Visioni

La legge è uguale per tutti? “Giurato n. 2” di Clint Eastwood

Il vecchio Clint, a novantaquattro anni, non sbaglia un colpo. Giurato n. 2 (Juror , 2024), la recente pellicola realizzata da Eastwood, è un riuscitissimo affresco della società e della mentalità statunitense. È un film giudiziario che inchioda e attanaglia lo spettatore: da una parte c’è un gruppo di giurati chiamati a decretare l’innocenza o la colpevolezza in un processo di omicidio, dall’altra c’è l’imputato, James Sythe (Gabriel Basso), che già aveva avuto a che fare con la giustizia, soprattutto per motivi di droga. Per cui, sulla sua colpevolezza, non ha dubbi l’avvocata Faith Killebrew (Toni Collette), che lo vuole inchiodare. Nella giuria c’è invece Justin Kemp (che ha lo sguardo glaciale di Nicholas Hoult), un giovane padre di famiglia (con problemi di alcool alle sue spalle), che comincia a instillare nei giurati alcuni ‘ragionevoli dubbi’. Lo sguardo attento del regista si focalizza su uno spaccato sociale degli Stati Uniti contemporanei – la cittadina di Savannah, in Georgia – che assume un valore quasi universale. La legge è uguale per tutti? – si chiede Clint, neanche troppo sotto le righe; chissà. Perché James Sythe, fin dall’inizio, appare marchiato come colpevole dell’omicidio della sua compagna Kendall (ma sui particolari della trama non vorremmo svelare di più): a decretarlo non è soltanto l’avvocata Killebrew, è l’intera società, sulla quale la statua della dea Giustizia, bendata, svetta in alcune immagini che ritraggono dall’esterno il palazzo del tribunale. Seguendo un modello narrativo che molto deve a La parola ai giurati (12 Angry men, 1957) di Sidney Lumet, il film tende a insinuare l’elemento del dubbio che, all’inizio, sembrava non sussistere minimamente.

Ma, come già detto, il personaggio di James appare condannato fin dall’inizio soltanto per il fatto di essere un ‘marginale’, un individuo che conduce la sua esistenza lontano dalla parvenza di perbenismo che sembra avvolgere tutti gli altri. Certo, fra i giurati c’è anche un afroamericano che non sembra passarsela troppo bene, c’è anche un giovane un po’ ‘strafatto’, mentre lo stesso Justin è un alcolista ma tutti fanno parte di un mondo in cui le apparenze valgono più delle essenze, se così si può dire: vengono tutti da un mondo che esalta il perbenismo familistico statunitense. E, in provincia, tale sentimento perbenista sembra essere anche ben più radicato, quella stessa provincia che recentemente ha scelto ancora una volta il vecchio e rassicurante (per loro) Donald. Perché questo mondo ha una paura matta di qualsiasi diverso e James Sythe è un diverso, bollato come tossico, ubriacone, violento, capacissimo di uccidere la propria compagna, un tipo poco raccomandabile per la mentalità dei giurati, per l’avvocata Killebrew, per quella stessa società che ha portato ancora una volta Trump al soglio presidenziale (ma avrebbe portato indifferentemente anche la Harris). Il film prosegue con un ritmo teso, senza mai allentare la presa sull’attenzione dello spettatore, con improvvisi e inaspettati colpi di scena.

La dimensione teatrale fortemente presente in La parola ai giurati – ma anche in un altro capolavoro di cinema giudiziario come Testimone d’accusa (Witness for the Prosecution, 1957) di Billy Wilder – nel film di Clint si stempera in una trama più dinamica, che segue i personaggi nelle loro vicende e nei loro spostamenti, soprattutto Justin Kemp. Quella provincia in cui si muovono i personaggi, con le sue case perfette e ben tenute, coi loro perfetti giardini dove si annidano perfette famiglie assomiglia tanto a quella che vediamo, ad esempio, nel riuscito horror Barbarian (2022) di Zach Cregger, ambientato nell’hinterland di Detroit, con le sue case accoglienti, tutte allineate una accanto all’altro ma che celano un orrore indicibile fatto di incesti e abusi che emerge dal passato, direttamente dagli anni Ottanta di reaganiana memoria. E non è un caso che la periferia di Detroit, in cui si sono trasferiti in massa immigrati asiatici, sia anche lo sfondo che vediamo in un altro grande film di Eastwood, Gran Torino (2008), che Walt Kowalski (Clint Eastwood) percorre con la sua Ford Gran Torino del 1972.

È un universo tremendamente ‘normale’ quello che vediamo in Giurato n. 2, un mondo regolato – sembra – in modo perfetto e meccanico da una Legge che è uguale per tutti. Ma è anche una legge che, kafkianamente, lascia fuori dalla sua porta chi è ‘anomalo’ o ‘diverso’, chi devia in qualche modo dai suoi dettami, che sono, poi, i dettami su cui si fonda la società benpensante di cui si è parlato. Ma, poi, sarà davvero uguale per tutti questa legge?

gvs