Territorio

La calda estate dei Centri commerciali e la fine dei luoghi antropologici

I centri commerciali si definiscono nonluoghi. Sono spazi di transito per consumare e comprare. Spazi creati per non esse abitati. Sono luoghi senza storia, anonimi, tutti uguali tra loro, sbocciati all’improvviso come funghi, nelle città o nelle periferie senza legame di appartenenza con il territorio. Con il tempo possono diventare, ahimè, ritrovi per gli anziani e per praticare attività ludico-sportive a pagamento. D’altra parte il tempo libero è una merce da usare per estrarre valore. La forza di gravità dei centri commerciali è poliedrica, attraggono per curiosità, per noia, per combattere la solitudine, o per riempire i vuoti esistenziali resi più intensi da una giornata uggiosa, piovosa o troppo calda ma è soprattutto dal desiderio di comprare merci o servizi forse anche superflui.
Marc Augé definisce i nonluoghi in contrapposizione ai luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Fanno parte dei nonluoghi sia le strutture necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (autostrade, svincoli e aeroporti), sia i mezzi di trasporto, i grandi centri commerciali, gli outlet, i campi profughi, le sale d’aspetto, gli ascensori eccetera. Spazi in cui milioni d’individualità s’incrociano senza entrare in relazione (Wikipedia).
Oggi il peso economico di questi centri commerciali incide per circa il 4% del PIL ma negli ultimi anni ha dovuto fare i conti con l’epidemia e lo sviluppo del commercio elettronico che ne ha ridotti i profitti. Nonostante il calo di profitti e la concorrenza, in questi giorni alle ex officine di porta a mare della nostra città è stato celebrato il mito del centro commerciale come un importante leva per lo sviluppo del territorio. Il tambureggiamento mediatico ha spinto verso le ex officine centinaia di curiosi ma nessuna voce critica si è levata contro la cementificazione dell’estinto cantiere L. Orlando. Il mito del nonluogo ha sbiadito memorie storiche, recise appartenenze, legami, identità, ricordi, relazioni individuali e collettive. La cementificazione ai fini residenziali e commerciali ha deterritorializzato-riterritorializzato parti consistenti dell’ex infrastruttura cantieristica e svuotato il luogo di senso e di appartenenza. I flussi e i processi dell’economia globale che segnano la svolta neoliberista ha portato ad un decadimento culturale, all’omogeneizzazione culturale ed economica e influenzando pesantemente le politiche urbanistiche, mutando il profilo l’antropologico e urbano-paesaggistico nel nostro territorio. La politica locale in pratica ha sposato, senza alcuna vera partecipazione popolare, un modello di sviluppo territoriale che ha irrobustito i centri commerciali e amplificato la metamorfosi urbanista correlata alla insensibilità ambientale. Ha propagandato la valorizzazione urbanistica dell’area degli ex cantieri L.Orlando, lodando esteticamente quello già costruito e quello che ancora si dovrà costruire per il forte valore propulsivo in termini di ricadute economico-commerciali e turistiche, anche in termini occupazionali. È questa è senza dubbio, la rivalutazione più radicale che ha subito la nostra città negli ultimi vent’anni. Quello che si è realizzato non si sarebbe costruito se si fosse agito al di fuori dell’economia formale e in modo partecipativo , come ad esempio : l’urbanistica partecipativa, l’uso civico delle risorse naturali e dei beni demaniali, l’open source dei data base statistici, il turismo sostenibile, il governo collettivo dei beni pubblici, la progettazione infrastrutturale partecipativa, l’autogestione, l’autorganizzazione, la cooperazione-cogestione delle infrastrutture dismesse, la gestione in chiave collettiva dei beni di proprietà comunale. Tutti preziosi strumenti ma frutto di culture non conformi ai principi che regolano l’economia mondializzata. Quello che si è acclamato in questi giorni ci fornisce l’istantanea di come stanno tragicamente le cose nel nostro territorio. Ciò nonostante se rovesciamo la prospettiva per guardare dietro il muro della pubblicità mediatica, vediamo un’altra realtà, una realtà oscurata dalla retorica politica. Una realtà dove i luoghi oggetto di trasformazione urbana sono visti come luoghi antropologici da salvaguardare e difendere, in altre parole come un prodotto culturale accumulato negli anni. Un luogo caratterizzato da un certo tipo di paesaggio che si è storicamente determinato, abitato da identità storiche, dimensioni di senso, soggettività individuali e collettive. Un luogo in cui il legame di comunità con la terra crea appartenenza, dimensioni simboliche e di senso. In poche parole non uno spazio anonimo e omogeneizzato ma uno spazio dove “la logica della singolarità non è una logica dell’esclusione ma della condivisione”. Un luogo ricco di differenze di pari dignità che dialogano tra loro, anche se parlano lingue diverse. Questo spazio a più dimensioni legate al luogo è stato estinto antropologicamente. “La megamacchina dell’economia globalizzata cancella ogni identità culturale locale sterminando cultura, diversità, natura”. Inoltre “la cancellazione dei tratti differenziali da luogo a luogo comporta una manomissione geografico-paessaggistica, degrado ecologico ed estetico come correlato dello sviluppo economico, alla perdita di valori simbolici inerenti alla singolarità dei luoghi”. Non solo “ il nostro territorio deve per profitto essere omogeneizzato, computabile distruggendo le sue alterità”. Pertanto voglio criticare questo modus vivendi della politica del territorio, incapace culturalmente di cogliere la dimensione antropologica e ambientale dei luoghi e di andare al di là delle pure apparenze di superficie, usate per estrarre valore dai territori. Questa politica ancella delle dinamiche della globalizzazione ha soffocato “il tenero viso dell’erba” nel cemento. È un grave errore valorizzare culturalmente la gentrificazione dei luoghi correlata alla costruzione in serie di quartieri residenziali e di centri commerciali privi di appartenenza alla terra oggetto di trasformazione urbana. La difesa della “fisognomica antropologica” dei luoghi dovrebbe essere uno scopo indeformabile e programmatico della politica. Occorre superare le logiche estrattive del profitto e comprendere che i costrutti culturali possono assumere molteplici forme, rintracciabili per chi sappia coglierli, sia nei paesaggi urbani sia in quelli naturali e industriali. I processi di deterritorializzazione-riterritorializzazione, “mutano la natura del luogo e dei soggetti e della comunità che lo abitano, in tale processo non c’è salvaguardia dei legami affettivi e di senso verso la terra”. Il regresso culturale indotto dal carattere economico-estrattivo di certe politiche è evidente. Siano di fronte ad una vera e propria rivoluzione contro culturale spacciata per nuova cultura, ma, di fatto, la “deculturazione passa con la cancellazione della storia. Tale opera di “sbiancamento” facilita l’introduzione di modelli di sviluppo alogeni nati per estrarre valore da ogni cosa natura compresa e sfruttata a fini commerciali e turistici”. Ci si può stupire di come il nostro mondo legato alla percezione di luoghi sia cambiato in peggio. Con la perdita del legame con la terra perdiamo non solo il senso di appartenenza di noi stessi ma anche di poter esercitare come comunità un vigoroso dissenso per rivendicare diritti di difesa del territorio come costrutto culturale collettivo e di senso, di tutte le sue diversità che storicamente l’hanno abitato e caratterizzato si sono legate e integrate alla terra. Di conseguenza, perduti i nostri legami culturali con la terra, vaghiamo nudi nei nonluoghi senza appartenenza e identità, trasportati dai flussi del consumo. Il cambiamento si riflette anche nel nostro modo di esprimerci, nel nostro vocabolario individuale, collettivo e relazionale. Ciò incide sulle nostre strutture di pensiero e di analisi critica della realtà, sulla simbologia e sui valori che utilizziamo come riferimento nella nostra vita. La degenerazione linguistica e di pensiero rende necessaria una sorta di redenzione per recuperare le radici perse con il proprio territorio, dove riconoscersi come luogo del proprio abitare in tutte le dimensioni sociali, politiche, economiche e culturali, in modo da ridare respiro e spessore alla capacità di pensare con la nostra testa, entro una dimensione di senso e di appartenenza al di fuori del pensiero unico dominante. Purtroppo oggi tale obiettivo sembra impossibile da raggiungere senza un’adeguata organizzazione che valichi i confini degli stati nazionali che e si ponga contro le logiche della mondializzazione deregolamentata. Così iniziamo ad appassire poco per volta ogni giorno sia individualmente sia collettivamente, sepolti dal cemento e la natura e noi con esso.
{D@ttero}
Bibliografa di spunti e riferimenti:
La crisi della territorialità e dell’ appartenenza E.Fiorani da Orizzonti della geofilosofia terra e luoghi nell’epoca della mondializzazione.
Il turismo di massa e usura del mondo R.Christin
Oltre il Turismo S.Gainsforth
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