Recensioni

L’Antropocene horror è qui

Basta guardarsi intorno: l’Antropocene horror è già in mezzo a noi. Trenta gradi fino a metà ottobre e adesso un brusco cambiamento con nubifragi violenti che, scontrandosi con un’antropizzazione e una cementificazione selvagge, potrebbero avere effetti devastanti. E poi guerre, sempre più guerre alle quali si accompagna un uso indiscriminato di armi che, oltre a causare terribili genocidi, stanno distruggendo il Pianeta. È incredibile: i potenti pensano alla cosiddetta “transizione ecologica” e nel frattempo costruiscono e sovvenzionano armi per i numerosi conflitti in corso nel mondo, di cui la guerra in Ucraina e quella israelo-palestinese (che negli ultimi giorni sta mediaticamente coprendo la prima) sono soltanto la punta di un tragico iceberg. Una punta che affiora dall’acqua perché ormai anche gli iceberg si stanno sciogliendo. E nel frattempo, mentre il Titanic-Pianeta sta affondando, tutti sono impegnati in una grande festa nei saloni più eleganti: persi nelle loro frenetiche occupazioni, nel lavoro oppure in viaggi e vacanze, perché con trenta gradi si può andare al mare fino a metà ottobre, che meraviglia! Intorno a noi si sta svolgendo un funereo carnevale, come nel racconto La maschera della Morte Rossa di Edgar Allan Poe: il principe Prospero e i suoi dignitari, chiusi nel loro castello, si danno a folli feste spensierate ma la Morte Rossa, anche se è chiusa fuori dai cancelli e dai portoni, può sempre entrare in qualsiasi momento ed annientare tutti. Come i dignitari del principe, sembra che anche una grande fetta dell’umanità abbia rimosso il pericolo incombente rimuovendolo dalla coscienza: non la “Morte Rossa” chiusa fuori dai cancelli in questo caso, ma i cambiamenti climatici, l’inquinamento, le guerre, le prevaricazioni sociali inferte dalla società capitalistica. Tutto rimosso, allontanato come qualcosa che non ci riguarda.

Meno male che c’è il cinema, si potrebbe azzardare. E meno male che c’è un cinema horror che racconta molte di queste stringenti problematiche aprendo nuovi orizzonti di immaginario: come scrive Fabio Malagnini nel sottotitolo del suo bel libro Antropocene Horror. Mostri virus e mutazioni, si tratta del “cinema dell’orrore nell’era della crisi climatica”. Perché “i demoni e gli zombie dell’horror oggi spopolano nell’immaginario dell’Antropocene, un termine coniato negli anni Ottanta dal biologo Eugene F. Stoermer e poi introdotto dal Nobel Paul J. Crutzen per indicare il nostro ingresso come attore geologico nella storia naturale di questo pianeta” (p. 8). D’altra parte, siamo in un’epoca in cui, “cadute le barriere geografiche, il contatto con il non umano è inevitabile, mostri o virus si spostano ora come noi nell’infrastruttura globale che ha riunito i continenti in una nuova Pangea” (p. 7). In questo cinema, gli errori umani, il loro approccio sbagliato nei confronti di animali, piante, ecosistemi si trasformano in mostri. Il mostro, insomma, non è già presente in natura ma è generato stavolta non dal “sonno della ragione”, per utilizzare parte del titolo di un celebre quadro di Francisco Goya, ma da un uso eccessivo e spregiudicato di questa stessa ragione, ormai asservita a un sistema capitalistico che non esita a uccidere, catturare, torturare, ammassare in allevamenti intensivi qualsiasi animale e a devastare prati, alberi e piante. La scienza e la razionalità hanno assunto ormai un atteggiamento schizofrenico e bipolare: dicendo di fare il nostro bene ci stanno lentamente annientando mentre l’intervento umano trasforma gli ambienti naturali in vere e proprie enclave spettrali. Il cinema horror – nota Malagnini – riesce a infestare il nostro tempo senza appartenervi veramente; riesce a entrare a passi felpati nella nostra quotidianità e a ricordarci che il mostro può celarsi anche nel percorso che facciamo per recarci al lavoro o in un luogo fuori città dove trascorriamo il weekend con gli amici.

Il libro è suddiviso in diversi capitoli che affrontano le diverse declinazioni del cinema horror in relazione alla natura e all’ambiente. Nel primo capitolo, intitolato Apocalisse zombie, il tema principale è quello del contagio e dell’infezione: ciò che non è umano, quando viene aggredito, può attaccare l’uomo tramite il contagio trasformandolo – e qui si apre un fortunatissimo immaginario horror – in zombie. Non a caso, l’autore scrive che, per quanto lo riguarda, “la prima reazione all’ondata Covid-19, durante le fasi iniziali del lockdown, è stata quella di organizzare una retrospettiva domestica di George A. Romero seguita dal ciclo di Resident Evil di Paul W.S. Anderson (altri sei film tra 2002 e 2016)” (p. 13). L’immaginario zombie, con i temi della malattia e del contagio, ci ricorda che stiamo vivendo un’epoca che alcuni studiosi, utilizzando un termine foucaultiano, chiamano “biopolitica della catastrofe”. Come scrive l’autore, “l’overdose di apocalisse degli anni Duemila registra in fondo il passaggio dal principio di precauzione, che implica una scelta in funzione di un futuro governabile, a quello di prevenzione, che non esclude affatto la catastrofe ma, sapendo di convivere con questa eventualità, mira a limitare i fattori di rischio, ottimizzando le risorse in un orizzonte di compatibilità sociali, economiche eccetera” (p. 42).

Il secondo capitolo, Sacrifici rituali, è dedicato all’analisi dei film horror incentrati sull’arrivo di un estraneo ‘cittadino’ all’interno di una comunità rurale dedita a riti ancestrali. Lo spazio della wilderness è infatti spesso abitato da comunità che vedono come ostile l’ingerenza dell’homo technologicus, di personaggi che giungono da luoghi antropizzati e pervasi della tecnologizzazione imposta dal capitale. Si tratta di lembi di territorio che a quest’ultimo sono stati sottratti per vari motivi, autoregolati da un tempo ‘mitico’ e ‘incantato’. Uno dei film capofila del cosiddetto folk horror è The Wicker Man (1973), diretto da Robin Hardy, con Christopher Lee nei panni di Lord Summersdale, il capo del villaggio. L’irreprensibile sergente Neil Howie (Edward Woodward) si reca su una remota isola delle Ebridi scozzesi alla ricerca di una ragazza scomparsa per scontrarsi con una comunità chiusa e dedita ad arcani rituali. Alla fine scopre di essere caduto in una trappola e di essere la vittima sacrificale di turno, offerto appunto in sacrificio a Nuada, il dio del Sole, per propiziare il raccolto. Come nota Malagnini, il paesaggio, nel film come nel folk horror in genere, ha un ruolo da protagonista: le riprese indulgono spesso sul paesaggio, spesso non selvatico ma addomesticato dalla mano umana a un livello pre-tecnologico in cui vigono attività come l’agricoltura e l’allevamento. Se il “primitivo” per il Frazer de Il ramo d’oro “rappresentava lo stadio iniziale della civiltà umana, nel folk horror diventa il mito del suo eterno ritorno” (p. 68). Nel folk horror statunitense – e ricordiamo allora, ad esempio, l’iconico Grano rosso sangue (Children of the Corn, 1984), di Fritz Kiersch, tratto da un racconto di Stephen King, che ha generato un remake nel 2009 e un prequel nel 2020 – la religione arcaica e pagana appare sovrapposta al nuovo culto cristiano e il culto finisce per sembrare “posticcio e ambiguamente artificiale” (p. 70). Tra i folk horror più recenti è doveroso ricordare Il rituale (The Ritual, 2017) di David Bruckner, tratto da un romanzo di Adam Nevill, e Midsommar – Il villaggio dei dannati (Midsommar, 2019) di Ari Aster, i quali sono capaci di rivelare allo spettatore “quel senso del passato che giace proprio dietro il presente” (p. 76). Entrambi i film (nel primo un gruppo di amici inglesi – inglesi come il Jonathan Harker che si reca nella selvaggia Transilvania in Dracula – durante un trekking nelle montagne svedesi incappano in una foresta dominata da una misteriosa creatura demonica mentre nel secondo sono degli studenti americani a raggiungere una comunità svedese dedita al paganesimo) sono molto abili a fondere il senso del paesaggio alla “tribù mostruosa”. I protagonisti scopriranno a loro spese che la wilderness, concepita solo come spazio di vacanza e di evasione dalla città, può celare risvolti mostruosi.

Ma gli spazi poco antropizzati, oltre a celare arcane e misteriose comunità, possono racchiudere in sé anche un mostro cannibale, come Malagnini ci dimostra nel capitolo terzo, Gotico cannibale. Quando si esce dalla strada battuta, come in Wrong Turn (2003) o in Le colline hanno gli occhi (2006), si rischia di incontrare uno o più folli psicopatici, spesso dediti pure al cannibalismo. La presenza del mostro è ‘perturbante’ perché va oltre la sfera cognitiva di chi vive in città: e non si tratta di un banale killer psicopatico cittadino ma di una presenza che, nel gotico americano, “evoca lo stato di natura, con tutti gli annessi di violenza che questo comporta” (p. 93). L’incontro con il mostro fuori città “destabilizza e il trauma che si lascia alle spalle non si può estinguere” (p. 94), come in Un tranquillo weekend di paura (Deliverance, 1972) di John Boorman o ne I guerriglieri della palude silenziosa (Southern Comfort, 1981). Quando si esce dalla comfort zone dell’antropocentrismo e dell’eurocentrismo (gli attuali WASP statunitensi non sono altro che i discendenti di colonizzatori malati di eurocentrismo) si può perciò incontrare un cannibalismo che altro non è se non “il riflesso capovolto della propria bulimia coloniale, proiettato direttamente sulle vittime e sui veri cannibalizzati” (p. 100). Ma i mostri non si nascondono soltanto nelle lande desolate degli States: in Frontiers – Ai confini dell’inferno (Frontière(s), 2007) di Xavier Gens, “un gruppo di ragazzi, in fuga da uno sconvolgimento politico che ha portato al potere in Francia l’estrema destra, finisce tra le grinfie di una famiglia incestuosa e cannibale di freaks neonazisti (p. 114), mentre in Calvaire (2004) di Fabrice Du Weltz, un cabarettista di passaggio in un paesino della Francia profonda, finisce vittima dei paesani che lo trattano alla stregua di un animale. Questi ultimi, infatti, nella società contemporanea non vengono certo trattati con ogni riguardo (e non stiamo parlando di cani e gatti): bovini, pecore, capre, maiali e polli, ammassati in allevamenti intensivi che, secondo un report di Greenpeace, rilasciano nell’atmosfera emissioni di gas serra in misura maggiore rispetto a quelli rilasciati dai gas di scarico degli autoveicoli, non attendono altro che di essere macellati e mangiati. Perciò – continua l’autore – “sembra quindi del tutto ragionevole collegare il pensiero e il movimento antispecista alla sfera della riflessione sulla catastrofe ecologica. Il nesso più ovvio è che abbiamo disposto degli altri animali come abbiamo disposto finora di qualsiasi risorsa naturale a portata di mano” (p. 118). E se si rovesciasse questa prospettiva e considerassimo come ‘cannibale’ un normalissimo ‘cittadino’ che si mangia la sua bella bistecca in un ristorante di lusso? Nella produzione cinematografica più recente, infatti, il cannibale non è più uno psicopatico o un subumano che non si rende conto delle sue azioni ma “una persona del tutto conscia e partecipe del nostro mondo” (p. 119). Ricordiamo, allora, almeno Raw – Una cruda verità (Raw, 2016), di Julia Ducournau, in cui la vegetariana Justine, studentessa universitaria di Medicina, alla fine scopre di non poter resistere all’appetito per la carne umana.

Il capitolo 4, Animal House, è dedicato a quei film horror in cui il mostro è né più né meno che un animale. In molti film degli anni sessanta e settanta, come Gli uccelli (Birds, 1963) di Alfred Hitchcock, Frogs (1972) di George McCowan, Long Weekend (1978) di Colin Eggleston, “la natura abbandona la propria presunta ‘indifferenza’ per assumere l’iniziativa ed espellere gli umani dal proprio grembo” (p. 128). Quando gli esseri umani utilizzano sostanze tossiche in un luogo incontaminato, come in Frogs, o invadono l’ambiente naturale con fiocine, fucili, tavole da surf e campeggi come in Long Weekend, gli animali alfine si ribellano. Il sottogenere dei survival horror appare costruito su un plot in cui “un gruppo di turisti/surfisti/velisti perde accidentalmente il contatto con la civiltà per ritrovarsi improvvisamente nell’habitat dell’animale che lo identifica come preda” (p. 175). I personaggi umani, allora, si ritrovano spogliati di ogni pretesa di suprematismo umano scoprendosi essi stessi animali “come loro” in “un mondo capovolto” (p. 176). Orche assassine, squali, alligatori, piranha, orsi grizzly, giganteschi cinghiali rappresentano una sorta di ‘ritorno del represso’ che scardina qualsiasi pretesa di suprematismo umano: chi è stato preda degli umani o è stato allontanato dal proprio habitat o esposto a rischio di estinzione non può fare altro che ribellarsi, se non altro per la sua stessa sopravvivenza. Come giustamente ricorda l’autore, Donna Haraway, in Chtulucene  arriva a identificare proprio in una nuova alleanza interspecie la chiave per superare anche la prospettiva dell’Antropocene […] Per Haraway non si esce dall’Antropocene senza una narrazione diversa, un pensiero ‘tentacolare’ che crei parentele (kin) e legami con altri animali” (p. 179). Molti degli animal horror infatti presentano una critica neanche troppo velata al sistema capitalistico. In Alligator (1980), di Lewis Teague, il coccodrillone Ramon, alla fine si presenta alla festa del sindaco e dei notabili della città che lo hanno inconsapevolmente creato: gettato nelle fogne cittadine nel 1968, nel 1980 si rivolta contro un sistema industriale che rilascia scarti tossici e biologici nelle fogne cittadine. L’alligatore si trasforma in mostro perché si nutre degli scarti biologici e delle carcasse di cani usati come cavie dall’azienda farmaceutica di Slade (Dean Jagger), un vero e proprio “pescecane umano che conduce esperimenti illegali” (p. 186).

Il capitolo 5, Ecologia dell’orrore, si focalizza invece su quei film in cui a ribellarsi non sono gli animali ma le piante. Spesso considerate nell’opinione comune al pari di disponibili “cose”, viste perlomeno nelle forme domestiche di campi agricoli o di parchi nazionali, le piante, nell’immaginario del plant horror, possono trasformarsi in organismi agenti e ribelli. La tesi di fondo di questi film è: leviamoci dalla mente l’idea che ogni parte del mondo sia un parco tematico, più o meno eccitante. La wilderness più sconosciuta può celare stavolta non sette che perpetrano sacrifici umani o psicopatici cannibali, non mostruosi animali ma la sua componente primaria: l’erba, le piante, gli alberi che possono trasformarsi in veri e propri pericoli per gruppi sconsiderati di esseri umani. Se le piante sono sempre state considerate qualcosa di ‘altro’ rispetto all’umano, soprattutto negli anni cinquanta sono prolificati film di fantascienza che le trasformano in alieni invasori come La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, 1951), L’invasione degli ultracorpi (Invasion of Body Snatchers, 1956), L’invasione dei mostri verdi (The Day of the Triffids, 1963). Più recentemente, gli studi nel campo dell’ecocriticism e della deep ecology hanno permesso di valorizzare l’intelligenza non umana, a partire proprio dal mondo vegetale. In ambito letterario si può ricordare un romanzo come Il sussurro del mondo (The Overstory, 2019) di Richard Powers, in cui un personaggio, la botanica Patricia Westerford, soprannominata “Patty la Pianta”, costruisce una teoria basata sulla comunicazione senziente delle piante, anche a distanza. Sul tema dell’albero ‘intelligente’ è costruito anche l’horror thriller E venne il giorno (The Happening, 2008), in cui le piante, minacciate per la loro stessa sopravvivenza, si coordinano per eliminare la popolazione umana. In Nell’erba alta (In the Tall Grass, 2019) di Vincenzo Natali, l’antropocentrismo si annulla ben presto nel campo ricoperto di arbusti: l’orientamento e i sensi umani non valgono più nulla di fronte all’intrico delle piante, rappresentate come una sorta di divinità guidate da una misteriosa pietra. In questo capitolo, l’autore prende in esame anche il climatic horror la cui novità consiste nel far emergere forze e minacce intrappolate “nel tempo solidificato e congelato attorno ad esse” (p. 206). Spesso in agguato da millenni nel fondo dei ghiacci, queste minacce vengono liberate da esseri umani inconsapevoli: si tratta, in definitiva, del risveglio degli Antichi, così ben descritto da Lovecraft con Le montagne della follia. Ad esempio, in The Last Winter (2006), di Larry Fessenden, gli elementi spettrali sono intrecciati alle problematiche e alle contraddizioni che avvolgono il delicato e attualissimo tema del riscaldamento globale.

Nel capitolo 6, Cartografie perturbanti, l’autore prende in esame lo spazio dell’orrore che si rivela come un profondo elemento ‘perturbante’: a scoprirsi stracolmi di orrore sono infatti, come già accennato, luoghi e spazi che sono stati ricondotti a una quotidianità familiare e che invece si scoprono come profondamente ‘diversi’ e ‘altri’. Spesso, spazi naturali che appaiono  familiari, si rivelano in realtà come ‘alieni’: quasi come un epigono di Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Strugackij e del film da esso tratto, Stalker (1979) di Andrej Tarkovskij, si presenta infatti Annientamento (Annihilation, 2018) di Alex Garland, tratto dal primo capitolo della Trilogia dell’Area X di Jeff Vandermeer, in cui la natura della Zona X è riconfigurata da un’entità aliena. Lo sguardo alieno, in questo caso, “evoca attraverso l’immaginario climatico la nostra inadeguatezza a proiettare i comportamenti individuali in uno schema sistemico più ampio e tra funzioni non continue: tutto l’opposto della retorica ‘ambientalista’ che porta, ad esempio, la pubblicità a rassicurare e a gratificare l’automobilista perché acquista un modello di auto leggermente meno inquinante” (p. 241). In un celebre film come Picnic a Hanging Rock (Picnic at Hanging Rock, 1975), di Peter Weir, il perturbante nasce dal contrasto tra lo spazio vittoriano, addomesticato, in cui vivono le collegiali, e la wilderness australiana incontaminata e imperscrutabile, “aliena e monolitica come può esserlo una parete di roccia vulcanica” (p. 244).

Al di là della visione antropocentrica si muove anche il postumano che Malagnini esamina nel capitolo 7, Dal body horror al postumano: quest’ultimo termine indica una condizione “mediata da robotica, editing genetico, piattaforme digitali” (p. 268). L’analisi si focalizza soprattutto sul cinema di David Cronemberg e su quello di suo figlio Brandon: i mutamenti del corpo in una direzione posthuman sono fondamentali in film come Videodrome (1983), eXistenz (1999) fino al più recente Crimes of the future (2022), in cui il corpo si trasforma in una fabbrica di nuovi organi mai visti prima. Lo stesso corpo muta in un pianeta che sta mutando, un pianeta transgenicamente modificato e ricoperto di plastica, inquinato e sottoposto a un irreversibile processo di global warming. Sulla creazione di un doppio non umano diverso da sé si concentra invece Infinity Pool (2023), l’ultimo film di Brandon Cronemberg, in cui gli americani ricchi in vacanza nel Sud del mondo possono perpetrare qualsiasi violenza e sfuggire alla legge clonando un loro sosia in carne ed ossa che sarà offerto ai parenti delle vittime per eseguire la condanna. Ovviamente, in questo capitolo trovano spazio anche diversi film horror dedicati alla metamorfosi in animale, da L’ululato (The Howling, 1981) di Joe Dante fino a La mosca (The Fly, 1986) di David Cronemberg, il quale ci parla di postumano come di una condizione “emergente dall’Antropocene raccontandoci di carne, teletrasporto, aborto, mostri da laboratorio, computer, DNA e sesso” (p. 284).

Fabio Malagnini, nel suo denso e interessante saggio, corredato di numerose immagini, dimostra quindi benissimo come, nell’immaginario horror cinematografico, il rassicurante Antropocene nasconda nel suo seno mostri terribili che non fanno altro che rivoltarsi contro l’antropocentrismo stesso e la pretesa umana di dominare qualsiasi elemento naturale. Ma il mostro più terribile di tutti, che scatena morte e distruzione, che devasta e annienta, è probabilmente il sistema di produzione capitalistico il quale, tramite il suo razionalismo malato, elimina qualsiasi forma di vita vegetale, animale e anche umana che non riconosce simile a sé. Ecco perché, per l’uomo inconsapevole e a suo agio nell’universo tecnologizzato della sua quotidianità, un semplice spazio disabitato, ricoperto di foreste o caratterizzato dalla natura selvaggia, può trasformarsi in un pericolo dai risvolti perturbanti. Alla fine, gli spazi e le creature che ancora riescono a sopravvivere alle devastazioni del capitale gridano vendetta e ‘perturbano’, con il loro dolore di moribondi, quella truce, carnevalesca e inconsapevole festa che si sta celebrando nei saloni di prima classe mentre il Titanic-Terra sta affondando.

Guy van Stratten

 

Fabio Malagnini, Antropocene horror. Mostri, virus e mutazioni. Il cinema dell’orrore nell’era della crisi climatica, Odoya, Bologna, 2023, pp. 319, euro 22,00.

L'Antropocene horror è qui 2

 

Print Friendly, PDF & Email