Intervista ad Ariel Goldstein: “Non esiste un cordone sanitario per l’estrema destra in America Latina”
Il ricercatore argentino, autore di ‘La reconquista autoritaria’, analizza le caratteristiche regionali delle nuove destre e il pericolo che comportano per le democrazie “incapaci di formare anticorpi” [Fonte: El País, 25 agosto 2024]
Ariel Goldstein (Buenos Aires, 37 anni) è dottore in Scienze Sociali per l’Università di Buenos Aires (UBA) e ricercatore del Conicet [Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas ndt]. Nel 2022 ha pubblicato La reconquista autoritaria. Cómo la derecha global amenaza la democracia en América Latina (Marea). Jair Bolsonaro governava ancora in Brasile, José Antonio Kast aveva disputato e perso il secondo turno delle presidenziali in Cile, Donald Trump aveva già istigato l’assalto al Campidoglio e l’argentino Javier Milei era deputato da alcuni mesi. Due anni dopo i nomi si ripetono, rafforzati dall’ascesa di Milei alla presidenza dell’Argentina. Goldstein ha dedicato la sua vita accademica a studiare le reti di contatti che mettono le ali a questa nuova destra, il ruolo delle tecnologie nella diffusione delle sue idee e il ritorno in prima linea di “politici caduti in disgrazia”. Nell’ultradestra “c’è un’apologia della distruzione, di forzare al massimo un momento distopico per giustificare la disumanizzazione dell’altro, la violenza politica”, avverte in questa intervista a EL PAÍS.
Domanda. Trova dei parallelismi tra l’ultradestra che descrive nei suoi lavori e il fascismo del secolo scorso?
Risposta. Il fascismo tradizionale era la mobilitazione intorno al leader e nelle piazze, con camicie brune e il saluto nazi, tutto insieme. Il postfascismo, come lo chiama Enzo Traverso, anche se include qualcosa di tutto questo, più che far uso della violenza fisica usa la violenza simbolica. Per questo i social network sono così importanti. Il fine principale è l’annientamento simbolico del nemico. Questo non vuol dire che in alcuni momenti non vi sia violenza, come l’assalto ai tre poteri a Brasilia o al Campidoglio negli Stati Uniti, ma questo non è l’aspetto dominante, sono momenti specifici di una battaglia culturale che è simbolica.
D. Chi fa parte delle fila di questi movimenti?
R. In generale sono tipi che erano stati dimenticati e ora godono di una nuova vita. Nel caso di Javier Milei, in Argentina, per esempio, è gente che se non fosse stato per lui non sarebbe arrivata da nessuna parte. Ci sono alcuni personaggi più ideologici, di estrema destra, e ci sono anche molti opportunisti che si piegano per convenienza. Bolsonaro è arrivato al potere come influencer, distribuendo liste per Whatsapp. Così arriva gente senza un percorso politico che sale sul carro.
D. Perché hanno bisogno di fare appello a queste figure secondarie?
R. Per il modo in cui sono emersi. Queste figure outsider nascono in generale dai social network, dove trovano una forma di comunicazione diretta che non avevano. Prima i media tradizionali definivano quali discorsi erano accettabili e quali no, oggi questa barriera non esiste. Hanno anche un aspetto provocatorio che nasce dalle idee di Steve Bannon, delle quali questa destra si appropria. Molto di quello che Milei chiama battaglia culturale lo prende da Bannon. Si crea allora un’idea di scandalo che è molto attraente per i media. Questi personaggi fanno crescere l’audience della televisione e generano retweet nei social. Questo è il modo in cui emergono questi leader, e per questo non hanno un partito e devono cercarsi alleanze diverse a quella dei partiti tradizionali. E chi è disposto ad aderire? Politici caduti in disgrazia o gente che non viene dalla politica tradizionale. Questi influencer e youtuber sono particolarmente funzionali a questo.
D. Quale ruolo giocano questi influencer?
R. Accompagnano e riproducono questa narrativa. La fanno arrivare in basso a pubblici diversi da quelli del leader o fanno pressione per la radicalizzazione del movimento e in questo modo guadagnano seguaci e soldi per le visualizzazioni.
D. Como gestiscono, dopo, la tensione tra la provocazione sui social e la gestione del Governo, nel caso in cui arrivino al potere?
R. C’è uno stile diverso di governo dove ormai la gestione non importa più. È una narrativa polarizzante dove si cerca di distruggere un nemico, i “cucas”, i parassiti, la casta. Non è che non si governi, ma importa più la narrativa costruita via social che circola intorno alla megalomania e al messianismo del leader. Se uno analizza l’Instagram di Milei, è il leone contro i topi. Questo non ha niente a che vedere con la gestione del governo, l’avversario è un topo ed è disumanizzato. La violenza è una forma di costruzione politica e quando dici che l’altro è un topo, stai innescando forme di violenza politica.
D. Nel suo ultimo libro parla della “famiglia globale” della destra. Come nasce questo concetto?
R. È un’idea di Stephen Forty, che io approfondisco. In questa epoca della connettività globale, le estreme destre stanno usando questi meccanismi di comunicazione per rafforzare i loro legami e per costruire narrative comuni. Per esempio, patria e famiglia, che è stata la campagna di [Giorgia] Meloni in Italia e di Bolsonaro in Brasile o quello che dice [Eduardo] Verástegui in Messico. È come un nucleo unificante, si cerca di parlare un linguaggio comune che si ripete in incontri che prima non esistevano.
D. Non esistevano o non avevano pubblicità?
R. Negli anni Settanta l’estrema destra si riuniva in segreto e in modo illegale, come quando coordinavano operazioni di repressione illegale. Penso, per esempio, al Plan Cóndor [un piano di sterminio degli oppositori coordinato dalle dittature del Cono Sud americano]. Oggi è un’internazionale neofascista a viso aperto. Non c’è un occultamento, tutto il contrario: si cerca di convocare tutti quelli che vogliono partecipare. Come la CPAC 1 , una vetrina di ultraconservatori che nasce negli Stati Uniti e fa pressione all’interno del Partito Repubblicano e oggi è presente in Giappone, Israele, Messico o Brasile. E poi c’è Vox, che è una gamba d’appoggio e con personaggi che si incrociano.
D. Quale ruolo gioca Vox in tutto questo?
R. Vox ha una serie di idee che convergono con la CPAC, ma non sono le stesse: riconquista, ispanicità, narcomunismo. Questa cosa della Spagna cattolica che deve tornare ad essere influente sulle ex colonie. La proposta di Vox è intelligente quando parla di un legame Europa-America Latina che parte dalle colonie, la tradizione cattolica castigliana e la lingua. Vox inoltre ha permesso a personaggi marginali, com’era Milei in Argentina, di entrare a far parte di una serie di reti e contatti che non avevano. Milei in uno dei suoi eventi ringrazia Santiago Abascal di avergli aperto le porte, quando, dice, ‘ero un essere disprezzato’.
D. Perché questi movimenti si radicano nella società?
R. In questa nuova fase del neoliberismo, le frustrazioni che genera il sistema, come la disuguaglianza e la precarizzazione, sono indirizzate da questi leader emergenti contro la stessa democrazia liberale. È una forma di costruzione di potere che ha a che vedere con questa fase del capitalismo. Questi leader fanno un discorso di distruzione: Bolsonaro è andato all’ambasciata del Brasile negli Stati Uniti e ha detto che, per costruire, prima c’era da distruggere molte cose nel suo Paese, come il socialismo; Milei dice ‘io sono una talpa dello Stato per distruggerlo dall’interno’; Elon Musk, quando ci sono state le ultime proteste in Inghilterra, ha detto ´la guerra civile è inevitabile’. C’è un’apologia della distruzione, di forzare al massimo un momento distopico per giustificare la disumanizzazione dell’altro, la violenza politica.
D. In Brasile è tornato Lula, negli Stati Uniti Trump non sembra più avere la vittoria assicurata e la Francia ha frenato l’ultradestra. Sta nascendo una diga di contenimento?
R. Non lo so, perché è una cosa che è in corso. Quello che invece vediamo è che quello che prima era una destra tradizionale e moderata, come il PRO in Argentina o il PSDB en Brasile2 , ha lasciato spazio a questa destra radicale che contesta apertamente vari principi democratici. Questo porta a un deterioramento della convivenza democratica e a una caduta nella convinzione che la democrazia sia il miglior sistema. Ma non ci dimentichiamo che in America Latina le democrazie sono giovani, hanno meno di 40 anni. Non è inimmaginabile che sorgano queste ultradestre eredi dell’autoritarismo. Queste tradizioni, lo vediamo ora, non sono mai sparite del tutto in America Latina e le élites economiche e politiche sono abituate a risolvere i problemi in questo modo. È la storia latinoamericana.
D. Ci potrebbe essere in America Latina un “cordone sanitario” come quello che c’è stato in Francia contro la Le Pen?
R. No, non esiste e lo abbiamo già visto. A questo punto il pericolo nella regione è più grande. In Europa è stata costruita l’Unione Europea con molta consapevolezza di quello che fu il fascismo e la guerra. Da queste parti questo non esiste, neppure negli Stati Uniti. Trump ha istigato ad assaltare il Campidoglio e il sistema democratico statunitense non è riuscito a formare anticorpi per impedire che fosse un altra volta candidato. Al contrario del Brasile che invece ha inabilitato Bolsonaro per otto anni.
D. Vede qualche figura emergente che potrebbe aggiungersi a Milei, Bolsonaro o Trump?
R. Ci sarebbe da fare attenzione a Eduardo Verástegui in Messico. Non dico che possa arrivare alla presidenza, ma nella misura in cui ora verranno sei anni di Claudia Sheinbaum e ce ne saranno 12 di Morena è probabile che la destra si rafforzi. C’è il tentativo di costruire un movimento lì e di agganciarlo a queste destre radicali globali. È un personaggio molto connesso a questo mondo, a Vox, a Milei e a Trump. Solo per questo vale la pena di prestargli attenzione.
D. E che cosa pensa di José Antonio Kast in Chile?
R. Anche lui è un personaggio importante, ma sembrerebbe che oggi con l’ascesa di Evelyn Matthei ci sia ancora una destra tradizionale che ha potere. In ogni caso, già il fatto che Kast sia arrivato al secondo turno nelle ultime elezioni è interessante. All’inizio del secolo, la destra cilena si era moderata e si dichiarava non pinochettista per guadagnare voti. Kast è tutto il contrario, pensa che la destra perda perché non è coerente con i valori più autoritari e religiosi.
D. Parliamo della differenza tra questa ultradestra e il fascismo. E con la destra tradizionale?
R. Tanto per cominciare, il legame con le dittature. L’ultradestra fa una rivendicazione del terrorismo di Stato che non esisteva. Abbiamo inoltre il richiamo alla violenza, il tentativo di costruire una narrativa a partire dai social, la disumanizzazione dell’altro. Il cocktail della destra tradizionale era un altro e addirittura coesisteva con figure più progressiste. L’ultradestra atacca ‘los zurdos’ [i sinistri ndt], il femminismo, l’agenda 2030. La destra tradizionale era ancora imbevuta dello spirito post-caduta del Muro, nel senso che la Guerra Fredda è finita e la democrazia si può estendere a tutto il mondo. Milei, Bolsonaro o Kast vengono a ravvivare il linguaggio della Guerra Fredda, solo che il contesto è diverso. Cuba non è una minaccia, l’Unione Sovietica non esiste, quindi il nemico ora è interno, senza una minaccia reale del comunismo. Io lo chiamo un neomaccartismo.
D. Come nasce allora questa idea di guerra al comunismo?
R. Perché nell’epoca della post-verità è più importante il racconto che la verità. È una costruzione narrativa molto forte senza connessione con la realtà.
D. Che ruolo gioca la religione in tutto questo?
R. Tutti questi personaggi fanno un’ibridazione religiosa. Combinano gli elementi più conservatori delle religioni occidentali e allo stesso tempo possono assumere altre forme. Bolsonaro è un buon esempio: è cattolico, è stato battezzato da un pastore evangelico e si riunisce con gli ebrei più ortodossi, va in Israele e visita [Benjamin] Netanyahu. Fanno sempre un’ibridazione a partire dall’aspetto più conservatore, e questo gli serve per una narrativa messianica, dove Dio li ha incaricati di salvare il Paese.
D. Le necessità di governo non li obbligano a moderare il loro discorso? Penso a Milei che chiede soldi alla Cina o all’Arabia Saudita, Paesi che ha sempre denigrato.
R. C’è una doppia morale. Da un lato, Milei si pone come un intransigente, ma dopo, sottovoce, negozia. Bolsonaro faceva lo stesso. Diceva ‘più Brasile, meno Brasilia’, ma era stato deputato per 28 anni a Brasilia. Se c’è da negoziare si negozia, ma che la gente non se ne renda conto, anche se nella narrativa dicono che i comunisti sono abominevoli.
D. Che ruolo vede per la sinistra o il progressismo in questo scenario?
R. È paralizzata, non riesce a interpretare il fenomeno dell’estrema destra. Per questo non sa come combatterla. In Brasile è riuscito a farlo, ma appellandosi a Lula, che è un leader unico. E ricordiamoci che Bolsonaro ha perso solo per un milione di voti e avrebbe potuto perfettamente vincere. Questo dimostra che l’ultradestra non è invincibile, ma devono esserci alleanze molto ampie tra tutti coloro che la ritengono una minaccia per la democrazia.
NOTE
1. Conservative Political Action Conference. Nel febbraio scorso si è tenuta a Washington una conferenza che ha visto come relatori “Donald Trump, il presidente argentino Javier Milei, il capo di Stato del Salvador, Nayib Bukele, Steve Bannon, l’ex leader del partito della Brexit, Nigel Farage e numerosi esponenti del mondo repubblicano americano”. La notizia è tratta dal sito “L’opinione delle Libertà”, che fa riferimento a Nazione futura, autodefinitosi il principale think tank conservatore italiano [NdT].
2. PRO è la sigla di Propuesta Republicana, partito liberista e conservatore, il cui esponente di maggior spicco è stato l’ex presidente Mauricio Macri; il PSDB è il Partito Socialdemocratico brasiliano che nonostante il nome si colloca in un’area di centrodestra. Tra i suoi esponenti più noti Cardoso, il presidente delle grandi privatizzazioni. [NdT].
L’immagine è tratta da Kaosenlared
Traduzione per Codice Rosso di Andrea Grillo