Internazionale

Israele e l’inefficacia nel diritto internazionale

La politica di Israele nel contesto internazionale ha generato profonde divisioni e ha messo a dura prova la credibilità delle norme del diritto internazionale e degli organismi preposti al loro rispetto. Israele ha violato ripetutamente le risoluzioni delle Nazioni Unite, sia dell’Assemblea Generale che del Consiglio di Sicurezza, senza mai subire sanzioni significative, godendo così di una sorta di impunità di fatto. Sono infatti, oltre 70 le Risoluzioni emesse dall’ONU che condannano l’operato di Israele[1] per violazioni del diritto internazionale che sono state regolarmente disattese, senza alcuna conseguenza. Questo ha creato gravi effetti, soprattutto nel corso dell’ultimo anno: affinché le norme internazionali abbiano valore, devono essere accompagnate da atti concreti in caso di violazione. Israele è un esempio emblematico di come, in assenza di sanzioni, le regole possano ridursi a semplici principi teorici, privi di reale efficacia. La Dichiarazione di fondazione dello Stato di Israele del 1948 prometteva giustizia, uguaglianza e libertà, ma nel tempo queste si sono rivelate parole vuote. Al contrario, la Legge Fondamentale n. 14 del 2018 ha evidenziato una discriminazione di base, affermando il diritto all’autodeterminazione esclusivamente per il popolo ebraico, escludendo di fatto gli altri gruppi etnici, in particolare i cittadini israeliani di origine palestinese scampati alla Nakba (la Catastrofe del popolo palestinese).

L’atteggiamento di Israele nei confronti della questione palestinese ha ulteriormente complicato la situazione. Dopo la Nakba del 1948, Israele ha costantemente ampliato i suoi confini, appropriandosi di ulteriori territori palestinesi oltre a quelli previsti dalla generosa proposta di spartizione iniziale prevista dalla Risoluzione ONU 181 (carta 1) e dal 1967 occupa illegalmente i Territori palestinesi della Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est (carta 2). Queste azioni sono state accompagnate da una continua violazione delle norme internazionali e da un mancato rispetto delle decisioni delle Nazioni Unite. Israele ha mostrato ostilità verso l’ONU non solo ignorando le sue risoluzioni, ma anche attraverso gesti simbolici di disprezzo, come il pubblico dileggio della Carta delle Nazioni Unite e la recente dichiarazione di persona non grata in Israele per il Segretario Generale Antonio Guterres. Pochi mesi fa, l’agenzia UNRWA, che si occupa dei rifugiati palestinesi, è stata persino etichettata come un’organizzazione terroristica e messa al bando, con gravi conseguenze per milioni di palestinesi che dipendono dai suoi servizi per cibo, istruzione e assistenza sanitaria.

La relazione di Israele con gli organi di giustizia internazionale presenta diverse problematiche. Le decisioni della Corte Internazionale di Giustizia e della Corte Penale Internazionale sono state sistematicamente ignorate. Per esempio, l’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia del gennaio 2024, che indicava la possibilità di un genocidio in corso a Gaza e richiedeva misure per limitarne i danni, è stata completamente trascurata. La Corte ha più volte sollecitato la fine delle offensive militari e il rispetto dei diritti dei palestinesi, ma senza risultati concreti. Nel settembre 2024, l’Assemblea Generale dell’ONU ha persino esortato gli Stati membri a interrompere qualsiasi forma di cooperazione economica e militare con Israele, ma l’efficacia di queste richieste si è imitata a blande pressioni politiche più formali che sostanziali da parte della comunità internazionale.

In questo scenario, il boicottaggio economico di Israele da parte della comunità internazionale, inizialmente percepito come un diritto politico, è progressivamente divenuto un obbligo legale. Tuttavia, tale strumento incontra numerosi ostacoli legati a interferenze politiche e difficoltà giuridiche. I procedimenti avviati contro i leader israeliani presso la Corte Penale Internazionale (CPI) sono avanzati sino a oggi con estrema lentezza, ostacolati da forti pressioni esercitate da potenze come gli Stati Uniti e la Germania.

Questo contesto evidenzia un doppio standard nella giustizia internazionale. Da un lato, casi come l’emissione di un mandato di cattura per Vladimir Putin per crimini di guerra in Ucraina sono stati gestiti con rapidità; dall’altro, la lentezza delle procedure contro Israele alimenta un crescente senso di ingiustizia. Tale situazione è ulteriormente aggravata dal veto degli Stati Uniti che ha bloccato regolarmente ogni Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per un cessate il fuoco, impedendo progressi significativi. Come nel caso dell’ultima Risoluzione andata in votazione il 20 novembre scorso il cui testo, che richiedeva “un cessate il fuoco immediato, incondizionato e permanente” a Gaza e “il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi” (palestinesi e israeliani, ndr) e un “ingresso sicuro e senza ostacoli per l’assistenza su larga scala”, ha ottenuto 14 voti a favore ma non è passata per l’opposizione Usa.

Negli ultimi giorni, tuttavia, qualche passo la giustizia internazionale ha iniziato a compierlo. Infatti, l’agenzia di stampa Ansa il 22 novembre ha diffuso la notizia del mandato di cattura della CPI contro esponenti di spicco del governo israeliano, come il Primo ministro Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della difesa Yoav Gallant per crimini di guerra e contro l’umanità, “dopo più di un anno di guerra e 44.000 morti fra i palestinesi” segnando un punto cruciale nella questione.

L’idea di espellere Israele dall’ONU sta guadagnando supporto tra giuristi e membri della società civile. Questa proposta, che si basa sull’articolo 6 della Carta delle Nazioni Unite, prevede che uno Stato che viola in modo persistente i principi fondamentali dell’organizzazione venga espulso. Anche se il veto dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, come gli Stati Uniti, potrebbe rendere difficile questo processo, si pensa che una votazione a maggioranza dell’Assemblea Generale potrebbe superare tale ostacolo, come è già successo in passato. Un provvedimento del genere rappresenterebbe un messaggio forte e potrebbe essere il primo passo verso un rinnovamento delle Nazioni Unite, invocato da molti esperti per ripristinare l’autorità del diritto internazionale e ridare credibilità agli organismi multilaterali.

In conclusione, in un ottica risolutiva è fondamentale smettere di considerare le azioni di Israele come inevitabili conseguenze del senso di colpa dell’Occidente per la Shoah. Come sottolineava il celebre scrittore palestinese Edward Said, i palestinesi sono “vittime delle vittime”. È tempo di sostenere gli israeliani che si oppongono a questa politica, di seguire le indicazioni delle Corti internazionali, di imporre sanzioni e di interrompere ogni forma di cooperazione economica e militare con Israele. Solo attraverso azioni concrete sarà possibile ripristinare il rispetto delle regole internazionali, garantire giustizia per le vittime palestinesi, trovare una equa soluzione alle legittime aspirazioni di autodeterminazione del popolo palestinese e lavorare verso un ordine globale più giusto.

Alessandro Piazza

Analisi a cura del Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati – GIGA

 

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Carta 1: il piano di partizione Onu della Palestina adottato dalla Risoluzione 181
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Carta 2: i territori conquistati da Israele con la Guerra dei 6 giorni del giugno 1967

Note:

  1. https://donpaolo.it/2023/10/israele-70-anni-di-risoluzioni-onu-disattese/