Alcune osservazioni su Gaza e sulla guerra
Non so voi. Io sono stufo di ascoltare frasi tipo “vi proponiamo le due versioni delle operazioni in corso a Gaza” perché, penso, nemmeno gli accecati dalla propaganda possono ignorare la tragica realtà di Gaza, della Cisgiordania, del Libano e della Siria.
Quindi, cerco di porre quelle che mi sembrano le questioni fondamentali a questo punto della storia.
L’ospedale
La ben nota operazione israeliana sull’ospedale Dar al-Shifa di Gaza è un buon punto di partenza.
Doveva servire a “stanare” il comando centrale di Hamas che, secondo Israele, era sotto l’ospedale.
Non erano solo supposizioni degli informati membri della cosiddetta intelligence.
Nel 1983, quando Israele occupava Gaza, l’esercito israeliano costruì sotto quell’ospedale un bunker di comando e una fitta rete di tunnel.
Come potrebbe verificare facilmente persino un giornalista italiano della RAI, questa notizia – riportata da “Al Jazeera” il 14 novembre scorso – era stata pubblicata dal settimanale cattolico inglese “The Tablet” il 31 luglio 2014.
L’articolo s’intitolava “There can be not victory without justice”, Non può esserci vittoria senza giustizia (1).
Per ragioni, presumo, di propaganda, “Al Jazeera” ha definito “The Tablet”, “a jewish magazine”, una rivista ebraica.
Come sempre, o quasi, la propaganda è stupida. Anzitutto, perché la bugia formale fa passare in secondo piano la sostanza. Poi, perché la fonte è un autorevole giornale inglese con un secolo di vita, non uno sconosciuto periodico israeliano.
Ambedue condividono solo un fatto: sono giornali confessionali (2).
Sulla espansione della guerra
Le forze armate israeliane sono già penetrate all’interno del territorio del Libano per almeno 40 km. Non è una passeggiata di salute né una gita “per salutare” i militari italiani stanziati da quelle parti come pare abbia capito la Rai.
Inoltre, Israele ha fatto delle incursioni aeree e missilistiche con un saldo importante di vittime innocenti come la nonnetta incenerita insieme ai tre nipotini in un veicolo centrato da un razzo.
Queste operazioni hanno una sola spiegazione possibile: Israele vuole provocare una risposta muscolare da parte di Hezbollah per ripetere il piano del 2006.
Ma il governo israeliano non si limita a provocare Hezbollah. Vuole che al ballo partecipino pure i siriani.
Le alture del Golan siriano, catturate dall’esercito israeliano nel 1967 e annesse de facto ad Israele nel 1981, servono un doppio obiettivo strategico: controllare dall’alto la Siria e assicurarsi le forniture d’acqua potabile del fiume Yarmouk. Avendole visitate nel 1975 – ovviamente dalla pianura siriana – posso testimoniare che questo doppio obiettivo militare-economico è raggiunto.
Ma, che senso possono avere le numerose incursioni aree israeliane in corso per bombardare infrastrutture civili di Damasco e di Aleppo?
A me viene in mente solo uno: espandere la guerra.
Un governo tanto a destra che più a destra non si può
Torniamo all’ospedale Dar al-Shifa.
Lasciando da parte le categorie morali, che comunque basta e avanzano per ripudiare l’uccisione di bambini, malati e medici, provo a definirlo in termini politici.
Ricorro, anzitutto, a Dahiya.
Dahiya era un distretto libanese confinante con Beirut, raso al suolo durante la guerra tra Israele e Hezbollah del 2006.
A capo delle forze israeliane c’era allora il generale Gadi Eizenkot che, nel 2008, dichiarava a questo proposito: “Quello che è successo nel quartiere Dahiya di Beirut nel 2006 accadrà in ogni villaggio da cui Israele viene colpito… Dal nostro punto di vista, questi non sono villaggi civili, sono basi militari… Questa non è una raccomandazione. Questo è un piano. Ed è stato approvato” (3).
Sembrano dichiarazioni della settimana scorsa e non è un caso.
Ma, procediamo con ordine.
Ritroviamo il generale Eisenkot nel novembre 2019, ormai comandante in capo delle forze armate, mentre raccomanda ai suoi soldati “Non svuotate i caricatori”.
Parlava di una adolescente che avrebbe aggredito con delle forbici due soldati. Costoro, “per autodifesa”, le sparavano numerose volte mentre era a terra, immobile.
Lo “scarico dei caricatori” sulla 176a vittima civile palestinese in 5 mesi, era immortalato dalle telecamere di sorveglianza e successivamente mostrato in TV. Quindi, c’era un dibattito parlamentare che Netanyahu chiudeva così: “C’è stata una discussione vuota. Il capo dello staff militare affermava semplicemente una cosa ovvia. In ogni caso le forze di difesa israeliane e le forze di sicurezza operano come si deve. Tutto quello che è stato detto dopo la dichiarazione del generale Eisenkot nasce dall’ignoranza o da calcoli politici” (4).
A conferma delle sue “ottime ragioni”, Eisenkot è membro dell’attuale governo Netanyahu.
Si può, legittimamente, dedurre che la “dottrina Dahiya” sia diventata politica di Stato.
Si deve, altrettanto legittimamente, constatare che quello israeliano è un governo tanto a destra da far ingelosire molti nostalgici sulle due sponde del Mediterraneo.
La “Dottrina Dahiya” non è solo una credenza statale
Nel pomeriggio del 16 novembre 2023 RaiNews ha trasmesso un servizio contenente le dichiarazioni di un giovane colono israeliano della Cisgiordania occupata secondo il quale “le nostre guerre sono per la pace”.
Il reportage, forse per l’orario poco consono o, forse, per le penose condizioni di lavoro degli operatori RAI, dimenticava che in Cisgiordania la legge marziale autorizza la popolazione palestinese ad uscire da casa solo un paio d’ore al giorno. Fa niente.
“Sei anni fa, Bezalel Smotrich, allora un giovane membro della Knesset al suo primo mandato, pubblicò il suo pensiero su un finale di partita per il conflitto israelo-palestinese … Invece di mantenere l’illusione che un accordo politico sia possibile, ha sostenuto, la questione deve essere risolta unilateralmente una volta per tutte.
Ecco la soluzione proposta da Smotrich. ‘I 3 milioni di residenti palestinesi hanno una scelta: rinunciare alle loro aspirazioni nazionali e continuare a vivere nella loro terra in uno status inferiore, o emigrare all’estero. Se, invece, sceglieranno di prendere le armi contro Israele, saranno identificati come terroristi e l’esercito israeliano inizierà a uccidere coloro che hanno bisogno di essere uccisi’.
Quando gli è stato chiesto, in un incontro in cui ha presentato il suo piano a personalità religiose-sioniste, se intendeva anche uccidere famiglie, donne e bambini, Smotrich ha risposto: ‘In guerra come in guerra’. Così riferisce Orly Noy, presidente del B’Tselem’s Executive Board, in un suo articolo del 10 novembre scorso”.
Il riferimento a Orly Noy esime i coraggiosi autori del servizio, da ogni responsabilità.
Anime pie e corpi impotenti?
Dal 1967 al 1989, il Consiglio di Sicurezza e l’assemblea Generale dell’ONU hanno adottato 131 risoluzioni sul conflitto tra Israele e gli arabi palestinesi.
Tutte sono state disattese e ignorate da Israele.
Il 15 novembre 2023, dopo vari tentativi bloccati dal veto degli Stati Uniti e del Regno Unito, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato una nuova risoluzione “vincolante”, che chiede di attuare “tregue umanitarie a Gaza” (per me, chiedere non significa vincolante. Comunque, lo vedremo a breve).
Dei 15 membri del CdS hanno votato a favore 12, incluse Francia e Cina. Si sono astenuti 3: Stati Uniti, Regno Unito e Russia (sull’astensione russa, ritornerò in un’altra occasione). Israele ha respinto la risoluzione perché, ha affermato una nota del ministero degli esteri, “non c’è posto per tali misure finché gli ostaggi saranno tenuti nelle mani di Hamas”.
Assai più esplicito è stato Gilad Erdan, ambasciatore d’Israele all’ONU: “È una risoluzione distaccata dalla realtà… È deplorevole che il Consiglio continui a ignorare e rifiuti di condannare o anche solo menzionare il massacro compiuto da Hamas”. Si è tenuto il meglio per la fine beffarda: “E ora, che fate?”.
La grande Israele
Grazie o per colpa di una infatuazione biblico-escatologica, il governo israeliano intende realizzare “il Grande Israele” delle scritture.
Ma qual’é il Grande Israele?
Da quel che mi risulta, la Bibbia contiene tre definizioni geografiche della Terra d’Israele.
La descrizione della “Terra Promessa” si trova nel Genesi 15:18-21, dove si parla in modo vago di un ampio territorio che spazia “dal Nilo all’Eufrate”, comprendendo cioè l’attuale Israele, i territori palestinesi, il Libano, gran parte della Siria, la Giordania e parte dell’Egitto.
Altri due riferimenti biblici si riferiscono ad un territorio d’Israele nettamente più piccolo.
Da parte sua, già negli anni ’70 Netanyahu sosteneva: “Nella prossima guerra, se la facciamo bene, avremo la possibilità di far uscire tutti gli arabi… Possiamo ripulire la Cisgiordania, sistemare Gerusalemme”(5).
La “sistemazione” di Gerusalemme sarebbe effettivamente iniziata nel dicembre 2017 con la dichiarazione di Trump a favore di Gerusalemme capitale di Israele.
Mentre alcuni – presumo benintenzionati – continuano a parlare della soluzione proposta da Arafat e Rabin a Oslo, “Due popoli, due Stati” – in teoria, la soluzione più equanime – tutto si sposta in un’altra direzione.
L’attuale ministro israeliano delle finanze, il bellicoso Bezalel Smotrich citato in precedenza, sostiene: “Bisogna adottare una soluzione che, una volta per tutte, risolva unilateralmente la contraddizione intrinseca tra le aspirazioni ebraiche e palestinesi”.
Se non altro, ha il pregio della chiarezza: pone fine ad ogni illusione sulla possibilità di arrivare a qualsiasi tipo di compromesso, riconciliazione o spartizione.
In sostanza Smotrich dice: “Due Stati, due popoli? Ma mi faccia il piacere”.
Se questa opinione rappresenta, come mi temo, non solo il governo israeliano ma la maggioranza della popolazione israeliana, il colono della Cisgiordania ha ragione: “Le nostre guerre sono per la pace”.
La normalità
Preciso: davvero non penso che tutta la popolazione israeliana sia d’accordo con queste tesi ma che lo scopo della guerra loro sia per raggiungere la pace, mi pare un’idea tanto diffusa da sembrare normale in Israele.
È una “normalità” tragica, anzitutto per Israele, gli israeliani ebrei e arabi ed i palestinesi, ma coinvolge almeno i Paesi europei e gli Stati Uniti. Per ora.
Gli europei si arrotolano nella loro ignavia e nei loro manicheismi, ma gli Stati Uniti sembrano assai preoccupati perché temono che il piano Netanyahu li costringa a “intervenire”.
Dalle cronache statunitensi sembra che Biden opponga qualche debole resistenza ma che i neoconservatori, che occupano sia la sua amministrazione che gli apparati burocratici e di sicurezza, siano tornati a proporre le stesse teorie che nel 2002 portarono “Bush il piccolo” a intervenire in Iraq “per stabilizzare la regione ed inviare un chiaro messaggio all’Iran”.
Sempre le cronache statunitense dicono che il gradimento domestico di Biden è in caduta libera, sia per la scarsa credibilità della sbandierata ripresa economica, sia per i molti dubbi sulle capacità dell’ottuagenario presidente che, a un anno dalle elezioni, si ritrova con ben due guerre in corso.
In questo contesto, va da sé, aumentano le possibilità di ritorno di Donald Trump, amico carnale di Netanyahu, alla Casa Bianca.
In Italia, gli esperti continuano a ripetere che Netanyahu dovrà rispondere del suo operato alla fine della guerra.
Lui continua a rispondere che dovrà certamente farlo ma dopo. Aggiunge: “e la guerra sarà lunga, molto lunga”.
Muoia Sansone e tutti i filistei
Nel 2018, Netanyahu è riuscito a convincere l’amico Trump a ritirarsi unilateralmente dall’accordo sul nucleare iraniano.
Ora spera di “ripetere il colpo”, ma potenziandolo. Con Trump, pensa, potrebbe portare l’amministrazione USA a colpire direttamente l’Iran.
In tal modo, le azioni militari israeliane in violazione del diritto internazionale e di quello umanitario sbiadirebbero in un conflitto di ben diverse proporzioni e scopi, a vantaggio suo personale e d’Israele che consoliderebbe più facilmente il suo piano di espansione.
Ovviamente, a quel punto le sue risposte sarebbero di ben diverso tenore, anzi.
Altrettanto ovviamente, persino gli europei sarebbero costretti ad abbandonare ignavia e manicheismi.
La mia conclusione generale è: all’interno di una crisi sistemica possono evitarsi molte cose, ma non il moltiplicarsi delle crisi parziali e l’aggrovigliarsi della crisi generale.
La guerra è le guerre sono parte di queste crisi inevitabili.
Che Dio ce la mandi buona.
Rodrigo Rivas
NOTE
1) https://www.tabletmag.com/…/top-secret-hamas-command…
2) per questa storia vedere Alì Abunimah, “Did Israel build a bunker under al-Shifa Hospital?”, in “The Electronic Intifada”, 16 novembre 2023
3) su Dahiya si può vedere l’intervista fatta al generale (R) Fabio Mini dalla TV pisana Ottolina TV. Si può consultare anche Max Hastings, “Going to the wars”, 2000.
4) “Israele: Netayahu sostiene il generale Eisenkot contro uso eccessivo della forza”, Euronews, 21 febbraio 2016
5) “Bibi Netanyahu, l’uomo che rifondò Israele”, in “Una certa idea d’Israele” n.5, 2013