La nociva utopia di don Milani
La nociva utopia è un articolo di Marcello Veneziani apparso su “La Stampa” del 27 maggio scorso, scritto in occasione delle celebrazioni dedicate alla vita e alla pedagogia di don Lorenzo Milani. Il testo è ritenuto da molti, in modo retorico e fuorviante, positivamente sorprendente e fuori dal coro.
Non a caso, le retoriche di questa nuova classe dirigente italiana sono l’esatta proiezione di una ideologia datata, conservatrice e statica che ha caratterizzato da sempre i settori oltranzisti della destra nostrana, ben consolidata laddove il bel canto dei profeti dell’italianità assume i contorni di un visionario ritorno al passato. Di solito, però, le visioni hanno una prospettiva futura: oggi sembrano invece inerpicarsi difficoltosamente sulle vestigia di quel che resta, senza un pensiero critico e davvero moderno. Al contrario, si ha un’idea sempre fedele a pochi esempi di uno schema sociale, economico e politico che in realtà non ha alcuna struttura di progetto. Bene sarebbe considerare che il futuro possa poggiarsi sulle solide basi di quanto i posteri ci hanno tramandato, da cui si dovrà ripartire con una seria capacità nel plasmare le trasformazioni sulle innovazioni e sui radicali cambiamenti avvenuti. Per questi motivi le considerazioni di Veneziani appaiono fragili, proprio dove le contestazioni sembrano innestarsi su slogan e temi propri di epoche che hanno gettato questo Paese, in passato, nell’autoritarismo all’olio di ricino.
Secondo l’insigne voce di Veneziani, intervenuto nel centenario dalla morte di don Milani, bisogna avere il rispetto che si deve agli idealisti generosi, in buona fede; ma insieme, dice, riconosco i danni della sua amorosa utopia. Definito e derubricato il parroco a personaggio di culto della nostra scuola democratica dal ‘68 in poi, lo scrittore ritiene che la pedagogia di don Milani sia negativa, nociva e controproducente: per Veneziani è l’esempio ideale e pratico di un modello che preconizzava una scuola non dei ricchi ma di tutti, col professore uguale ai suoi alunni, dialogante, senza bocciature e senza autorità, perché “l’obbedienza non è una virtù”. Non ci sarebbe nulla da aggiungere, ma Veneziani ne fa una questione di modelli: nulla di cui sorprendersi, perché contrappone il sistema didattico-pedagogico della scuola Gentile alla scuola di oggi, intrisa dei valori espressi da don Milani. Egli sostiene che, attualmente, la scuola faccia assai più schifo della scuola di allora; non premia i meriti e le capacità, non educa, non stimola alla cultura e non suscita spirito di missione nei docenti; non produce affatto alunni più liberi ed uguali. È una scuola che ha ingigantito le distanze tra ricchi e poveri; sfasciata la scuola pubblica, i benestanti hanno mandato i loro figli alle private. Come già avvenuto in altri interventi pubblici dei nuovi profeti della politica italiana sulle questioni valoriali da cambiare nel nostro Paese, abbiamo compreso che il metodo e il percorso da seguire nella nuova pedagogia, ad esempio, sono quelli darwiniani, deterministi e fortemente (retoricamente) meritocratici: spazi incantati dove trovano posto i migliori, quelli più forti mentalmente e con capacità di sopportazione all’umiliazione, come ebbe a dire il ministro dell’Istruzione e del Merito poche settimane fa. La parola più inflazionata e, dunque, svuotata del suo senso più alto, è proprio il merito che, a guardare nelle specifiche funzioni ricoperte dalla maggior parte dei nostri dirigenti politici, non sembra rispecchiare l’intento: questi ultimi spesso vengono nominati per familismo o qualità di altro genere, che nulla hanno a che fare con le cosiddette competenze o con la meritocrazia.
Per Veneziani il riscatto sociale avviene con lo studio del latino, ad esempio, perché la conoscenza di questa lingua antica non era una forma di oppressione di classe, come sostenevano gli allievi di don Milani, ma un mezzo per emanciparsi, persino un mezzo di rivalsa rispetto ai ricchi, pigri, incolti e viziati. La selezione dei più bravi aveva permesso il loro riscatto, la loro affermazione. Inoltre, grazie all’abolizione dei grembiulini come strumento di oppressione e irreggimentazione, la scuola di oggi fa risaltare le differenze di classe tra i figli griffati della classe agiata e i poveracci di borgata (essendo un docente della primaria non mi risulta che siano stati aboliti i grembiulini!). La conoscenza della lingua italiana era un modo per uscire dalla loro origine umile e contadina e integrarsi. La valorizzazione del dialetto e del gergo quotidiano, che voleva don Milani, invece li restituisce alla loro condizione di partenza e al turpiloquio delle periferie degradate. Livellando sì, ma verso il basso: anche i figli di papà usano il turpiloquio sgangherato della tv e di borgata. Dunque, in generale, secondo la visione di Veneziani, nelle periferie degradate è consolidato e diffuso usare il turpiloquio dialettale grazie al livellamento verso il basso degli apprendimenti e, i cosiddetti figli di papà, si adeguano a tale comportamento linguistico per colpa della televisione e il lessico della borgata. Su quale teorema si possano sostenere tali teorie rimane un arcano di complessa soluzione, considerando che il nostro interlocutore omette di dire che la televisione omologante nel lessico linguistico e culturale è fenomeno che parte da lontano e che riceve il giusto consolidamento, in questo percorso di abbrutimento valoriale, da uno dei massimi interpreti del disastro culturale italiano che non era certo un pericoloso libertario: Silvio Berlusconi.
Veneziani contesta il testo di don Milani più famoso e letto, Lettera a una professoressa. Esso viene scandagliato e citato con una serie di estrapolazioni che, furbescamente, alterano il significato delle questioni sostenute e pongono l’accento sul peccato originario su cui si baserebbe tutta l’opera: la menzionata selezione suicida, così definita da don Milani. La selezione, invece, sarebbe il metodo più importante per formare i poveri e i ricchi allo stesso modo! Il gentiliano Veneziani può legittimamente e incontestabilmente sostenere la completezza di un sistema educativo progettato magistralmente dal filosofo nato a Castel Vetrano, in provincia di Trapani nel 1875, aderente al pensiero hegeliano e amico di Benedetto Croce, ma il tentativo di cancellare e apostrofare come nocivi gli aspetti valoriali di un prete che ha cercato in tutti i modi di investire, in termini di conoscenze e formazione, anche su coloro i quali, ultimi e derelitti non avevano la possibilità di studiare e formarsi, sembra un’operazione alquanto opinabile. A Veneziani, dunque, non resta che citare la questione selettiva, più volte segnalata da don Milani come tratto negativo di una pedagogia caratteristica del passato, classista e violenta: Una scuola che seleziona distrugge la cultura (p.105); La selezione è un peccato contro Dio o contro gli uomini (p.106) e il frutto della selezione è un frutto acerbo che non matura mai. Il giornalista-scrittore si pone alcune domande, stigmatizzando ancora una volta, con audace retorica, quanto il modello di don Milani dilatasse la forbice fra i derelitti e i figli di papà, quest’ultima espressione citata quasi con compulsiva ossessività: Quanto male hanno fatto queste parole, pronunciate in buona fede da un generoso utopista, alla scuola italiana? Ogni selezione per lui era classista ma se non premi i più capaci e meritevoli, alla fine azzeri la scuola. E i più fortunati, in assenza di meritocrazia, sono i figli di papà, che dispongono di più mezzi, più conoscenze, più aiuti. Sostanzialmente, Veneziani afferma che coloro i quali si dedicano con successo allo studio, pur avendo disagi di tipo economico e sociale, hanno la possibilità di rivalersi su coloro i quali possono permetterselo perché ricchi: rivalsa è un termine che contiene una dose di amara violenza, quasi da far immaginare a una vendetta di coloro i quali abbiano uno svantaggio su chi, invece, per fortuna o altro non ne abbiano. Nella elencazione dei danni (copiosissimi) compiuti da don Milani nella scuola italiana, Veneziani prosegue, chiedendosi: Quanto male hanno fatto alla scuola le sue tirate contro la cultura, la filosofia, la pedagogia, la letteratura, i classici e Dante, la sua idea di ridurre i libri a uno solo da leggere collettivamente come in un soviet dell’ignoranza? Quanto male ha fatto alla scuola il suo disprezzo verso la cattedra, i prof, i voti e i registri, il suo auspicio di un sindacato genitori, la sua scuola assembleare fondata sul presente e sull’utilità, la demagogica convinzione che nel programma d’italiano ci stava meglio il contratto dei metalmeccanici. Lei signora (insegnante) l’ha letto? Non si vergogna? (da Lettere a una professoressa, p. 29).
È a questo punto che il progetto retorico audacemente strutturato da Veneziani tocca punti di insostenibile sopportazione, perché consapevolmente non contestualizza storicamente l’opera pedagogica di don Milani, non tiene conto dell’ambiente socio-economico in cui si perpetrava la sua opera di educatore, né si cura della visione che si basa sul recupero del disagio che, a differenza di quanto Veneziani sostiene, avveniva proprio perché esistevano classi sociali in condizioni economiche e atteggiamenti culturali di strutturata disparità, voluta proprio da chi deteneva il potere. Gravissima omissione perché voluta e celata dietro la solita boutade della destra più estremista e populista, tipicamente italiana, che si atteggia a protettrice degli ultimi contro i poteri forti e finanziari. Una retorica che è stata subito smascherata già dalle prime posizioni del governo guidato dal nostro presidente del consiglio Giorgia Meloni (si è auto-smentita su tutte le dichiarazione urlate prima che arrivasse al governo), in merito alla guerra russo-ucraina, ai rapporti con gli USA, alle relazioni con l’Europa, ai provvedimenti fiscali contro la progressività del sistema, contro i redditi di chi non ha la possibilità di arrivare alla seconda settimana del mese, contro il salario minimo, a favore dei poteri finanziari mondiali e via discorrendo, in una lista senza fine di azioni contro gli ultimi.
In questo momento storico fortemente mistificato dall’estrema destra da parte dei maggiori esponenti del governo, dalle questioni sulla lingua pericolosamente intrisa di anglismi alla riscrittura della figura di Dante come propugnatore ab origine di una cultura assolutamente di destra, dalla stomachevole rilettura di momenti storici drammatici (la strage di via Rasella fu compiuta da una banda musicale di anziani strimpellatori nazisti che all’occorrenza compivano stragi di inermi cittadini ben selezionati fra i cattivi), alle dichiarazioni sulla sostituzione etnica in un’Italia che sfrutta i migranti nelle fabbriche e nei campi di questo Paese dal nord opulento al sud povero, non meraviglia l’attacco “concentrico” di Marcello Veneziani, penna destrosa e mainstream del potere (altro che fuori dal coro), a un uomo di una statura così incommensurabile come don Lorenzo Milani che ci fa arrossire dalla vergona. Indicativo l’ultimo rigo del testo di Veneziani sulla presunta nociva utopia del prete, che si concretizza, in una disastrosa contestazione all’umanesimo di don Milani, certo con le sue contraddizioni e criticità, ma non da meritare considerazioni come queste: Don Milani va riconosciuto per la sua forte personalità e la sua grande idealità ma fu un cattivo maestro. A giudicare dai frutti, non dalle intenzioni. Non un maestro cattivo, al contrario, ma un cattivo maestro.
Durante le celebrazioni, a Barbiana, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, cattolico, ha definito don Lorenzo Milani un maestro, un educatore, una guida, un prete scomodo. Si ricordi che quest’ultimo fu un uomo che ebbe molti contrasti con l’establishment ecclesiastico e che coinvolse, comunque, nel dibattito sulla pedagogia e sulla lingua italiana, molti intellettuali dell’epoca. La sua visione pacifista (che oggi sarebbe un valore serio a cui far riferimento) entrò in rotta di collisione con le autorità governative e militari, essendo sostenitore dell’obiezione di coscienza e, per questo, processato per apologia di reato. La lettera scritta ai cappellani militari che avevano sostenuto l’obiezione come un riferimento in termini di valori al di fuori del comandamento cristiano dell’amore, gli costò cara. Una posizione assurda e vergognosa da parte dei cappellani che, addirittura, trovò il consenso delle alte autorità ecclesiastiche tanto che favorirono, in modo incontestabile, l’incriminazione di don Milani: aveva comunque trasmesso ai suoi alunni che ognuno è sovrano, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni. Quello che non dice Veneziani, appunto, è che la critica alle autorità non avveniva in modo generico e per caso, ma si radicava su un valore cristiano e umanissimo, quello di non uccidere e non partecipare a guerre contro nessuno perché fratricide e insensate.
Don Lorenzo Milani era nato nel 1923, figlio di genitori benestanti e colti, di madre ebrea (Alice Weiss) cugina di Edoardo Weiss, pioniere della psicoanalisi italiana e allieva di James Joyce, e padre professore universitario (Albano Milani Comparetti), anticlericale, figlio di un archeologo famoso. Dopo aver frequentato le scuole superiori, dal carattere insubordinato e vita da bohémien, volle dedicarsi all’attività di pittore. Successivamente, ebbe una breve parentesi artistica nello studio del pittore tedesco Hans-Joachim Staude e iscriversi all’Accademia di Brera, a Milano. La conversione avvenne nel 1943, mentre affrescava una cappella in una chiesa sconsacrata: nel mese di novembre dello stesso anno entrò a far parte del seminario maggiore arcivescovile di Firenze. Fu ordinato sacerdote nel Duomo di Firenze il 13 luglio del 1947. Dopo poche settimane dall’incarico, come vicario del parroco di Monterspertoli, per evidenti incompatibilità venne trasferito e confinato come cappellano nella parrocchia di San Donato Calenzano, un contesto ambientale e sociale arretrato con un tasso di analfabetismo e disagio sociale molto rilevanti. La chiesa era frequentata da gente bisognosa, braccianti, agricoltori, pastori: da questa esperienza scrisse il libro Esperienze pastorali, una analisi sullo stato della società italiana del dopoguerra. Il testo fu, all’inizio, accettato dalla dirigenza ecclesiastica e, successivamente, ritirato dalla pubblicazione per mano del Sant’Uffizio, nel 1958. Ancora spedito per punizione a Barbiana, una realtà di 120 abitanti, fondò la sua scuola per operai, contadini e gli ultimi, in una società in pieno sviluppo economico post-bellico.
Tornando al senso del nostro discorso, alle critiche mosse da Veneziani, si potrebbe facilmente rispondere. Oltre all’importanza della considerazione che si deve avere per il momento storico e le condizioni sociali, economiche e politiche in cui don Milani costruì il suo progetto, è importante sottolineare uno dei principi ispiratori e motore di ogni evento pedagogico: il diritto e il dovere di reagire, combattere e risolvere le ingiustizie. Ingiustizie e sfruttamento subiti da una parte consistente della popolazione italiana, che rappresentavano incontestabilmente la preoccupazione di don Milani. Mosso proprio da questo senso di giustizia al fine di garantire una eguaglianza compiuta, in un Paese che vuole essere davvero democratico, egli si rivolse con metodi, anche rudi, ai genitori dei suoi studenti e agli allievi stessi, imponendo orari e impegno nello studio senza precedenti: tempo pieno, scrittura collettiva, lezioni di recitazione, corsi di lingua e abolizione delle pene corporali. La sua scuola fu una rivolta dei poveri, un vero avamposto di lotta con le armi dello studio: dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come la libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e persino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parte della nostra scuola c’è scritto grande I Care. È il motto intraducibile dei giovani americani: me ne importa, mi sta a cuore. E il contrario esatto del motto fascista me ne frego. Don Milani fu un elemento divisivo, soprattutto per le autorità religiose alle quali sempre obbedì, senza che Giovanni XXIII e Paolo VI spendessero mai una parola in sua difesa, anche quando gli attacchi furono sconsiderati e violenti. Nel 2017 per la prima volta, Papa Bergoglio ha riabilitato la sua figura con parole importanti: educatore appassionato e innamorato della Chiesa.
È curiosa, falsa e mistificatoria la posizione di intellettuali come Veneziani, che sostengono con assurde equazioni critiche quella vocazione della scuola posizionata su valori di libertà e uguaglianza che, secondo loro, alla prova dei fatti non farebbero altro che diffondere diseguaglianze e asimmetrie sociali ed economiche. Non potendosi riproporre, dunque, un sistema pedagogico ispirato agli anni del ventennio, seppur armonico, come quello di Giovanni Gentile, a quale progetto ci si dovrebbe ispirare se non quello dettato dal liberismo imperante della logica aziendale? Dai Trattati del 2000 di Lisbona ad oggi, il percorso aziendalista è stato decisamente tracciato e attuato, facendoci credere che le competenze, le abilità, i cosiddetti skills, ecc., fossero i paradigmi di un nuovo vangelo pedagogico con i risultati che si manifestano sotto gli occhi di tutti. Sono invece i principi ai quali si ispira l’intellettuale militante di destra (che finge di scandalizzarsi dell’egualitarismo di don Milani, sostenendo che addirittura abbia favorito coloro i quali possono permettersi una scuola privata perché il pubblico così com’è non dà più garanzie di studio e competitività), che sponsorizzano sistemi di evidente diseguaglianza.
In una scuola dove la dialettica fra le parti è condizionata dalla mancanza di rispetto verso l’autorità e si perpetra il dileggio delle istituzioni, si verifica il fallimento (secondo la curiosa tesi di Veneziani) del sistema educativo odierno: sarebbe colpa di una pedagogia che sostiene e afferma l’incontro e non la frontalità gerarchica dei rapporti fra insegnanti, allievi e genitori. Non immagina invece che gli insegnanti hanno perso terreno nel campo del rispetto reciproco con gli allievi, i genitori e tutti i protagonisti della scuola perché sono mutate le condizioni e le dinamiche sociali, proprio per mancanza di comunicazione, di umanesimo, di condivisione e di solidarietà come patto sociale e alleanza per il futuro, senso civico di una comunità con la quale condividere democrazia e libertà. Nulla di nuovo sotto il sole, oggi, se si pensa che ai tempi del parroco di Barbiana, solo due grandi intellettuali presero posizioni nette e positive nei confronti delle teorie del prelato: Pier Paolo Pasolini ed Eric Fromm.
La scuola è, lapalissianamente, il riflesso della società in cui agiamo. Il nostro modello di società mi appare, oggi, come molto vicino ai bisogni degli ultimi e alla condivisione della ricchezza: è fortemente impregnata di cultura individualistica ed elitaria, si atteggia alla formazione di un cittadino che sappia fare delle cose, necessarie e indispensabili alla produttività, altrimenti ne verrebbe escluso. Il saper fare in termini tecnici, informatici, significa ottenere la patente di cittadinanza in un mondo in cui non sarebbe possibile esistere senza competenze. Non a caso, in senso pedagogico, si parla di un nuovo cittadino della modernità, dinamico, efficiente e soprattutto competitivo. È questo il modello di Veneziani?
Valori pedagogici che sembrano crollare non perché cardini della scuola dei don Milani o Ferrer, o altri esponenti della pedagogia sociale, democratica e libertaria, ma perché al contrario vi è stato un deciso allontanamento dalle richieste di un mondo rispettoso dell’ambiente, della condivisione delle scelte di gestione delle risorse, della comunicazione democratica, della gestione collettiva degli spazi, della condivisione consapevole del patto sociale, della considerazione che un nuovo, vero, rivoluzionario umanesimo dovrebbe essere adeguatamente riproposto nei sistemi didattici.
Troppo chiaro, a mio parere, non per un intellettuale di destra come Marcello Veneziani, per il quale l’utopia è uno spazio nocivo che, al potere di cui lui fa parte a pieno titolo, coralmente, fa tanta paura.
Per Codice Rosso, Francisco Soriano