Kabul, il disastro e le mutazioni della guerra
Nel 1999, quando esce la prima edizione cinese di Guerra senza limiti, dei colonnelli dell’esercito popolare cinese Xiao Liang e Wang Xiansui, gli Stati Uniti sono al culmine del funzionamento del modello politico e militare uscito dalla guerra fredda. Dopo la vittoria nella prima guerra del Golfo e la guerra del Kosovo si erano imposte almeno due varianti di un modello politico-militare globale con al centro l’unica superpotenza sopravvissuta alla guerra fredda: la grande concertazione internazionale tra stati e istituzioni sovranazionali (guerra del Golfo) e la coalizione militare più ristretta a supporto logistico e aereo alle truppe di miliziani sul campo (guerra del Kosovo). Nel 2001, subito dopo l’attacco alle torri gemelle, la risposta americana in Afghanistan sembrava essere efficace proprio perché, con la presa di Mazar-i-Sharif, l’alleanza del nord antitalebana, pareva reinterpretare il ruolo dei miliziani a terra entro uno schema militare, e politico, vincente collaudato dalla vittoria Nato in Kosovo. Allo stesso tempo il grande campo di forza paragonabile alla guerra, quello finanziario, con gli anni ’90 della deregolamentazione del settore diretta da Bill Clinton, faceva crescere gli Usa come superpotenza del denaro a livelli, fino a quel momento inimmaginabili anche prima del grande crack del ’29. E anche qui, durante l’invasione dell’Afghanistan, gli Usa avevano dimostrato la loro forza con l’immissione di denaro nel sistema finanziario, per sostenere l’impatto della crisi delle torri gemelle, governata dalla Federal Reserve di Alan Greespan. Fino al momento dell’uscita di Guerra senza limiti gli Usa sono il modello, e il soggetto egemone, per la guerra globale sul campo e per quello della guerra finanziaria sui mercati.
Al momento dell’uscita della prima edizione in inglese della traduzione del libro dei due colonnelli cinesi, che prende il titolo di Unrestricted Warfare, presso un semisconosciuto editore panamense, già si impongono le torri gemelle in copertina, eravamo pochi mesi dopo l’11 settembre, ma anche un sottotitolo che cerca di rafforzare, in piena stagione Bin Laden, l’effetto terrore per il lettore statunitense: “il piano strategico cinese per distruggere l’America”. Da allora a seconda delle traduzioni, e delle prefazioni, l’edizione statunitense di Guerra senza limiti oscilla tra due sottotitoli: questo appena citato e “scenari di guerra per l’era della globalizzazione”. Se vogliamo – vista la tesi principale del libro che sostiene che il conflitto sul campo sia sempre meno decisivo per la vittoria in una guerra – entrambi i sottotitoli contengono importanti granelli di verità. Nel primo il declino del conflitto sul campo come elemento decisivo per vincere la guerra ricorda la capacità cinese di proteggere la propria area d’influenza in un modo che non sfoci in un catastrofico conflitto con gli Usa; nel secondo sono le nuove modalità tecnologiche di risoluzione del conflitto, come la guerra finanziaria, che vengono evidenziate come espressioni dirette della seconda globalizzazione, quella apertasi con la caduta del muro di Berlino.
La guerra afghana nasce quindi e si sviluppa, lungo un paio di decenni come un conflitto classico della Guerra senza limiti. E qui giova ricordare una ricostruzione apparsa su Libération nell’autunno del 2001: subito dopo l’insediamento della presidenza Bush jr. nasce un conflitto, tra talebani e americani sulla proprietà delle risorse naturali afghane e sulla costituzione delle società di nascenti pipeline. Le tensioni tra americani e talebani su questo, con il passare dei mesi, si fanno così tese che gli Usa minacciano, ad agosto 2001, severe ritorsioni militari in Afghanistan se non passassero le loro proposte. Pochi giorni dopo arrivano le torri gemelle poi l’invasione dell’Afghanistan. Insomma nell’Afghanistan d’inizio anni 2000 un classico conflitto dell’imperialismo della prima globalizzazione, quello sullo sfruttamento delle risorse naturali, non ha avuto un esito da prima globalizzazione (l’occupazione militare da parte della potenza occidentale) ma una durissima risposta asimmetrica (le torri gemelle) alla quale è seguita una occupazione militare di venti anni che, proprio sul campo, non solo non ha risolto l’esito a favore degli americani ma anche posto le basi per un finale tutto disastroso per Washington. Anche perché hai voglia di ammassare truppe in Afghanistan, e USA e alleati l’hanno fatto in modo scoordinato, ma il conflitto in quelle zone è sempre questione di piccoli numeri, con una morfologia del territorio che permette solo scontri a bassa intensità, con battaglie combattute solitamente da poche decine o poche centinaia di combattenti, nelle quali il gap tecnologico si riduce e si deve privilegiare l’imboscata (ottimo per chi su quei territori ci vive).
E, se è vero che non mancano i tentativi di confutazione di Unrestricted Warfare da parte degli analisti americani, l’approccio in Afghanistan da parte degli USA è stato quello di chi si rende conto che, nonostante le truppe ammassate, il conflitto sul campo è sempre meno decisivo per vincere una guerra: allora via, oltre che con stragi inenarrabili da parte degli occidentali, con il nation building, 3000 miliardi di dollari in 20 anni che hanno alimentato l’economia afghana dei servizi, i programmi sanitari ed educativi. Entro una strategia non dissimile, seppur condotta con minori mezzi da uno stato morente, da quella dell’URSS degli anni ottanta; nation building e progressiva costituzione di un esercito afghano in grado di tenere il terreno. Il punto è che, oltre alla consueta capacità della guerriglia di tenere il campo contro un esercito occupante (anche se altamente tecnologico come quello USA), la vera vittoria talebana sta nella spontaneità del tessuto sociale afghano nel che non si è americanizzato sul piano economico avendo, invece, afghanizzato l’economia degli”aiuti” provenienti dall’estero. Ed è qui che gli Usa sono stati ingoiati, e sconfitti, in un fattore decisivo della guerra che non è quello sul campo: quello della direzione dei flussi economici e finanziari. Chi si occupa sul piano antropologico di questi temi sa come gli “aiuti” dall’esterno stravolgano il tessuto economico e sociale di una nazione mentre qui, in Afghanistan, è avvenuto il contrario visto che le risorse finanziarie, provenienti dall’esterno, sono state allocate secondo le regole e i giochi di potere locali (secondo alcuni grazie all’intercessione dei servizi pakistani ma cambia poco). Così è venuta meno la ragione strategica del nation building, costruire un Afghanistan economicamente ostile ai talebani, e, una volta vicino il ritiro delle forze USA, gli occidentali si sono trovati debolissimi sia sul piano militare che su quello della forza economica che legittima l’intervento e stabilizza il paese. In queste condizioni il disastro di questi giorni non è incomprensibile. L’altro elemento di sconfitta Usa è che la strategia, in una guerra asimmetrica molto complicata, è stata decisa, oltre che da una governance militare demenziale tra alleati, soprattutto dall’esigenza di alimentare il conflitto come gigantesco bancomat del complesso militare-industriale americano. In una dissipazione di risorse, e in un nonsense strategico, di quelle dimensioni la disfatta non può essere una sorpresa.
E così gli USA sono entrati nei conflitti degli anni 2000 come la superpotenza egemone, sul piano politico-militare, ed entrano nel 2020 con una sconfitta storica che imporrà cambiamenti strategici di serie proporzioni pena l’isolamento politico-militare di Washington. La mancata comprensione della guerra senza limiti – che non significa vincere con mezzi illimitati ma saper seguire il conflitto dalla dimensione del campo fino a quella che appare come una dimensione non bellica – è costata cara alla superpotenza vincitrice della guerra fredda.
Due righe sulla partecipazione italiana costata, purtroppo, qualche decina di morti. La prima che i vari governi di ascari che si sono succeduti a Roma, una lezione l’hanno lasciata. Mandare poche migliaia di soldati nella regione di Herat, grande quanto il nord Italia, la dice lunga sulla realtà di una occupazione che, per larghi tratti, è stata solo sulla carta. La seconda è che l’Afghanistan almeno è servito a liquidare un tipo di sinistra italiana, che si è autoaffondata quando era al governo del paese durante una delle fasi di occupazione del paese asiatico, che al di là della retorica, pure di basso profilo, era solo occupazione di potere.
Infine, nei trentasei stratagemmi dell’arte militare cinese il quindicesimo recita “costringi la tigre a lasciare la sua tana di montagna”. Pur essendo il nemico, i talebani, proprio sulla montagna gli USA, una intelligenza militare altamente complessa, hanno fatto si che proprio i loro nemici li facessero scendere dalla loro montagna fatta di alta tecnologia per poi sconfiggerli. Una delle lezioni di due decenni di questo secolo che hanno cambiato la faccia della politica, della guerra, dell’economia e della democrazia. Mentre, come in uno stratagemma cinese, tutto pare più o meno come prima.
Per codice rosso, nlp