Jova, dove passa lui non rimane nemmeno la sabbia.
Con la fine delle restrizioni legate al Covid è tornato in grande stile, disastri compresi, il Jova Beach Party Tour, la serie di grandi eventi da spiaggia curata da Jovanotti. Qui, se il successo di pubblico è indiscutibile, riemergono i problemi tipici dell’economia di questi grandi eventi: rispetto dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori in un settore, quello dello spettacolo, fortemente deregolato.
Jovanotti si è cosi’ trovato nell’occhio del ciclone assicurando che i diritti dei lavoratori sono rispettati, che non fa Greenwashing che chi lo critica è, parole sue, “un econazista”.
Da parte nostra ripubblichiamo l’inchiesta, di tre anni fa, apparsa su Giap su economia dei grandi eventi e Greenwashing legata proprio al fenomeno Jovanotti Beach Party. Molto utile ancora oggi a quanto si legge.
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Ecco a chi giova il Jova Beach Party. Nuovo greenwashing e «Grandi Eventi» nell’era della crisi climatica
di Alpinismo Molotov1
INDICE
Introduzione. Il sacchetto dell’umido
1. La funzione Jovanotti
2. Il tour si è fatto perché «c’è il WWF»
3. Il nuovo greenwashing: da narrazione diversiva a condicio sine qua non dell’estrazione di valore
4. Il Grande Evento come Grande Opera “green”
5. Non c’è «scienza ambientale» che tenga senza il conflitto
Postilla. E non hai ancora visto niente
Introduzione. Il sacchetto dell’umido
«Questa storia è come il sacchetto dell’umido che hai lasciato pieno per dieci giorni: come lo muovi, colano liquami».
Così si è commentato, nella nostra mailing list, il Grande Sbrocco nel quale Jovanotti accusava genericamente il mondo dell’ambientalismo di essere «più inquinato dello scarico della fogna di Nuova Delhi.»
Chiariamo subito le ragioni che hanno spinto Alpinismo Molotov, un collettivo che si occupa di montagna, a scrivere di una pop star che organizza concerti sulle spiagge.
Il Jova Beach Party non è solo una tournée: è parte di un frame devastante che viene riproposto da anni, rappresenta in modo plastico il capitale nella sua forma più perniciosa e camaleontica, e non ha toccato solo le spiagge ma è arrivato ben più in alto, esacerbando questioni di cui ci siamo sempre occupati.
Veniamo a sapere del grande evento itinerante che si chiamerà Jova Beach Party ai primi di aprile, quando Reinhold Messner prende posizione contro l’annunciata data del concerto a Plan de Corones – Kronplatz, quota 2.275. Un giudizio, quello di Messner, che trova subito spazio nei media: «Non posso vietarlo, ma lo farei se potessi».
Si tratta dell’unica data in cui il mega-show si terrà non su qualche litorale, ma in vetta a una montagna… che per Jovanotti diventa subito «la spiaggia più alta d’Italia».
«Abbiamo ricevuto in dono le montagne», dichiara Messner, «e dobbiamo imparare a rispettarle per ciò che rappresentano: una riserva d’acqua e di quiete, un luogo libero dove dedicare tempo alla cura dello spirito.»
Di fronte a tali motivazioni Alpinismo Molotov si trova a disagio. In estrema sintesi, per un’impronta di essenzialismo nella rappresentazione della natura e della montagna, essenzialismo che riteniamo tossico. Tuttavia, è chiaro che un evento di tale portata – per le strutture da montare e smontare in quota e per il numero degli spettatori previsti – avrà un impatto sull’ecosistema che, obtorto collo, lo ospiterà. Non si tratta di valutarlo con un confronto tra il prima e il dopo, è il durante che produrrà effetti deleteri, in parte riscontrabili e in parte no, ma non per questo non presenti.
Il concerto si terrà, anticipato e snellito per via di pessime condizioni meteorologiche, che in quota espongono a rischi maggiori rispetto ad altri luoghi. In occasione dell’evento, a leggere i giornali e a giudicare dai profili social di Jovanotti, quest’ultimo e Messner sembrano essersi riappacificati: una stretta di mano, facce sorridenti…
Le cose stanno diversamente, a giudicare dalle dichiarazioni rese da Messner in questa intervista (24 agosto, quindi dopo il concerto): «ribadisco che non ha senso organizzare un simile evento lassù».
L’anestetizzazione mediatica delle critiche è, come vedremo, uno degli aspetti ricorrenti di questa vicenda. Nel caso di Messner, l’anestetizzazione può essere utilmente inquadrata in una questione più generale che riguarda ogni battaglia. Come ha scritto Loredana Lipperini in un recente post sul suo blog,
«nessuna battaglia si conduce da personaggi: non una duratura, almeno. Nonostante le vittorie accumulate, si finisce col perdere la partita, nel momento in cui altri personaggi che funzionano meglio, e non importa quale sia il pensiero di cui sono portatori, si fanno avanti.»
Quando nei primi mesi del 2019 viene annunciato il Jova Beach Party, nonostante le scarse informazioni iniziali, ci sono fin da subito forti perplessità in merito alle location e all’organizzazione del grande evento, che a tutti gli effetti si presenta come grande opera. I costi, l’impatto sull’ambiente, la logistica, il messaggio veicolato, il ricorso a un certo ambientalismo usa-e-getta… Problematiche che con il crescere delle informazioni e con l’inizio del tour emergono in tutta la loro drammatica realtà.
Di fronte alle molte critiche, il Preso Bene la prende male.
Prima dichiara: «Non siamo hooligan che dove vanno distruggono tutto. Noi siamo diversi, dove andiamo costruiamo, rispettiamo l’ambiente, i luoghi e le persone. Lasciamo i luoghi più puliti di come li troviamo».
Dopo la cancellazione del concerto di Vasto su indicazione della Prefettura di Chieti, ricorrendo a una formula subdolamente negazionista e abusatissima negli attacchi ai movimenti che si battono contro le grandi opere inutili e devastanti, dichiara: «A Vasto ha vinto il fronte del NO, quello di cui l’Italia è pervasa».
Col proseguire delle polemiche, la prende malissimo e spara l’ormai celebre comunicato, quello delle fogne di Nuova Delhi, in cui aggiunge che:
«il Jova Beach Party ha portato gioia, messaggi seri sui comportamenti adottabili da subito per ridurre il proprio impatto ambientale, amore, cultura, economia, goduria, coraggio, spirito avventuroso e originalità […] senza puntare il dito e senza darsi delle arie».
Ecco, noi invece puntiamo il dito.
Ora riavvolgiamo il nastro e seguiamo la traccia del Jova Beach Party.
1. La funzione Jovanotti
La querelle che ha accompagnato il Jova Beach Party è interessante perché vi si trova condensata una congerie di narrazioni tossiche che se analizzate e demistificate saranno, almeno parzialmente, depotenziate in futuro.
L’evento Jova Beach Party – «più di uno stadio, più di un palasport, più di un festival, molto più di un concerto», com’è presentato sul sito dell’agenzia Trident che lo produce e lo organizza – è la quintessenza del “presabenismo” à la Jovanotti. Ci riferiamo a quella banalizzazione della psicologia positiva che trova un corrispettivo nella versione popolarizzata e divulgativa tipica dei manuali di self-help che siamo soliti trovare sugli scaffali degli autogrill e che risponde all’imperativo della società contemporanea «se vuoi puoi». Una narrazione dove le classi scompaiono, che non contempla il ruolo dei privilegi, ma che trova ampia ricezione in tutti gli strati sociali e quindi viene recepita agevolmente nel discorso pubblico, senza che nessuno la trovi contraddittoria, persino quando la propinano pop-star milionarie.
Siamo convinti che solo Jovanotti potesse svolgere, in Italia, una funzione da apripista per mega-show che si svolgono in ambienti naturali dove, benché duramente stressati dall’azione antropica, resistono delicati ecosistemi.
Il punto della questione non è Jovanotti in sé, ma la funzione che Jovanotti svolge.
Di tutta l’operazione Jova Beach Party, a risultare più tossico è il fatto che Jovanotti non si accontenti di un mega-show allestito a scopi commerciali, di soddisfare in questo modo la propria ambizione e volontà di potenza, di mostrare al mondo – a chi può permettersi il costo del biglietto d’ingresso, ma poi c’è la copertura assicurata dai media – «una città temporanea, un villaggio sulla spiaggia, un nuovo format di concerto, un happening per il nuovo tempo» (sempre dalla presentazione offerta da Trident)… No, Jovanotti vuole anche dare a tutto ciò una veste pedagogica, imporre il mega-show come momento “alto” di aggregazione e divertimento per i messaggi che presuntamente veicola: «la tutela del mare e il contrasto all’abbandono dei rifiuti in materiali plastici», come sintetizza Donatella Bianchi, presidente di WWF Italia, in questa intervista.
Questo “di più” non stona, anzi, risuona perfettamente con l’immagine pubblica che Jovanotti si è costruito nella sua trentennale carriera: il Jova Beach Party è interamente a sua immagine e somiglianza. Dunque, dall’immagine e dal personaggio Jovanotti è necessario partire.
Nel 2000 su Rai Due andava in onda Convenscion, dove un poco più che trentenne Neri Marcorè imitava un Jovanotti predicatore, ingenuo, sprovveduto e piuttosto suonato, che tra una telefonata a Clinton e un’altra all’ONU tentava di «sconfiggere l’odio nel mondo».
Già allora l’immagine di Jovanotti corrispondeva alla sottotipologia «popstar impegnata e sensibile ai temi urgenti della contemporaneità».
Nell’agosto 2018, proprio Neri Marcorè invitava a Risorgi Marche lo stesso Jovanotti. L’evento – di cui parlammo nei giorni immediatamente successivi – portò all’interno della Riserva Naturale del Monte San Vicino e del Monte Canfaito circa 70.000 persone, scatenando polemiche e discussioni sul senso stesso della manifestazione.
Per le modalità e la carica emotiva che ha sfruttato, Risorgi Marche ha rappresentato un salto di qualità. Forse non avremo mai elementi concreti per dirlo, ma pensiamo che senza quell’evento zero a Jovanotti e al suo entourage non sarebbe mai venuto in mente di spiaggiarsi nell’estate 2019.
Jovanotti lo ricordiamo a Genova nel 2001, durante le giornate del G8, in compagnia di Bono Vox e Bob Geldof. Stavano dentro la «zona rossa», a incontrare – stando a quanto raccontarono i giornali – «tutti i leader mondiali» in qualità di testimonial della campagna Cancella il debito.
«Lo ricordiamo» per modo di dire, perché in quei giorni noi eravamo fuori della zona rossa e avevamo altro a cui prestare attenzione.
Oggi rintracciamo in rete una dichiarazione attribuita ai tre, riferita alle contestazioni in corso: «La rabbia va bene, la violenza no: picchiate i pugni sul tavolo e non in faccia agli altri». È del 20 luglio, giorno della morte di Carlo Giuliani, corollario perfetto alla mission che vedeva protagonista la delegazione di rockstar in quei giorni: chiedere a chi rappresenta gli interessi degli sfruttatori di essere magnanimo, di impoverire un po’ meno la gran parte delle persone che abitano il pianeta, per favore, se potete, grazie in anticipo.
E i «pugni sul tavolo»? Non pervenuti.
Per contenuti e modalità di trasmissione del messaggio, non siamo molto lontani dal Jova Beach Party.
Nel 1985 Bob Geldof mise in scena il Live Aid e insegnò al mondo del music biz un modo per rifulgere sollecitando carità e vendendo lavaggi di coscienza a buon mercato. Il tutto si riassumeva in questa scena: popstar miliardarie si atteggiano a «buone» chiedendoti di aiutare i poveri con le tue mille lire.
L’anno dopo, i Chumbawamba sbeffeggiarono il giochino con un album significativamente intitolato Pictures of Starving Children Sell Records.
[La ciliegina è atterrata sulla torta pochi mesi fa, grazie ai cosiddetti Mauritius Leaks, nei quali pare di vedere tutt’altro “attivismo” da parte di Geldof, che risulterebbe alquanto engagé nell’elusione fiscale internazionale.]
>Ma è soprattutto Bono Vox il campione dello «spettacolo della filantropia», più precisamente del «filantrocapitalismo» come lo chiama Harry Browne nel suo importante saggio The frontman. Bono (Nel nome del potere).
All’uscita del libro in Italia, nel 2014, Browne venne intervistato da Alberto Prunetti e Wu Ming 1, ed è utile recuperare e proporre qui la sua risposta alla domanda:
«Cos’è che spinge questi ricchi bast… ehm, individui? La loro filantropia serve solo a lavarsi la coscienza? Oppure, difendendo questa o quella causa, diventano ancora più ricchi? Pensi che il capitalismo abbia un bisogno sistemico di filantropia?».
«È un’ottima e difficile domanda, alla quale sarei tentato di rispondere, semplicemente, “Sì”. Ma cercherò di dire qualcosa di più! […] Questo progetto ideologico, naturalmente, va oltre l’auto-giustificazione dei ricchi bast… ehm, individui. È un discorso egemonico, un insistere sul fatto che non c’è alternativa a questo mondo che è non-proprio-il-migliore-ma-è-in-rapido-miglioramento dei mondi possibili. Bono, quando proprio vuole sembrare radicale, al massimo dice qualcosa tipo: “A volte mi piacerebbe che ci fosse un’alternativa al capitalismo”. Il che equivale a negare ogni possibilità di vero cambiamento. E anche in quel caso, tornerà subito al suo argomento centrale: che non c’è motivo di attaccare, o anche solo ridimensionare, il potere dei ricchi autocrati, perché saranno proprio loro a salvare i poveri.»
Quello qui descritto da Browne è, per citare Mark Fisher, puro realismo capitalista, cioè quella condizione contemporanea in cui il capitalismo ha saturato «l’orizzonte del pensabile»; è ancora, in altre parole, una variazione del refrain thatcheriano TINA, There Is No Alternative. Al capitalismo – sistema di produzione predatorio fondato sull’ingiustizia sociale ed ecologica – non esisterebbe alternativa.
Torniamo a Jovanotti e all’ambientalismo interessato di cui è portatore, in partnership coi numerosi sponsor sempre in cerca di nuove strategie di greenwashing. Qui il messaggio è: there is no alternative, ma almeno lasciamo pulito, raccogliamo i rifiuti in plastica e alcuni li trasformiamo in memorabilia del Jova Beach Party stesso.
L’attivismo di Jovanotti – eminentemente politico nei suoi effetti, per gli interessi che rappresenta e per l’insistenza con cui viene presentato come filantropico e «apolitico» – agisce nel contesto di un’oramai ineludibile crisi climatica. Crisi che il capitalismo, primo responsabile della condizione attuale, cerca di mettere a valore, anche attraverso la «responsabilizzazione del consumatore», spingendo verso stili di consumo presentati come meno impattanti – ma non meno redditizi.
Jovanotti, in sintesi, è funzionale al modello sviluppista e ai tentativi di rigenerazione in chiave green e climate friendly di questo modello, mentre all’orizzonte si profila un’apocalisse ecologica che comporterà, dal punto di vista sociale, enormi sconvolgimenti e conflitti.
L’attivismo di Jovanotti funziona anche come parafulmine alle critiche che gli vengono mosse: data la grande visibilità di cui gode, e la compiacenza e la condiscendenza che lo avviluppano, è gioco facile per lui – e per il suo ufficio stampa – neutralizzare le critiche presentandole come reazioni rancorose nei suoi confronti, mosse da «invidia» per il suo successo.
[E forse ne sono davvero convinti: per gli apologeti dell’esistente e della forma di vita neoliberale, è inconcepibile che a qualcuno possa non fotter niente di «invidiare» il «successo» di uno come Jovanotti.]
Questa, in sintesi, la «funzione Jovanotti». Ma se vogliamo comprendere appieno le narrazioni tossiche di cui è portatore il Jova Beach Party, è sul dispositivo combinato «Jova™ + WWF» che dobbiamo focalizzare l’attenzione.
2. Il Tour si è fatto perché «c’è il WWF»
Nel suo sfogo contro l’associazionismo ambientalista, Jovanotti pone upfront che «la primissima cosa che abbiamo fatto» iniziando a progettare il Jova Beach Party «è stato contattare il WWF». Non ci dice di cosa abbia parlato con la grande organizzazione ambientalista: non ci fa vedere, per esempio, un vademecum di sostenibilità da rispettare nell’organizzazione del tour, né una valutazione caso per caso delle location scelte elaborata dagli esperti del comitato scientifico di WWF Italia. A dispetto della dichiarata «totale trasparenza», non vediamo niente di tutto questo: dobbiamo farci bastare il nome del WWF messo avanti come uno scudo che difende dalle critiche – soprattutto se arrivano da soggetti che denunciano o si mobilitano “dal basso” – e resetta l’intera discussione.
Jovanotti, in breve, ci dice: se c’è il WWF non serve agitarsi. Lui ci crede: ci pensano loro. E pertanto ci dovremmo credere anche noi.
A dire il vero, WWF Italia – stando a quanto riportato nella presentazione della suo partecipazione al Jova Beach Party e nelle FAQ approntate come strumento per «chiarire i dubbi [tradotto: le critiche] più frequentemente circolati in particolare sui social» – pare esprimere una posizione più defilata.
Il WWF, così si legge, ha deciso di «partecipare» al JBP perché, coinvolgendo centinaia di migliaia di persone, sarebbe stato «una grande occasione unica […] per sensibilizzare quante persone possibile sul tema dell’inquinamento da plastica». Nella sezione del sito «Domande e risposte» troviamo scritto anche:
«Ci siamo quindi impegnati, attraverso la nostra competenza scientifica e l’esperienza maturata in tanti anni di lavoro sul campo, affinché il tour si svolga nel rispetto degli habitat e delle specie viventi.»
Dalla lettura dei paragrafi con le iniziative adottate tappa per tappa, emerge in modo chiaro che il WWF ha lavorato per garantire la riuscita del JBP. La giustificazione addotta – citiamo testualmente, con tanto di doppio avverbio – è: «Il tour si sarebbe comunque fatto ugualmente».
Noi non sappiamo con quanto anticipo rispetto alle proteste il WWF abbia «chiesto e ottenuto» che venissero spostate alcune date e location o venissero «messi in sicurezza» alcuni siti particolarmente delicati, ma è sicuro che se qualcosa è stato fatto lo si deve anche alle associazioni e alle singole persone che hanno alzato la voce. Lo stesso WWF scrive che «tutto questo lo abbiamo fatto anche confrontandoci con la LIPU (in particolare per quanto riguarda la nidificazione del Fratino) e raccogliendo le considerazioni di altre organizzazioni locali e nazionali».
Ma il punto dolente resta: per il WWF gli impatti del mega evento sono «possibili» e di volta in volta gestiti in modo da risultare «non significativi»: gli impatti ci sono stati ma è stato messo tutto a posto. Il WWF ha lavorato per «ridurre i possibili impatti sia relativamente alle localizzazioni che rispetto ai criteri generali di gestione dell’evento.» A essere ignorato qui è l’impatto che sicuramente c’è stato durante i concerti: possibile che la colonia di fratini di Rimini si sentisse tranquilla grazie alla presenza della rete e della sorveglianza di volontari e carabinieri forestali? «I possibili impatti» sono davvero stati ridotti? Oppure, come spesso accade, le raccomandazioni fornite non sono state sufficienti? Chi lo verificherà? In altre parole, chi validerà il successo o il disastro socio-ambientale della formula JBP?
Va anche fatto notare che nessun riferimento al WWF è presente nella presentazione del tour sul sito di Trident, che appunto il tour produce e organizza. Un’unica avvertenza per il pubblico pagante, sepolta tra le numerose informazioni per chi parteciperà all’evento (acquisto biglietti, indicazioni su cosa siano e come funzionino i «token», la “moneta” spendibile all’interno dell’area del concerto, o “cosa non portare”):
«Il Jova Beach Party è un evento che si inserisce in un contesto naturale unico: organizzatori e partecipanti sono consapevoli che l’ambiente deve essere preservato, rispettato e curato. Ci impegniamo per limitare al minimo il nostro impatto e lasciare i luoghi che ci ospiteranno puliti e integri. Così come li abbiamo trovati. Insieme.»
Prima di proseguire, è bene ribadire un concetto fondamentale: il «puliti e integri» non è una condizione sufficiente ad annullare le conseguenze sul «contesto naturale unico» di un evento di tale portata. Tutt’altro.
Non è una novità che le partnership con grandi organizzazioni ambientaliste vengano utilizzate dal business per ottenere una sorta di “licenza sociale”, un salvacondotto per portare avanti attività altamente impattanti per l’ambiente e il clima, realizzare grandi opere devastanti, e operare in ambienti naturali altrimenti off-limits.
In questo senso, davanti alle spiagge e montagne d’Italia la macchina organizzativa Trident e l’artista-socialmente-responsabile si sono probabilmente posti la stessa domanda di una multinazionale mineraria davanti a un giacimento di rame, di oro, di ilmenite. E se il giacimento si trova sotto la foresta amazzonica, o sotto una foresta tropicale tra le più ricche in biodiversità al mondo, la loro domanda sarà comunque: come faccio a metterci sopra le mani, nonostante l’inevitabile compromissione/distruzione?
Che si tratti di industria mineraria o di show business, i capitalisti sanno bene che le grandi organizzazioni ambientaliste rispondono perfettamente alla necessità di rendere giustificabili attività dal pesante impatto ambientale, permettendo al business di salvare capra e cavoli, procedendo nonostante tutte le criticità e i pericoli. I più navigati avranno già sentito ossimori come sustainable mining (estrazione mineraria sostenibile), riferiti a miniere a cielo aperto di rame o di ilmenite che di sostenibile non hanno e non possono avere proprio niente.
Per quanto riguarda la posizione del WWF Italia, in un’intervista rilasciata dopo il Grande Sbrocco di Jovanotti la presidente Donatella Bianchi ha ricondotto le ragioni delle critiche rivolte alla sua associazione a un fraintendimento e nulla più: «L’idea che il WWF rilasciasse le autorizzazioni, quelle spettano agli organi competenti.»
È una risposta che nulla spiega. È ovvio che le autorizzazioni del caso le rilascino le autorità competenti, nessuno poteva fraintendere questo punto. Invece crediamo sia più che sensato fare presente che il “metterci il logo” da parte di una grande associazione ambientalista sia un fattore non neutro nelle valutazioni delle autorità competenti, così come certamente pesa sull’opinione pubblica.
Ma occorre allargare il campo. Nel suo libro La buona educazione degli oppressi Wolf Bukowski, tra le altre cose, parla anche della funzione svolta in chiave di “turistificazione” dal marchio Unesco riconosciuto a città, borghi, siti archeologici, interi gruppi montuosi (le Dolomiti!).
Oltre all’incremento dei flussi turistici, conseguenza del valore attribuito al luogo dalla certificazione di “qualità”, spesso il marchio Unesco serve a giustificare, anche sul piano delle conseguenze sociali, tutte le attività di estrazione di valore legate al mercato turistico: “airbnbzzazione”, espulsione dei residenti dai centri storici tirati a lucido, “bonifica” del territorio da venditori ambulanti e/o negozietti di alimentari gestiti da immigrati, applicazione di Daspo urbani e ordinanze antidegrado ecc.
Il marchio Unesco, in virtù di quanto detto sinora, sta sostituendo il concetto, ritenuto antiquato, di «riserva naturale» o «parco naturale». Concetto che danneggia il mercato, o quantomeno non lo favorisce. Mentre un parco è lì per chiunque ed è esplicitamente pensato in quei termini, da una riserva finalizzata all’estrazione di valore i poveri verranno esclusi. Al massimo ci lavoreranno come inservienti di qualche tipo –e per questo “privilegio” dovranno pure ringraziare, un po’ come i volontari del Jova Beach Party.
Parlare degli effetti sociali devastanti di simili «certificazioni» è necessario anche per capire cosa sia oggi il greenwashing.
3. Il nuovo greenwashing: da narrazione diversiva a condicio sine qua non dell’estrazione di valore
C’è stato un tempo in cui il lemma «greenwashing» identificava le campagne con cui l’impresa privata comprava una nuova immagine, a fronte di una percezione pubblica negativa del suo business.
Oggi questa prassi è un ingrediente indispensabile della ricetta con cui soggetti pubblici e privati si ritagliano un preciso posizionamento valoriale. Greenwashing, una spolverata di CSR, un pizzico di marketing, abbondanti pubbliche relazioni… Il campo della crisi ecologica è uno dei terreni oggi meno divisivi – ovvero, sul fatto che sia in corso una crisi ecologica siamo d’accordo più o meno tutti – ed è quindi campo privilegiato per questo genere di operazioni.
Il greenwashing non è più una “pezza” messa in un secondo momento, una mano di vernice verde per abbellire l’immagine di un business già esistente, ma un condono preventivo indispensabile ad avviare un business di tipo nuovo, che parte già dipinto di verde, perché senza il “verde” non estrarrebbe valore.
Questo avviene in un contesto generale nel quale lo stesso cambiamento climatico diviene strumento di potere agito esplicitamente dal capitalismo. Come scrive Matteo De Giuli in un post intitolato Chi scommette sul disastro:
«[…] le crisi sono sempre momenti ambivalenti per il capitalismo – se da un lato rappresentano un rischio per la sopravvivenza del sistema, dall’altro sono anche occasioni per creare nuove opportunità di profitto. E così, davanti a una crisi potenzialmente letale come quella climatica, che potrebbe portare a ridiscutere le basi di un sistema non più sostenibile, il sistema stesso si sta riorganizzando per trovare nuovi modi di riassorbire l’emergenza senza doversi per questo mettere in discussione.»
Chicco Testa, del quale ci occuperemo tra poco, lo dice esplicitamente in questa intervista:
«Aumentano le aziende che abbracciano una strategia di crescita in cui la variabile ecologica ha un peso rilevante e non solo per adeguarsi alle norme ambientali sempre più stringenti, ma perché da un punto di vista del business sono i consumatori, il mercato in generale, che lo chiedono. E che premiano appunto quelle che fanno scelte sostenibili. Non si tratta più semplicemente di greenwashing, semplice cosmesi di comunicazione, ma di scelte consapevoli prese nei consigli di amministrazione.»
Per tornare alle certificazioni: il fatto che Jovanotti sbandieri di essere «WWF approved» non solo è pienamente coerente col discorso sul filantrocapitalismo, ma ci fa compiere un ulteriore passo giù per una china pericolosa. Oggi alcune entità, istituzioni e organismi si arrogano il diritto di fornire patenti di «sostenibilità ambientale», ricevute le quali si potrà avviare qualunque business.
Le agenzie che valutano l’impatto ambientale esistono da tempo, ma finora valutavano l’impatto di aziende, opere pubbliche, infrastrutture, attività produttive ecc. Qui siamo oltre: la retorica usata da Jovanotti col beneplacito di un’organizzazione come il WWF – che, per quanto grande e con migliaia di soci, può avere posizioni politiche controverse e non condivise da tutti – giustifica, pittandolo di verde, un grande evento privato e a scopo di lucro che danneggia un patrimonio ambientale collettivo.
Fatte le debite distinzioni, si tratta della medesima dinamica rilevabile con l’introduzione delle certificazioni biologiche nella filiera alimentare: patentini sempre più ambiti e nel contempo sempre più vuoti, con cui si è finito per perdere totalmente il percorso del «cibo sano ed etico» per arrivare a un mero «marketing biofriendly». Il mercato delle certificazioni e della «brand reputation» introduce meccanismi che sostituiscono, anzi, istituzionalizzano la fiducia. Non sono più capace di guardare un pomodoro al mercato e capire quanto sia sano, men che meno ho la possibilità di stabilire un rapporto umano con il contadino? Ecco, mi affido a un marchio.
Non sono capace – per quanto possa suonare incredibile! – di capire da me se un Grande Evento – ruspe ed escavatori a preparare il terreno, TIR carichi di materiali, montaggio di grandi strutture e impianti, affluenza di decine di migliaia di persone, decibel in libertà ecc. – abbia o meno un impatto grave su una zona umida, un ecosistema di dune o un ambiente d’alta montagna? Ecco, mi affido a un marchio. Mi affido, dunque compio un atto di fede. Il WWF condona preventivamente il mio peccato, e io vado al concerto in pace.
Nella narrazione di Jovanotti + Trident + WWF tutto è andato liscio finché qualcuno non ha iniziato a porre domande non sottomesse all’atto di fede. Domande che non rinunciavano a priori alla contestazione, a monte, del “modello” in cui può essere inquadrato il Jova Beach Party, tantomeno si accontentavano di rassicurazioni sulla raccolta dei rifiuti in materiale plastico.
4. Il Grande Evento come Grande Opera “green”
Ampio spazio ha ricevuto sui media quello che è stato definito lo «sfogo» di Jovanotti, pubblicato su Facebook il 2 settembre scorso. È il caso di riportarne qui il passaggio più citato:
«Non mi sarei mai aspettato, nonostante non sia un ingenuo rispetto a questo genere di cose, che il mondo dell’associazionismo ambientalista fosse così pieno di veleni, divisioni, inimicizie, improvvisazione, cialtroneria, sgambetti tra associazioni, protagonismo narcisista, tentativi di mettersi in evidenza gettando discredito su tutto e su tutti, diffondendo notizie false, approfittando della poca abitudine al “fact checking” di molte testate. Il mondo dell’ambientalismo è più inquinato dello scarico della fogna di Nuova Delhi!»
Quest’invettiva è stata presentata dai media come uno sfogo giustificato. Per la presidente di WWF Italia, parte doppiamente in causa, le parole di Jovanotti sono «comprensibili» e «ci hanno messo davanti ad uno specchio, a domandarci chi siamo veramente e come vogliamo lottare per salvare il mondo.»
Ma, come abbiamo riportato sopra, questo sfogo era stato preceduto il 9 agosto da una prima esternazione di Jovanotti, sempre via Facebook, a seguito dalle mancate autorizzazioni per la data di Vasto del suo tour:
«A Vasto ha vinto il fronte del NO, quello di cui l’Italia è pervasa. Quello che rende il Paese immobile e fa in modo che il ‘sommerso’ resti sommerso nell’interesse di molti. JBP è un luogo sicuro, la sicurezza è sempre stata al primo posto, ma a Vasto non hanno voluto verificare. A Vasto la commissione ha detto NO, a prescindere. In Italia a volte le cose vanno così lo sapete, ma io non mi rassegno, molti di noi non ci rassegniamo.»
«L’Italia dei NO» è un leitmotiv che ben conosciamo, perché regolarmente brandito contro ogni istanza di salvaguardia dei territori, e soprattutto contro chi, persone o movimenti, lotta per queste istanze. Si tratta di un’immagine falsante, smentita dai dati sul consumo di suolo in Italia, che registrano una costante crescita, e dalle politiche «sviluppiste» e infrastrutturanti che rispondono alle richieste del core business del capitalismo italiano, tutto cemento e tondino. L’espressione «Italia dei NO» serve solo a delegittimare a monte ogni discorso critico e ogni forma di opposizione sociale e politica alla devastazione dei territori.
Nel suo Un viaggio che non promettiamo breve, a proposito della retorica sull’«Italia dei NO» Wu Ming 1 scrive con uno sguardo retrospettivo:
«In tutta Italia, come in altri paesi, lottavano comitati, coordinamenti, movimenti di lotta popolare, gruppi che si opponevano a grandi opere ritenute dannose, inutili e imposte dall’alto: autostrade messe lì a far nulla, trafori perché traforare è bello (il buco! il buco!), stazioni perché dànno lustro, megacentri commerciali senza commerci, ponti gettati tra Scilla e Cariddi, imprescindibili costruzioni che nel giro di pochi anni si rivelavano ecomostri e toccava demolire col tritolo… Opinionisti, politici e affaristi raccontavano un’”Italia dei No”, paese dove non si riusciva a costruire nulla, nazione da “sbloccare” perché accidiosa e nemica del fare, il fare, sempre il fare, non importava a quale scopo, viva il fare. Si sfornavano leggi per spingere, accelerare, rimuovere gli ostacoli, fare! […]
Se si badava ai fatti, l’Italia era l’opposto: un paese di sì detti con noncuranza e di “opposizioni postume”, lamentele tardive, indignazione a scempi ormai compiuti.»
La dichiarazione di Jovanotti «a Vasto ha vinto il fronte del NO» conferma che, se messi alle strette, i difensori del Jova Beach Party come di qualunque altro Grande Evento – ne vedremo delle “belle” con le Olimpiadi invernali che si terranno tra Lombardia e Veneto nel 2026 – adottano le medesime giustificazioni usate per far passare le Grandi Opere Dannose, Inutili e Imposte.
Come logica conseguenza, si additano gli stessi nemici. Non a caso Il Foglio – tribuna del peggiore sviluppismo e di un esplicito negazionismo climatico – ha coniato un neologismo per collegare tra loro No Tav, No Tap, No Triv e «No Beach». A dispetto dell’intento denigratorio, l’intuizione non era peregrina, solo che andrebbe applicata al campo avverso: è il Jova Beach Party ad avere molti aspetti in comune col traforo in Valsusa o le trivelle in Adriatico. A cominciare dalla retorica usata per difenderlo.
A riconferma di ciò, si consideri di nuovo la posizione del WWF nel dar conto della propria partecipazione al grande evento: «Il tour si sarebbe comunque fatto ugualmente». È la medesima logica che vale per tutte le grandi opere inutili e imposte: ciò che s’è deciso di fare dev’essere fatto, e lo si deve fare perché così s’è deciso. Questo è, testualmente, l’argomento univoco e passepartout delle cosiddette «madamine» sì Tav.
Insomma, prima si descrivono le grandi opere come “eco-friendly”; se questo non basta, si impone dall’alto l’idea che siano inevitabili.
5. Non c’è «scienza ambientale» che tenga senza il conflitto
Nei giorni seguenti al Grande Sbrocco di Jovanotti, tra i tanti articoli pubblicati e per la quasi totalità tesi a ricondurre quelle parole a ragionevole presa di posizione, va segnalato un corsivo a firma di Chicco Testa – l’indimenticato «ce tocca shit e pure radioattiva ma tanto il nucleare è di sinistra», attualmente presidente di FederAmbiente – pubblicato sull’edizione de Il Mattino del 4 settembre scorso.
Ben poco originali le argomentazioni, le stesse che si potevano leggere su quasi tutti i giornali in quei giorni: «[…] il combinato disposto fra la gelosia per il WWF e la voglia di farsi notare a tutti i costi ha prodotto una guerriglia mediatica che ha mandato fuori dalle grazie di Dio il solitamente mite Lorenzo nazionale».
Si tratta di un entusiastico endorsement a Jovanotti, o di un bacio della morte, a seconda di come vogliamo vederla. Qui è ancora più esplicito il piano di cui si diceva poc’anzi:
«Ce li ricordiamo i NoTriv, NoTap, NoNuke, NotTav, NoTube, NoWaste, NoHydro e via negando? Non gli è parso nemmeno vero di potere rompere il plauso e il consenso che la bella iniziativa di Jovanotti stava sollevando tra i giovani scagliandogli in faccia tutte le specie animali e vegetali che abitano le spiagge italiane.»
L’arroganza e la tracotanza di questo corsivo confermano la correttezza dell’equivalenza «Grandi Opere = Grandi Eventi»: la colpa è dei No Tav e «via negando». Quella di Chicco Testa è una forma di negazionismo radicale: non solo ricusa la validità delle ragioni di chi si oppone a tante opere inutili e dannose, ma nega tout court che possano esistere ragioni per essere contrari a grandi opere. Nella sua lettura – forse autoriflettente – tutto si riduce a vanità e gelosia, nonché a «oscurantismo di massa», per dirla col sottotitolo di un suo – e di Sergio Staino – libro pubblicato nel 2017.
La ricetta di questo rappresentante degli interessi di grandi aziende energetiche è, ancora una volta, il presunto «pragmatismo» capitalista che maschera il realismo capitalista. L’invito ad affidarsi a «chi se ne intende», a chi sa risolvere un problema spassionatamente, col ricorso all’innovazione tecnologica e basandosi sulla realtà di fatto, è una mela avvelenata. Per farcela mangiare si rimuove il fatto che, nella cornice attuale, la «competenza» e la «lucidità» di chi andrebbe delegato a risolvere i problemi, l’«innovazione tecnologica» e la stessa «realtà di fatto» non sono affatto «neutre», ma sono inserite in – e plasmate da – rapporti di produzione, di classe, di potere.
Nel citato corsivo, Testa avalla esplicitamente l’affermazione di Jovanotti «l’ecologia è una scienza, se si trasforma in un terreno di scontro fra tifoserie è un danno per tutti». Quest’approccio scientifico-fideista propaganda scienza e tecnica come verità al di sopra della politica e delle contraddizioni sociali, quando invece sono socialmente, storicamente e politicamente connotate. Siccome il comitato scientifico del WWF si è espresso, allora si può star certi di essere nel giusto, senza perdere tempo a problematizzare criticamente il perché e il percome il WWF si sia espresso.
Un approccio deleterio, tossico, che confligge totalmente con una pratica di studio e condivisione del sapere «in basso» come quella, per esempio, del tanto odiato movimento No Tav della Valsusa, una delle punte d’avanguardia del movimento ecologista italiano. In quell’ambito, la ricerca e la condivisione orizzontale della conoscenza hanno fatto sì che una larga, molto larga, fetta di persone che non sono “scienziati di professione” riescano a padroneggiare complesse argomentazioni tecniche e scientifiche, senza mai verniciarle di presunta neutralità, anzi calandole in un contesto di critica politica.
Lo abbiamo sentito ripetere troppe volte il cliché tecnocratico «Non ci sono soluzioni di destra o di sinistra, ci sono solo soluzioni giuste», «le buone soluzioni sono apolitiche» ecc. È falso. Non sono possibili «buone» soluzioni se non si riconosce l’esistenza del conflitto. Ciò vale anche per la buona comunicazione scientifica.
Non c’è lotta al negazionismo climatico senza lotta alle «grandi opere». Questo il titolo, che Alpinismo Molotov sottoscrive, di un articolo di Wu Ming 1 recentemente pubblicato su Jacobin Italia. Nella parte conclusiva si legge:
«Le grandi opere sono negazionismo climatico applicato, investono ancora su questo modello di sviluppo, su un futuro visto come prolungamento lineare del presente».
Anche il Grande Evento Jova Beach Party, risultato del dispositivo combinato Jovanotti™+ WWF + partner commerciali (come lo sponsor E.on) è negazionismo climatico applicato, perché racconta e diffonde una narrazione rassicurante del futuro come prolungamento lineare del presente, un futuro “green” garantito dalle buone pratiche – ovviamente individuali, del singolo consumatore – e dal «pensare positivo».
Postilla. E non hai ancora visto niente
Giunti oramai alla fine di questo tour, il dato veramente positivo è che molti non hanno sposato il presobenismo/perbenismo jovanottiano e nemmeno le toppe «comunque ugualmente» messe dal WWF. Al contrario, hanno agito con la convinzione che il Grande Evento si sarebbe dovuto fermare, per la tutela collettiva di un ambiente naturale che è prima di tutto parte di una comunità. Ambiente messo a rischio e stravolto in nome del business, di un interesse privato spacciato per «grande festa» e nobilitato da un messaggio “eco-friendly”.
Che mille ostacoli si innalzino, che cento barricate blocchino le strade dei futuri Grandi Eventi. L’«Italia dei No» è una narrazione tossica, eppure eppure eppure… Se un’Italia che dice No cominciasse a unirsi davvero… Eppure eppure eppure… Se un’Italia che dice No cominciasse a unirsi davvero…
milioni di serrature
non riuscirebbero a tenerci chiuso
il cuore.
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1. Alpinismo Molotov è un collettivo sparso tra Alpi e Appennini, nato nel 2014 su Giap nel corso di intense discussioni intorno a due libri di Wu Ming: Point Lenana e Il sentiero degli dei. Questa «banda disparata» ragiona su – e cerca di mettere in pratica – modi di andare in montagna depurati da machismi, nazionalismi, esasperazioni sportive e degenerazioni commerciali. AM ha un blog tutto suo, una pagina Facebook e un profilo Twitter, un canale Telegram, e ogni tot anni organizza una festa galattica, «Diverso il suo rilievo».
Articolo pubblicato in origine su GIAP https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/09/jova-beach-party/