Chthulucene, Donna Haraway e i rifugiati di ogni specie
Fantascienza, femminismo speculativo, fabula speculativa e fatto scientifico, FS, non sono solo un acronimo, ma sono la via di indagine della realtà, la via di una pratica di vita di sopravvivenza. Essere capaci di una prosperità non individuale o familiare, ma che coinvolga tutte le specie della Terra può evitare, forse, il collasso finale della vita sulla Terra al termine dell’Antropocene. La sopravvivenza nella transizione dall’Antropocene sarà multispecie o non sarà. L’estinzione “non è solo una metafora, il collasso del sistema non è un film catastrofista. Basta chiederlo a qualsiasi rifugiato di ogni specie” (Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere in un mondo infetto, Editore Nero, 2019, p.147)
“Chthulucene” è un nome che deriva da un’alterazione linguistica del nome di un ragno che vive sotto i tronconi nelle foreste di sequoia della California centro-settentrionale; esso sopravvive grazie alle creature ctonie dentro la terra e “ha degli alleati dalle appendici infinite” (ivi, p.52); è “un altrove e un altroquando che è stato, è ancora, e potrebbe essere in futuro” (ibidem). Chthulucene è un’era di sopravvivenza a condizione di un cambiamento in un mondo segnato da eventi ambientali distruttivi e dall’estinzione di massa delle specie.
Le creature tentacolari che possono essere “ragni, […], polpi, meduse sfarzi neurali, entità fibrose, esseri flagellati, fasci di miofibrilla, grovigli infeltriti microbici e micotici, rampicanti che si allungano e si protendono in avanti” (ivi, p.53), hanno aiutato Donna Haraway a sostituire il compost al postumanesimo, e “l’humusità ” all’umanità. (ivi, p.54). La tentacolarità è fatta di “sfilacciamenti e intrecci spaventosi e abissali, da continue staffette e riprese” (ivi, p.55). Le persone sono come fili o sentieri intrecciati. Il concetto di compost realizza l’idea di una pratica di vita fra le specie costituita di una rete fitta di intrecci che diventa qualcosa di indivisibile: queste creature vivono “simpoieticamente”. Un neologismo di Donna Haraway, usato poi anche da altri pensatori, è il termine “simpoiesi” che indica “i sistemi che producono in maniera collettiva, che non hanno confini spaziali o temporali definiti dal loro interno. L’informazione e il controllo sono distribuiti tra tutti i componenti. I sistemi sono evolutivi e possono generare cambiamenti sorprendenti” (ibidem). Simpoiesi è con-fare: non siamo mai soli, anche un organismo unicellulare è un sistema complesso di elementi che interagiscono tra loro. Come non ricordare che questo sistema reticolare è lo stesso della memoria, della vista, e dell’intelligenza delle piante e degli insetti ? (Cfr. anche Stefano Mancuso, Plant Revolution, Giunti 2017, e altri suoi saggi). E il concetto di humus è la fertilità non individuale di questo reticolo multispecie.
In quest’epoca chiamata Antropocene, ci rifiutiamo di essere presenti, di far fronte come possiamo, “alla catastrofe che avanza” (ivi, p.58), perché “gran parte delle riserve della terra sono state esaurite, bruciate, svuotate, avvelenate, sterminate ed esaurite” (ivi, p.144), e, “se dobbiamo scegliere un termine per questi tempi FS, quel termine è sicuramente Capitalocene” (ivi, p.75).
Allora, Donna Haraway cita Eileen Crist (On the poverty of our Nomenclaure, paper di ricerca, 2013, p. 144): serve “un’umanità […] sollecita a dare priorità “a ritirarci e ridimensionarci, ad accettare di buon grado le limitazioni dei nostri numeri, delle nostre economie e dei nostri habitat per il bene di una libertà maggiore e più inclusiva e di una qualità di vita migliore” (ivi, p. 78).
Non è più possibile vivere consumando i prodotti della società capitalistica. Imparare a creare alleanze tra umani e non umani è la chiave di volta per cercare di passare oltre il Capitalocene.
Il ragno da cui viene la parola Chthulucene “si allea con le figure invertebrate dei mari. Il corallo si allea con le piovre, i calamari e le seppie.” (ivi, p.84). Proprio perché siamo storie multispecie in via di svolgimento, siamo “humus, non Homo, non Antrops: siamo compost, non postumani” (ivi, p.85). E non abbiamo che una scelta: o “la prosperità verrà coltivata come una responso-abilità multispecie senza l’arroganza delle divinità celesti e dei loro emissari, o la Terra biodiversa scivolerà in qualcosa di estremamente vischioso, come qualunque sistema adattivo complesso sovraccarico che non ha più la forza di incassare un insulto dopo l’altro.” (ivi p.86)
L’arte di “vivere su un pianeta danneggiato” (ivi, p.115) ha un suo preciso modello: la “Black Mesa Water Coalition”. Essa è stata fondata nel 2001 da un gruppo inter-etnico e inter-tribale di giovani persone […] intenzionate a occuparsi dello sfruttamento delle acque e delle risorse naturali, oltre che di questioni di salute nelle comunità Navajo e Hopi” (ivi, p.138). LA BMWC ha portato alla chiusura di una miniera, e rappresenta “un robusto tentacolo dello Chthulucene che avanza.” (ivi, p.139).
Siamo compost, perché con-diveniamo insieme, perché le creature “si compongono o decompongono a vicenda” (ivi, p.140). L’arte “di vivere e di morire nella simbiosi, nella simpoiesi e nella simanimagenesi multispecie su un pianeta danneggiato” (ivi, p.141) è la soluzione che si oppone e contrasta il Capitalocene.
Tuttavia, secondo Donna Haraway l’Antropocene è un momento limite, come il passaggio da un’era all’altra, e quello che verrà dopo non sarà come quello che è venuto prima. Di fronte a un collasso di questo tipo, la studiosa crede che “il nostro compito sia di rendere l’Antropocene il più interstiziale e insignificante possibile: dobbiamo unire le forze e condividere tutte le idee che ci vengono in mente per coltivare le epoche a venire in modo da ristabilire dei luoghi di rifugio” (ivi, p.145, il grassetto è mio).
E’ tardi, “l’immensa distruzione irreversibile è attualmente in corso, non solo per gli undici miliardi e rotti di persone che si ritroveranno sulla Terra verso la fine del XXI secolo, ma per un’infinità di altre creature” (ivi, pp.146-147). Dunque, con-creare degli “Heartbound” (termine usato da Bruno Latour). Sarebbe bene riconsiderare il concetto di parentela, estenderlo oltre quella di sangue, e limitare la nascita di bambini, mantenendo certamente la libertà riproduttiva della persona e tutelandola. L’educazione per molte generazioni dovrebbe insegnare ai bambini a vivere in simbiosi con un animale, il suo “simbionte”, per imparare a proteggersi dall’estinzione, per cercare insieme le specifiche condizioni e soluzioni di sopravvivenza, influenzando a vicenda il proprio modo di vivere.
Occorre recuperare la terra alla sua fertilità attraverso comunità in cui ai bambini si insegni ad avere un simbiotico, un animale di qualsiasi specie che sia oggetto di studio e che trasmetta alla bambina o al bambino le dinamiche della sua capacità percettiva, come la vista e l’olfatto. In questa simbiosi l’umano può capire come salvare quella specie, e l’animale come trasmettere le caratteristiche di funzionamento della vita in un ambiente ostile, che lo sta estinguendo:
“I Bambini del Compost hanno imparato a percepire la loro specie condivisa come humus, più che come umana o non-umana. Al centro dell’educazione di ogni bambino c’è l’idea di imparare a vivere in simbiosi in modo da nutrire il simbionte animale e tutte le altre creature di cui quel simbionte ha bisogno, per l’esistere e il progredire di almeno cinque generazioni umane. Nutrire il simbionte animale significa anche essere nutriti a propria volta, oltre che inventare pratiche di cura per i sé simbiotici che si ramificano. I simbionti animali e umani fanno sì che la trasmissione della vita mortale vada avanti, ereditando e inventando pratiche di recupero, sopravvivenza e prosperità” (ivi, p. 158).
Il libro termina con la narrazione fantastica e possibile, difficile, per certi versi triste, di alcune generazioni di bambine che vivono in queste comunità.
per Codice Rosso, Francesca Fiorentin