatcher.
Al di fuori dell’Argentina ci vollero “soltanto” 72 anni, ben 10 in meno, per transitare dall’assalto ai giardini d’inverno di San Pietroburgo al crollo del Muro di Berlino, ossia dall’inizio della rivoluzione bolscevica alla comparsa di alcuni regimi con caratteristiche chiaramente fascistizzanti tra i Paesi fino a quel momento “socialisti”.
Per evitare polemiche inutili chiarisco: non penso che queste caratteristiche fascistizzanti siano comuni a tutti i regimi oggi esistenti nei Paesi che una volta erano definiti del “socialismo reale”.
Tantomeno che tali caratteristiche si limitino a quei Paesi.
Da questa “osservazione temporale” derivo una domanda ovvia e banale: pure il socialismo, quantomeno il socialismo denominato “reale”, pavimenta sempre, o quasi, la strada al fascismo?
Le domande non sono accademiche.
Il fatto è che, pur convinto che per costruire collettivamente una credibile “alternativa progressista e popolare” dobbiamo discutere collettivamente, penso pure che per discutere con senso comune sia richiesta un’alfabetizzazione comune, ovvero una definizione comunemente accettata dell’espressioni e dei concetti politici adoperati.
Perciò, credo sia corretto partire domandandoci cosa sia il populismo.
Io adopero una definizione rintracciabile in qualsiasi dizionario decente. In questo caso, in “Oxford Languages”:
“Populismo
Movimento politico-culturale russo, che si sviluppò tra la fine del sec. XIX e l’inizio del XX, aspirante a una sorta di socialismo rurale, in opposizione al burocratismo zarista e all’industrialismo occidentale.
Per estensione:
Qualsiasi movimento politico diretto all’esaltazione demagogica delle qualità e capacità delle classi popolari”.
Provo ad aggiungere alcuni nomi, arbitrariamente ma non casualmente, per meglio illustrare questa definizione.
La prima categoria, quella del “populista russo”, potrebbe essere personificata da Lev Tolstoj. Personaggio da prendere molto sul serio.
“Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi.
E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendendo dalla sua schiena” (“Che fare?”, 1886).
– Che uomo ammirevole! – gridò il capo. Ora ha conquistato tantissima terra!
Il servo di Pachòm si avvicinò di corsa e cerco di rimetterlo in piedi, ma vide che perdeva sangue dalla bocca.
Pachòm era morto!
I pakshir schioccarono la lingua a dimostrazione della loro pietà.
Il servo prese in mano la vanga e scavò una tomba per Pachòm. Poi lo seppellì. …
Due metri, dalla testa ai piedi, era tutto ciò di cui aveva bisogno” (“Di quanta terra ha bisogno un uomo?”, 1883).
Ovvero, secondo questo conte populista russo del XIX secolo, per migliorare la situazione dello sfruttato bisogna smettere di sfruttarlo. E come terra, basta possedere lo spazio occupato dalla propria tomba.
Tuttavia, il fatto che Tolstoj ed il populismo russo siano una cosa seria non significa necessariamente che lo siano pure i populisti dell’America Latina, regione dove storicamente – quindi per vocazione e antonomasia, non solo né tanto per peronismo – prospererebbero populismi e populisti.
Limitandoci alla sola modernità, si potrebbe parlare di Vargas nel Brasile o di Gómez nel Venezuela ma, perché trasformò stabilmente il Paese, scelgo di parlare del Messico e della rivoluzione iniziata nel 1910, naturalmente partendo dalla situazione preesistente che la spiega.
Per farlo, ricorro a due cronache scritte da testimoni statunitensi:
“Tutto lo Yucatan dipende da questi re dello henequen (la fibra tessile ottenuta dalle foglie dalla pianta messicana chiamata Agave fourcroydes, ndr). Dominano la politica dello Stato e possiedono migliaia di schiavi: 8 mila indigeni yaqui, importati dalla regione di Sonora, 3 mila cinesi (coreani) e 100-125 mila indígeni maya, che prima erano i proprietari delle terre ora dominate dai loro proprietari.
Il prezzo ricorrente per ogni uomo è 400 pesos, ma i proprietario terrieri li pagano soltanto 65 pesos. Secondo il signore Enrique Cámara Zavala, presidente della Camera Agricola dello Yucatan, questo sistema non si chiama schiavitù ma servizio forzato per debiti.
Ci vuole soltanto che qualche operaio libero s’indebiti tramite i prestamisti od i negrieri per far sì che, col pretesto del pagamento dei debiti, venga reso schiavo a vita e con lui tutta la sua famiglia. La schiavitù è il bracciantato portato fino al suo ultimo estremo malgrado la Costituzione vi si opponga” (John Kenneth Turner, “México bárbaro”, 1908. La traduzione è mia).
“Preti Mascalzoni! – urlava uno -. Vengono da noi malgrado siamo così poveri e portano via la decima di ciò che abbiamo!
– Statevene zitti! – gridò la donna -. È per Dio! Dio deve mangiare, come facciamo noi …
Il marito mise in mostra un ampio sorriso. Perché una volta era andato a Jiménez, veniva considerato un uomo di mondo.
– Dio non mangia – disse con enfasi. I preti ingrassano a nostre spese.
– Perché la date? – chiesi.
– È la legge – dissero diversi in coro.
E nessuno poteva credere che, nel Messico, quella legge era stata derogata nel 1857!” (John Reed. “México insurgente”, 1914. La traduzione è mia).
Nel breve periodo intercorso tra questi due libri, 6 anni, Pancho Villa aveva sollevato il Nord ed Emiliano Zapata lanciando la sua proclama “la terra appartiene a chi la lavora”, aveva sollevato il Sud.
Tutto il Messico era in fiamme.
Erano populisti pure gli incendiari Villa e Zapata nonché la prima rivoluzione del XX secolo?
Comunque, è del tutto evidente che lasciò un’eredità così enorme che, malgrado i suoi molti bemolli e tradimenti, continua ad essere rivendicata da tutta la sinistra messicana, inclusa quella zapatista.
Le poche cose dette mi portano ad affermare che il populismo non è una dottrina politica bensì un metodo.
Cosa hanno in comune l’argentino Perón ed il brasiliano Vargas, l’egiziano Nasser ed il guineano Sekou Touré, il cubano Martí ed il ghanese Nkrumah, il colombiano Gaitán ed il libico Gheddafi o il nicaraguense Edén Pastora?
Penso il metodo. E poco altro.
Un metodo nato dallo stabilimento di un rapporto diretto tra un capo carismatico (il caudillo, il capo) ed una popolazione con relativamente scarsa tradizione politica condivisa.
Nell’America Latina, regione costruita e conservata in funzione d’interessi esterni e, quindi con una popolazione divisa scientemente in segmenti non comunicanti, questo metodo è sorto nel contesto determinato da una triplice crisi:
– del modello agro-esportatore,
– del liberalismo,
– del processo di democratizzazione interna. Questi 3 fenomeni sono stati resi ancora più acuti dall’intensificarsi dei processi di urbanizzazione, dalla prima crisi del modello d’industrializzazione dipendente e dall’emersione di una rivolta plebea che, tra molte altre, troverà espressione nella costituzione del primo Fronte popolare cileno (1936) e nella comparsa e immediata soppressione per assassinato del liberalismo progressista in Colombia (1948).
Il populismo latinoamericano anticipa è parla – non solo ai latinoamericani – di un problema già allora presente e che considero il primo problema politico del nostro tempo: l’atomizzazione e conseguente dispersione dei ceti popolari, due questioni che non possono essere capite senza riflettere sull’eterogeneità sociale e sulla necessità di costruire un’unità politica, sempre aperta e revocabile, quindi democratica.
Il populismo e la democrazia liberale sono certamente nemici intimi.
Il primo è autoritario; la seconda elitaria.
Il populismo privilegia l’identificazione, la democrazia liberale, la rappresentanza.
Al primo interessa l’incarnazione del popolo nel suo leader, il soggetto che gli dà la vita. Nella seconda, la costruzione di una istituzionalità adeguata per costringere sia le azioni del leader che della popolazione, all’interno di un contesto rigidamente definito.
Ma la democrazia liberale non è, neppure alla lontana, la sola forma di democrazia possibile.
E, per quanto riguarda il populismo, sebbene mi senta politicamente molto lontano, non lo considero né un pavimentatore del fascismo né, tantomeno, una forma di fascismo.
Intendo ritornare con maggiore calma su tutti questi aspetti. Per adesso, a chi fosse interessato suggerisco la lettura dei vecchi testi analitici del liberale argentino Torcuato Salvador di Tella, particolarmente di “Huachipato et Iota” (Centre National de la Recherche Scientifique, CNRS, 1967).
Nella seconda parte di questa proposta di riflessione, se la stessa si rivelerà interessante, mi occuperò specificamente del “capo”, ovvero della creazione più o meno naturale di ciò che, secondo il dizionario oxfordiano, è “diretto all’esaltazione demagogica delle qualità e capacità delle classi popolari”.

Rodrigo Rivas