Sorvegliare e picchiare: sul disciplinamento degli spazi urbani
Relativamente agli incresciosi fatti avvenuti venerdì scorso a Pisa, appare centrale la questione del disciplinamento dello spazio urbano. Lo dimostra il fatto che il giorno successivo, come segno di protesta contro le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine, la folla abbia scelto di riempire simbolicamente Piazza dei Cavalieri, lo spazio che era stato interdetto ai manifestanti, studenti di una scuola superiore. Questi ultimi, inermi, pacifici, sono stati picchiati dai tutori dell’ordine perché volevano recarsi in uno spazio urbano che era stato loro interdetto. L’interdizione, la sorveglianza e la conseguente violenza punitiva, sorta per non aver rispettato l’interdizione, nascono perciò anche dal controllo esacerbato dello spazio delle città contemporanee.
Tale controllo non è certo una novità: se già dal Medioevo le città europee erano soggette a controlli e ripartizioni in seguito a emergenze, è dalla seconda metà del XVIII secolo, come ci insegna Michel Foucault, che “si è posto il problema dell’unificazione del potere urbano. Si è sentita in questo momento la necessità, almeno nelle grandi agglomerazioni, di unificare la città, di organizzare la città in maniera coerente e omogenea, di governarla con un potere unico e ben regolamentato” (M. Foucault, La nascita della medicina sociale, in Id., Il filosofo militante. Archivio Foucault 2. Interventi, colloqui, interviste. 1971-1977, Feltrinelli, Milano, 2017, p. 228). Una ragione fondamentale di questo nuovo approccio allo spazio urbano – osserva ancora Foucault – è di natura politica perché è nelle città che si verificavano sempre più di frequente insurrezioni e disordini: se fino al XVII secolo in Europa la grande minaccia sociale veniva dalle campagne, alla fine del XVIII secolo, con la formazione di una plebe in via di proletarizzazione, diventano più frequenti i conflitti urbani (cfr. ivi, pp. 228-229). Come lo studioso francese afferma anche in Sorvegliare e punire, è dal XVIII secolo che “lo spazio disciplinare tende a dividersi in altrettante particelle quanti sono i corpi o gli elementi da ripartire. Bisogna annullare gli effetti delle ripartizioni indecise, la scomparsa incontrollata degli individui, la loro diffusa circolazione, la loro coagulazione inutilizzabile e pericolosa; tattica antidiserzione, antivagabondaggio, antiagglomerazione” (M. Foucault, Sorvegliare e punire, trad. it. Einaudi, Torino, 1993, p. 155). Per mezzo del panoptismo, la sorveglianza generalizzata si estende anche allo spazio quotidiano nel quale si muovono gli individui.
D’altra parte, al giorno d’oggi ci troviamo in una società estremamente diversa da quella delineata da Foucault: una società in cui gli individui si consegnano volontariamente al controllo tramite i social e le più svariate applicazioni. Restando in ambito moderno, notiamo come il disciplinamento dello spazio urbano, dalle sue prime applicazioni ricordate dallo studioso, si sia evoluto nella direzione di un vero e proprio sventramento delle città europee più importanti. Si può ricordare, ad esempio, la trasformazione di Parigi realizzata da Haussmann nel periodo del Secondo Impero, la realizzazione dei grandi boulevard per permettere un controllo più esteso e più facile sul territorio anche da parte della cavalleria. Ma anche altre città europee e italiane subiscono un vero e proprio sventramento: ad esempio Vienna, Praga, Roma, Milano. A Roma, sotto il fascismo, si apriranno poi grandi strade di comunicazione (come la via dei Fori imperiali) per conferire un proscenio spettacolare agli sfarzi del regime ma anche per effettuare un controllo più capillare e generalizzato.
Concentrandoci sugli ultimi anni, ci sono due momenti significativi che hanno dato un forte impulso al disciplinamento degli spazi urbani: il primo è stato il G8 di Genova 2001 e il secondo l’emergenza Covid. Con Genova si è cominciato a parlare di “zona rossa”, cioè una parte della città che era interdetta ai manifestanti. Gli scontri e le violenze sono stati generati dalla lotta per il possesso di questo territorio: dai tentativi dei manifestanti di occuparlo e da quelli delle forze dell’ordine di respingerli. Di “zone rosse” si è parlato anche riguardo all’emergenza Covid: quegli spazi urbani in cui era proibito uscire di casa, spazi controllati da sorveglianza armata e da soldati in assetto di guerra. Con questi due eventi epocali, nella contemporaneità si è cominciata a spargere l’idea che le città fossero dei territori in cui non ci si può muovere liberamente; che esse contenessero al loro interno delle zone di interdizione, degli spazi vietati, dei “sancta sanctorum” a cui i cittadini non potevano accedere. Zone rosse: sia perché in esse si trova il quartier generale dei governanti che tengono le redini del capitale, sia perché sono sottoposte all’organizzazione coerente e omogenea dello spazio urbano, come nel periodo dell’emergenza Covid. Non è un caso che – come nota Foucault – i primi tentativi di organizzare lo spazio sotto un controllo coerente nascano per motivi medici, per controllare il diffondersi delle malattie. Probabilmente, il precedente più vicino e ‘contemporaneo’ a questi due eventi è stata la militarizzazione delle città attuata negli anni Settanta, soprattutto in Italia e in Germania, per contrastare il terrorismo.
Ma perché ci sono spazi nelle città in cui non c’è libero accesso? Lo spazio urbano comincia sempre di più a diventare uno spazio per pochi, fatto di accessi controllati, di percorsi obbligati, di barriere da superare. Ci riferiamo alle cosiddette smart city, in cui i sistemi di controllo e di sorveglianza sono attivi e vigili anche laddove meno ce lo aspetteremmo. Le città, mentre si stanno trasformando nei templi dell’economia e della finanza, stanno vendendo l’anima al commercio più elitario che esista. Al posto di negozi e botteghe popolari sono sorti negozi di lusso e boutique, brand internazionali, catene di negozi e centri commerciali che le rendono tutte uguali, insieme, naturalmente, al fenomeno della gentrificazione. Spazi che erano popolari e frequentati dagli abitanti si sono trasformati in giganteschi centri commerciali e spettacolari per turisti: basta solo pensare a Venezia, in cui tutto ciò che era autentico è diventato inequivocabilmente falso. Ma anche i centri di Pisa, di Firenze, di Bologna, di Roma o di Milano sono già andati in questa direzione.
Chi manifesta a favore della Palestina è un nemico delle smart city perché si pone contro “l’ordine del discorso” (citiamo ancora Foucault) dominante: quella linea di pensiero occidentale, europea, bianca e orientalista che vede da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Nello spazio perfetto e controllato delle smart city – rappresentazione spaziale della digitalizzazione mediatica senza fine, orpello spettacolare dell’ordine del discorso dominante – il dissenso viene punito perché le strade e le piazze non sono di tutti. Sorvegliare e picchiare: nessuna pietà per nessuno.
gvs