Soggetti e Potere

San Patrignano: le origini della comunità coercitiva

Nel 1991 all’interno del CSA Godzilla di Livorno si formò il Gruppo di Studio Michel Foucault, un’esperienza inedita per un centro sociale che portò alla pubblicazione di tre libri (La società punitiva, Resumé des Cours e A partire da Foucault), di saggi (Oltre la comunità coercitiva) e alla realizzazione di seminari e convegni a cui parteciparono studiosi italiani e stranieri. Nel giugno del 1992 il Gruppo fu invitato all’Incontro Internazionale organizzato dal Centre Michel Foucault di Parigi. Molte delle relazioni e delle collaborazioni che nacquero a quell’epoca sono tuttora attive e stanno producendo nuove attività curate da Codice Rosso e dall’Università Popolare di Livorno.

Oltre la comunità coercitiva, pubblicato nel libro “Spazi della patologia patologia degli spazi”, edito da Mimesis, è un piccolo saggio sulla nascita e le caratteristiche delle comunità di recupero per tossicodipendenti, interpretate da un’ottica “foucaultiana”, che oggi ci piace riproporre visto l’interesse che in questi giorni si è riacceso sull’argomento a seguito della messa in onda di una “docufiction” su San Patrignano,  (red.).

 

 

1. Giovedì 30 ottobre 1980 i quotidiani riportano in cronaca la notizia di un’irruzione della polizia nella comunità di San Patrignano, presso Rimini. Su La Stampa si legge:

In quattro sgabuzzini, due erano ex canili larghi 120 cm, e in un’ex piccionaia rotonda del diametro di 3 metri, sono stati rinvenuti, incatenati mani e piedi, quattro giovani drogati […]. I giovani, che indossavano camicie e jeans sporchi, lerci, avevano gli occhi annebbiati; solo uno ha detto agli agenti: «Finalmente siete arrivati». […] I quattro giovani giacevano su pagliericci, unica suppellettile era un vaso-water. La porta era di ferro, con una piccola apertura protetta da una grata. Erano stati incatenati perché, in preda ad una crisi di astinenza, erano diventati furiosi. Gli agenti […] hanno arrestato per sequestro di persona il fondatore della comunità, l’ex albergatore riminese Vincenzo Muccioli, 46 anni, e i suoi assistenti [seguono 11 nomi]. Della comunità San Patrizio [sic] ne avevano parlato i giornali lo scorso giugno in seguito ad una contestata ordinanza del sindaco di Coriano. Ci si era chiesti allora se si trattava di una cooperativa o di una centrale di lavoro nero, perché era emerso che gli ospiti si dedicavano a lavori agricoli o all’allevamento di animali domestici o a lavori artigianali di pellicceria e tipografia 2.

L’irruzione della polizia era stata provocata dalla denuncia di una ragazza che aveva subito 16 giorni di segregazione

non perché avesse avuto una crisi di astinenza, ma perché aveva espresso il desiderio di andarsene via. «Mi dispiace, aggiunge, ma la situazione era insostenibile. Lì ti cacciano nella testa che il mondo è tutto una schifezza e che fuori di lì non c’è salvezza. Cercano di farti venire la paura di uscire»3.

Fra gli ospiti, tuttavia, altri si dichiarano soddisfatti della comunità, come il figlio di un famoso attore:

Come vedi, [per me] non c’è stato bisogno di “piccionaia”, come la chiamiamo noi. Ma prima di entrare a San Patrignano lo avevo detto agli altri: se occorre chiudetemi. […] La gente crede che il periodo peggiore sia quello della crisi di astinenza. Sbagliano. È quando cominci a star meglio fisicamente che vuoi andartene, che cominci a sentire il desiderio della roba. In questi casi la scelta è difficile ma obbligata: da una parte ci sono due o tre giorni di “piccionaia”, dall’altra un’esistenza perduta 4.

Un’altra ragazza, accompagnata dalla Mamma,

sta seduta su un muricciolo, di fronte ad un pollaio grigio. «Sono qui -dice- da un anno e due mesi. A giugno mi laureo in lingue, a Bologna. Io non sono una tossicodipendente da eroina. In genere fumavo hashish. […] Un giorno ho fumato, mi ha fatto molto male, a livello di testa. Capisce? Insomma, sono andata “fuori”. Allora ho pensato che questo era l’unico rifugio, per cavarmela: ho persino pregato che mi portassero quassù. L’intento [della segregazione] è di far stare il ragazzo solo con se stesso, perché scelga la sua soluzione: se continuare a bucarsi, oppure venirne fuori una volta per tutte» 5.

I finanziatori e i gestori di San Patrignano difendono i metodi della comunità («Qui ho visto realizzare la vera utopia, la vera uguaglianza, la solidarietà, l’amore», dichiara Gianmarco Moratti) e li contrappongono ai programmi a base di metadone. L’avvocato Roberti, difensore di Muccioli, sottolinea:

Noi siamo completamente contrari alla distribuzione di metadone, perché abbiamo visto le crisi di astinenza da questo farmaco: molto più dolorose di quelle da eroina e lunghissime, almeno 20 gg. 6

Si tratta di una problematica complessa, ma la scelta di campo da parte dei giornalisti è netta e immediata. Vittorio Monti scrive su Il Corriere della Sera:

Eroina. La nuova schiavitù. Per liberare la vittima da questa maledizione è lecito rinchiuderla in catene, segregarla peggio che in cella? Si può imprigionare -com’è accaduto qui a quattro tossicodipendenti- chi vorrebbe fuggire per annientarsi nella droga? Un drammatico, lacerante conflitto. Da una parte il codice e la sua ragione, che per ora risponde no e identifica in questo comportamento il sequestro di persona; dall’altra la voce dei drogati e dei loro genitori, avviliti da avventure umane le più penose, e che gridano con le lacrime agli occhi: «Benedette le catene di ferro se ti liberano da quelle ben più terribili dell’eroina». […] La “comunità” di San Patrignano è chiacchierata fin dall’inizio e a molti non piace. La odia certamente il racket della droga che, fatti i calcoli, perde una clientela da 5 miliardi l’anno. Ma ci trovano da ridire anche i difensori di ogni regolamento, per cui arrivano difficoltà e problemi di gestione. 7

Giorgio Lonardi, su La Repubblica:

La cosa più tragicamente incerta di questa vicenda riguarda la sorte dei quattro ragazzi liberati dalla polizia. Nessuno ne sa più nulla. Le madri e i padri accorsi dalle loro città sono disperati, tutti i loro compagni sono certi che si trovino in qualche piazza a “sbattersi” per cercare l’eroina oppure già con la siringa in mano 8.

A fianco, un articolo a firma Natalia Aspesi dal titolo: “Adesso i nostri figli torneranno a bucarsi?”:

Arrivano le madri, da Milano, Forlì, Roma, Cesena: «Eravamo tranquille coi nostri figli qui: non possono ributtarci nell’angoscia». Sono donne spezzate, esacerbate, hanno paura. Una grida: «A me andava benissimo che legassero mio figlio, l’avrei fatto anch’io se ne avessi avuto la forza. Adesso che la polizia l’ha lasciato andare, dove sarà, dove sarà andato a bucarsi? Stiamo ancora pagando i debiti per lui, non si può ricominciare, non ne abbiamo più la forza». […] E la comunità, alla fine, quando si ha la certezza di aver tagliato per sempre con l’eroina, diventa comunque l’unico posto possibile dove vivere: fuori non si va, per non ricominciare ma anche perché niente ha più senso oltre queste vigne e queste roulottes. […] Questa comunità romagnola che rischia di essere dispersa mi ricorda quelle che ho visto in Svezia gestite dallo Stato: durezza e amore, allontanamento coatto e con qualsiasi mezzo dalla droga, impossibilità di andarsene e poi, dopo qualche anno usciti dalla droga, la rinuncia a tornare nella grande città. Ma intanto un ragazzo sconvolto vuole andarsene, grida che qui non ci sta più: non possono trattenerlo con quello che è appena successo, gli danno i documenti, lui non sa decidersi a varcare la soglia. «Prima lo avremmo legato, adesso non possiamo più farlo. Tu dici che legare è reato? Può darsi, ma se non torna presto questo ci lascia la pelle» 9.

Il 1° novembre i giornali riportano la notizia della morte di Leonardo, uno dei quattro giovani trovati nella “piccionaia”. “Fuggiva dalla comune, è finito sotto un treno” titola La Stampa. Non è chiaro se si tratti di una disgrazia o di un suicidio. L’entourage di San Patrignano lo ricorda così:

Era omosessuale, si era dato alla prostituzione e aveva contratto sifilide ed epatite cronica. Quando è venuto qui era una larva umana. A volte non capiva più nulla e faceva scene incredibili: pisciava addosso agli altri, si masturbava continuamente, un giorno uscì dal gabinetto completamente spalmato di merda. 10

Anche la ragazza che aveva denunciato le segregazioni provocando l’intervento della polizia viene descritta in termini poco edificanti:

Era un’esaltata, da noi ne ha fatte di tutti i colori. All’inizio sembrava diversa, aveva buttato via tre grammi di eroina giurando che voleva smettere. L’abbiamo accettata tra noi. Non abbiamo potuto fare a meno di rinchiuderla per qualche giorno: era diventata un pericolo 11.

La Repubblica aggiunge che continuano ad arrivare telefonate di genitori che intendono affidare i propri figli alla comunità, mentre Il Corriere della Sera intervista un altro dei giovani liberati dalla polizia:

«Io quella cella me la sogno di notte» ripete, e si capisce come di quella ossessione farà fatica a liberarsi […] «Quando sono arrivato avevamo parlato e sì, in linea di massima avevo dato la mia autorizzazione a che mi trattenessero se avessi cercato di scappare. Avevo spiegato con chiarezza, e motivandolo, perché non volevo più rimanere, perché quel che si faceva in quel posto non mi andava. E sono stato rinchiuso in “piccionaia”. Otto giorni ci sono rimasto. E quando sei lì da solo senza niente da fare, senza neppure le sigarette da fumare, se ti opponi a quella che consideri un’ingiustizia nei tuoi confronti rischi di diventare pazzo. L’unica cosa per sopravvivere è cercare delle giustificazioni per quelli che ti hanno rinchiuso. Ed è proprio quello lo scopo. Fare in modo che lì dentro, piano piano, tu ti annulli. È questo che non mi va della “comune”. Io ero alla ricerca di una vita diversa, in campagna, in mezzo alla tranquillità. Invece si trattava di distruggere una persona completamente, per costruirne una nuova. Ma su quali basi? Su quale modello? […] Il problema vero non è quello della droga. Passate le 52 ore di crisi di astinenza diventa secondario. È che lì, partendo dalla considerazione che tutto quel che c’è fuori è marcio e fa schifo, vanno alla ricerca di un modello tutto loro facendo un plagio sui compagni. Quelli se li mettevano in divisa e li mandavano a sparare ci andavano. Si credono depositari di una verità e non guardano ai mezzi per raggiungerla. Certo i genitori dicono: “Meglio un figlio incatenato che drogato”. E magari che è meglio un figlio morto che drogato, ma la realtà l’hanno vissuta? Io in un mese e mezzo ho visto passare 200 persone e solo un paio sono fuori veramente. […] Leonardo non aveva accettato di scomparire per lasciare il posto a uno che non era lui. È quella cameretta che l’ha ucciso » 12.

Il 10 e l’11 dicembre 1980 La Repubblica pubblica in due puntate, dedicando ad ognuna le due pagine centrali, un’intervista di Natalia Aspesi alla madre di un tossicodipendente. È giornalismo popolare di alto livello: si tratta -per i toni, per l’impaginazione, per l’impianto narrativo- di un vero e proprio feuilleton. Nell’intervista si alterna il racconto di esperienze personali di grande impatto emotivo con considerazioni di carattere politico, che assumono, per il contesto in cui vengono espresse e per il loro carattere autocritico, una forte credibilità. La protagonista è

una bellissima signora, elegante, buonissima famiglia, con tutte le conoscenze giuste. Milita in un partito di sinistra, ha partecipato a tutte le lotte contro la violenza manicomiale. […] [Il figlio] è uno che ha fatto il ’68 in un liceo pubblico, uno del movimento studentesco, quand’era divertente buttare gli ispettori dalle scale, uno che, come tanti, considerava una festa collettiva farsi caricare dalla polizia, girare coi bastoni, arrampicarsi sui monumenti per gettare sassi. Uno che non studiava mai, che era rimandato a settembre ma poi solo una volta bocciato, e agli esami di maturità subito promosso. Bello, benestante, estroverso, vitale, pieno di amici, rincorso dalle ragazze, amato dal padre, amato dalla madre, figlio unico, tutto per lui.

La donna esclude che la famiglia o la società abbiano responsabilità specifiche per la scelta del figlio. Le responsabilità stanno semmai nell’ambiente da lui frequentato e nel clima politico dei primi anni ’70:

Ricordo quando sui Quaderni Piacentini teorizzavano che il fumo non era assolutamente dannoso e che drogarsi poteva essere un’esperienza interessante e creativa. Contrastarli voleva dire essere repressivi e fascisti. Proprio tra questi teorici della droga positiva oggi c’è chi paga duramente, magari con il suicidio di un figlio drogato. […] La scelta della droga non nasce dall’emarginazione: ho incontrato drogati disoccupati e con un ottimo lavoro, con la quinta elementare e due lauree, figli di separati e di genitori molto uniti, figli unici e altri con un gran numero di fratelli, con madri apprensive e madri equilibrate, con padri autoritari e padri dolcissimi.

[Il figlio frequentava] un gruppo di sbandati, guidati da un folle malauguratamente intelligente. Anche se allora c’era il mito dei giovani, anche se ero amica dei ragazzi del ’68, se disprezzavo chi ce l’aveva coi capelloni, devo dire che quelli li trovavo spaventosi […], ci chiamavano luridi borghesi mentre gli andava benissimo servirsi dello stipendio che passavamo a nostro figlio.

Di fronte al problema che si abbatte sulla famiglia, questa mette in campo tutte le proprie risorse: amicizie illustri (riferisce di conversazioni con Basaglia), psicanalista, clinica svizzera. Qui internano il figlio in un ambiente tipicamente teutonico.

Passai quella notte al telefono a parlare con i grandi psichiatri miei amici: […] erano quelli che aprivano i manicomi, eppure mi dissero: «Non c’è che questa soluzione, rinchiuderlo». Questa è la verità, ma nessuno la vuol dire, nessuno osa dirla.

La Aspesi chiede a più riprese se il giovane avesse provato il metadone e con quali risultati:

Al telefono il medico mi tranquillizza, dice che mio figlio è molto a posto, non chiede mai più della dose fissata, una fiala e mezzo per bocca, che ritira una volta la settimana. Molti mesi dopo, ho scoperto l’inganno tremendo, non so quanti medici così ci siano in giro: di fiale gliene dava 30 la settimana ed erano da iniettare. E mio figlio continuava lo stesso con l’eroina. Chissà perché anche adesso c’è questa idea sbagliata che dando il metadone smettano con l’eroina. […] La scelta di far ritornare un ragazzo nel suo mondo o tentare di aiutarlo, come si sta facendo adesso col metadone, o con sporadici colloqui con terapeuti più o meno improvvisati, non è solo una prova d’ignoranza, è ormai una gravissima colpa. Chiunque si sia occupato profondamente del problema, senza demagogia, col vero desiderio di aiutare i ragazzi, sa questa semplice verità: devono essere tenuti il più lontano possibile dal loro mondo di prima: amici, gruppo, famiglia, abitudini, quartiere, sì anche il tanto decantato quartiere. Devono essere inseriti obbligatoriamente in una comunità o comune agricola o altro tipo di struttura molto lontana e restarci molto tempo. Allora questo Aniasi, che ha detto di aver studiato il problema in un mese, a quali esperti si è rivolto per mettere su l’inutile, dannosa catena dei centri per la distribuzione del metadone e della morfina? Tutti noi che ci siamo passati, che ci passiamo, conosciamo l’imbecillità di quelli che si definiscono esperti, la pateticità criminale di chi non capisce e parla per sentito dire. Conosciamo la leggerezza e il pressappochismo demagogico di quei gruppi politici che si dicono libertari, che vorrebbero liberalizzare tutto, appunto anche la morte, e hanno già fatto danni irrimediabili.

Quali, allora, le soluzioni idonee, alla luce dell’esperienza diretta dell’intervistata?

Io credo che per tentare di salvare il tossicomane non ci sia altra strada che obbligarlo. […] San Patrignano è stato definito “lager” per totale ignoranza o in malafede. Certo è una comunità dove sono stati commessi degli errori, dove non c’è controllo ufficiale. Ma i ragazzi ci vanno con le loro gambe e rappresenta forse in Italia l’unico tentativo di affontare la tossicodipendenza in modo diverso da quello istituzionalizzato o da quello delle comunità aperte a un via vai di sbrindelloni e di improvvisatori. […] Io credo a una legge che sancisca il dovere, più che il diritto, dello Stato di curare il drogato anche contro la sua volontà, che gli imponga il soggiorno, il ricovero, cura e soggiorno in comunità terapeutiche. […] Ed anche oggi lo Stato è un nemico, perché non esiste nessuna arma legale per aiutare i tossicodipendenti: il ricovero coatto è ormai impossibile, ci vogliono due certificati, uno del medico generico, uno di uno psichiatra e il consenso dell’ufficiale sanitario. […] Lo so benissimo che nella nostra cultura permissiva la repressione è impopolare, ma lo è soprattutto per ignoranza, giochi di parte, demagogia. Chi sostiene che il metadone a scalare guarisce dall’eroina è in perfetta malafede: si è visto cosa è successo negli Stati Uniti. Ci sono anche medici criminali che “aiutano il drogato” dandogli quanta morfina vuole […]. Spesso questi medici sono a loro volta dei tossicodipendenti, come quell’esperto dei problemi di droga che lavorava per il Comune di Torino e che, consigliando permissività e comprensione, era ormai completamente fatto.

La seconda e ultima puntata si conclude con l’immagine di

quell’adolescente curioso e felice che si vede in quelle fotografie circondato dai suoi cani: con quello sguardo brillante, come di attesa per la vita bellissima che si aspettava, che tutti noi aspettavamo per lui. 13

Alcuni giorni dopo, il 24 dicembre, sulla prima pagina de La Repubblica compare una lettera-testimonianza di due genitori dal titolo “Un figlio drogato, lo sapete cos’è?”, dove si concorda con la signora torinese, si parla di “una tragedia vissuta da soli contro uno Stato ostile”, e di

“mascalzonate -di segno repressivo o libertario- sulla pelle dei tossicodipendenti (che bella parola! frigida, quasi rassicurante), ma anche su quella di padri, madri, fratelli e sorelle, cioè sulla nostra carne di vittime delle vittime spolpata ormai di tutto, anche dei propri credi sociali e politici, compagno Aniasi. […] Ogni mattina portiamo i figli al Centro Antidroga (chissà perché è chiamato antidroga un posto che ne distribuisce ad ettolitri) […] Perché mai da sinistra, dove si paga il prezzo più alto alla droga, si fanno solo chiacchiere e cortei che lasciano il tempo che trovano? Perché non si riprende, migliorato da seri interventi pubblici, il patetico esperimento straccione di Patrignano? L’opinione pubblica deve sapere che le cosiddette “terapie a scalare” sono una beffa della cui atrocità e inutilità sono coscienti gli stessi medici che concordano il piano terapeutico […], si deve sapere che limitarsi a distribuire morfina o metadone si sta dimostrando un rimedio peggiore del male, basato sull’illusione demagogica di bonificare il mercato della droga e i relativi fenomeni di criminalità […] Deve farsi strada la convinzione già consolidatasi in altri Paesi come la Svezia, dove la libertà dell’individuo è sacra […]: l’unica strada di recupero praticabile e seria […] è quella del “ricovero” in appropriate istituzioni 14.

Dopo aver elogiato “l’estero laborioso che impone regole inflessibili e dove magari ci sono da pagare dei prezzi alla libertà individuale”, gli autori della lettera ribadiscono che, nonostante le teorizzazioni di “medici senza scrupoli, illusionisti della psiche”,

i tossicomani vanno curati anche contro la loro volontà. […] Finché ci si limiterà a mantenere questi nostri figli a morfina e metadone è una battaglia persa in partenza.

2. Perché questo lungo revival della stampa dell’epoca? Perché credo fosse necessario per comprendere quali dinamiche hanno portato, meno di venti anni fa, a privilegiare una strategia -la comunità terapeutica residenziale- nel trattamento delle tossicodipendenze. O per meglio dire, non “la” comunità terapeutica, ma quella particolare concezione di comunità che è stata quella di Vincenzo Muccioli. San Patrignano è una comunità atipica per molti aspetti fondamentali: 15

a) Criteri di ammissione: su 30 comunità censite, in ben 25 la disintossicazione fisica, contrariamente a San Patrignano, dev’essere già stata effettuata prima dell’ammissione all’esterno della comunità.

b) Dimensioni: solo 2 comunità risultano avere una capienza superiore alle 100 unità, e San Patrignano è la più grande avendo dichiarato più di 350 unità residenti.

c) Tipologia degli operatori: si afferma che a San Patrignano “non ci sono operatori”! In pratica il ruolo di operatore è svolto da tutti gli ospiti che hanno completato il programma di recupero.

d) Durata del programma di recupero: a San Patrignano la durata dichiarata va da un minimo di due anni fino a cinque anni, mentre nel 70% dei casi questa non arriva a 2 anni.

e) Metodologie del programma: la comunità dichiara di non svolgere alcuna “attività di tipo psicologico”, diversamente dal 70% delle comunità che si dichiarano “non terapeutiche” e dalla totalità di quelle “terapeutiche”.

Non si tratta solo di curiosità statistiche: è impossibile non rimanere perplessi -e in molti lo hanno rilevato- di fronte a un Vincenzo Muccioli che dichiara di seguire personalmente ogni singolo ospite della comunità (si parla -lo ricordiamo- di centinaia di persone) quando chiunque si sia occupato, anche marginalmente, di questi argomenti sa che un rapporto operatore/utenti inferiore a 1/4 già può creare difficoltà nella gestione di problematiche così delicate e complesse (ed infatti in 25 comunità su 30 censite nella ricerca citata questo rapporto è superiore o uguale a 1/4). Così come si rimane di stucco leggendo che “non sono contemplate riunioni, tutti i problemi si discutono a tavola” oppure che non vi sono operatori con professionalità specifiche, né interventi basati su precise metodologie (ad esempio tecniche psicologiche di gruppo) o ancora che il programma il più delle volte si conclude non con il reinserimento nell’ambiente di provenienza, ma piuttosto con la scelta di restare definitivamente all’interno della comunità. Ma l’elemento centrale della “filosofia” muccioliana -e credo sia incontestabile che la grande popolarità conquistata da Vincenzo Muccioli presso l’opinione pubblica sia dovuta proprio al grande consenso su questo punto- è l’idea secondo cui la riabilitazione possa essere realizzata con mezzi coercitivi: un altro aspetto che differenzia San Patrignano dalla maggior parte delle comunità.

Ma se da un lato è necessario evidenziare tutta la peculiarità di San Patrignano, dall’altro si possono individuare, al di là della diversità dei vari programmi di recupero, alcuni punti comuni a tutte le esperienze comunitarie, nel tentativo di rintracciare le radici ideologiche e il significato della comunità terapeutica così come si è affermata in Italia negli anni ’80. Questi aspetti dell’ideologia della comunità terapeutica possano essere riassunti come segue, con l’aiuto di alcune citazioni tratte dallo statuto del Ce.I.S. di Livorno:

1) Il ritorno ad una vita semplice, di cui è la natura a dettare i ritmi con l’alternarsi delle giornate o delle stagioni, in contrapposizione alla quotidianità alienata della grande città. È necessario riconquistare «le proprie energie e le proprie risorse, salute fisica, ritmi biologici naturali e normali », e apprendere uno stile di ricerca dell’essenziale alla vita, del semplice in contrapposizione al sofisticato della società del consumismo e il rifiuto di bisogni sempre nuovi artificiosamente prodotti».

2) Il lavoro come terapia, «perché avvicina alla natura, perché è ricreativo, perché rende autonomi» e fa sì che la giornata sia scandita e regolamentata in modo preciso.

3) La riaffermazione di valori come la famiglia o l’amicizia: «[In CT] le relazioni interpersonali sono serene e corrette, aperte al gusto della vita». Obbiettivi: «rapporti corretti con la propria famiglia, capacità di assunzione di responsabilità sulle cose e sulle persone».

Da dove derivano questi princìpi? Daniela Costantini e Silvia Mazzoni ricordano che il primo ad usare il termine “comunità terapeutiche” fu T.F. Main nel 1946, riferendosi alla riorganizzazione dell’istituto psichiatrico di Northfield in Inghilterra, e fu Maxwell Jones a sistematizzare il trattamento comunitario per pazienti psichiatrici. In questo modello

lo staff e i pazienti sono coinvolti insieme, almeno in parte, sia nel trattamento che nell’amministrazione: questo è possibile in relazione all’abilità del leader e dello staff e al tipo di pazienti residenti. Viene posta l’enfasi sulla libera comunicazione tra staff e gruppo di pazienti e su un clima permissivo che incoraggia la libera espressione dei sentimenti: la comunità si basa su un sistema democratico egualitario in contrapposizione a quello gerarchico tipico della società. […] Il concetto di terapia all’interno dell’esperienza comunitaria tende ad allontanarsi quanto più possibile da un modello medico/psichiatrico: la terapeuticità della CT viene intesa come un vero e proprio processo educativo 16.

Ma la comunità terapeutica in Italia sembra derivare in maggior misura dal cosiddetto “modello americano”, che si sviluppa nei primi decenni del secolo da movimenti -per lo più religiosi- che si occupano dei problemi dell’alcolismo. “Nasce così l’idea -scrivono Costantini e Mazzoni- che laddove la medicina non raggiungeva successi poteva meglio riuscire la teologia o l’ideologia”.

L’esempio forse più noto è quello dell’Anonima Alcolisti, in cui non si utilizzano le prestazioni di professionisti, si mette l’accento sulla forza del gruppo e si afferma l’autorità assoluta di Dio e dell’organizzazione. Alla fine degli anni ’50 Charles Dederich adatta al problema della tossicodipendenza alcuni dei principi dell’A.A., in particolare quello del self-help, e fonda la prima comunità residenziale di Synanon. Nel 1962 il dr. Casriel adotta il programma terapeutico Day Top, ricavato dal modello Synanon:

Nel modello americano la struttura è gerarchica e si basa su un sistema autoritario. La regola principale per chi vuole entrare in CT è quella di dichiarare il proprio fallimento e la propria irresponsabilità, non solo rispetto alla droga, ma anche agli altri e alla vita in genere. […] A differenza del modello di M. Jones, questo modello si basa sull’idea che non sia possibile dare responsabilità uguali ai residenti in quanto essi all’inizio non ne possono essere capaci: la responsabilità dev’essere progressivamente conquistata con fatica e onestà, solo allora si potrà avere un potere decisionale all’interno della CT. In relazione a tale aspetto esiste in questo tipo di CT una gerarchia ben definita sulla base dei diversi gradi di responsabilità raggiunti ed un sistema autoritario di controllo basato su regole che prevedono anche la dura punizione in caso di trasgressione 17.

Le due autrici sottolineano che il modello americano rappresenta per le comunità italiane ed europee “un punto di riferimento costante”. Ma vi sono precedenti storici ancora più lontani nel tempo di grande importanza per le comunità terapeutiche, ed in particolare, ricordano Costantini e Mazzoni, l’esperienza del Ritiro di York fondato da Samuel Tuke nel 1796. È un precedente illustre: al Ritiro di York Michel Foucault dedica molto spazio in Storia della Follia.

Era importante […] che il ritiro fosse una casa di campagna. «Là l’aria è sana, e molto più depurata dal fumo che nei dintorni delle città industriali». La Casa si apre, per mezzo di finestre senza grate, su un giardino; essendo «situata su una collina, domina un incantevole paesaggio che verso sud si stende, fin dove può giungere lo sguardo, su una pianura fertile e boschiva…». Nelle terre vicine si pratica l’agricoltura e l’allevamento; il giardino »produce in abbondanza frutta e legumi, e offre nello stesso tempo a molti malati un luogo piacevole per la ricreazione e il lavoro». L’esercizio all’aria aperta, le passeggiate regolari, il lavoro in giardino e nella fattoria hanno sempre un effetto benefico «e sono propizi alla guarigione dei folli». È anche accaduto che certi malati siano guariti dopo un semplice viaggio al Ritiro e qualche giorno di riposo che vi si poterono concedere. Tutte le potenze immaginarie della vita semplice, della felicità campestre, del ritorno alle stagioni sono qui convocate per presiedere alla guarigione dei folli. 18

Ma secondo Foucault l’esperienza di Tuke, anziché essere diretta ad una progressiva liberazione del malato di mente, aveva il senso di

porre l’alienato all’interno di un elemento morale in cui si troverà in conflitto con se stesso e con quanto lo circonda; si tratta di precostituirgli un ambiente in cui, lungi dall’essere protetto, sarà conservato in una perenne inquietudine, minacciato senza cessa dalla Legge e dalla Colpa. […] Ora la follia non dovrà più e non potrà più far paura; essa avrà paura, senza soccorso né scampo, interamente abbandonata alla pedagogia del buon senso, della verità e della morale 19.

Il capitolo da cui è tratto questo brano è intitolato Nascita del Manicomio. Ma anche in altre esperienze dell’epoca classica descritte nell’opera di Foucault è possibile rintracciare le radici delle comunità terapeutiche per tossicodipendenti. Qui di seguito si parla della nascita della prigione:

La casa di forza di Gand organizzò il lavoro penale soprattutto intorno ad imperativi economici. La ragione data è che l’ozio è la causa generale della maggior parte dei crimini. Un’inchiesta, una delle prime senza dubbio, fatta sui condannati della giurisdizione di Alost, nel 1794, mostra che i malfattori non erano «artigiani e contadini (i lavoratori pensano unicamente al lavoro che li nutre) ma dei fannulloni votati alla mendicità». Da qui, l’idea di una casa che avrebbe assicurato, in qualche modo, la pedagogia universale del lavoro a coloro che vi si mostrassero refrattari. […] Pedagogia utile, che ricostituirà nel soggetto pigro il gusto del lavoro, lo reimmetterà di forza in un sistema d’interessi in cui il lavoro è più vantaggioso della pigrizia, formerà intorno a lui una piccola società ridotta, semplificata e coercitiva in cui apparirà chiaramente la massima: chi vuol vivere deve lavorare. […] «L’uomo che non possiede mezzi di sussistenza deve assolutamente volgersi al desiderio di procurarseli con il lavoro; gliela si offre con i regolamenti dello Stato e la disciplina; lo si forza, in qualche modo, a dedicarvisi; l’esca del guadagno lo eccita in seguito; corretto nei costumi, abituato a lavorare, nutrito senza preoccupazioni, con qualche profitto che serba per la sua uscita» egli ha appreso un mestiere «che gli assicura una sussistenza senza pericolo». Ricostituzione dell’homo oeconomicus 20.

Sono evidenti i punti di contatto tra questi precedenti settecenteschi e i princìpi su cui si basano oggi i programmi di recupero delle comunità per tossicodipendenti; e anche se è sempre rischioso mettere in parallelo esperienze appartenenti a due epoche tanto lontane, credo si possa affermare che le comunità sono a tutti gli effetti istituzioni disciplinari. La loro affermazione come strategia fondamentale per la riabilitazione dei tossicodipendenti rappresenta a mio giudizio il punto di arrivo del discorso sulla “droga” iniziato nel 1970. Come scrivono Laura Cavana e Nicola Martino 21, nel 1970, prendendo a pretesto un fatto di cronaca piuttosto marginale, la stampa sbatté in faccia all’opinione pubblica un problema-della-droga del tutto artificioso ma capace di offrire un’interpretazione piena di significati dei grandi cambiamenti di quegli anni. Ad esempio la droga rappresentava, per la società degli adulti, la spiegazione del perché i giovani fossero così diversi da come li si immaginava e li si voleva («Comportarsi in un certo modo, fare uso di un certo linguaggio, vestire in maniera bizzarra e portare i capelli lunghi diventarono subito agli occhi di tutti comportamenti collegabili al consumo di droghe» scrivono Cavana e Martino). La famiglia veniva messa sull’avviso e le istituzioni si mobilitavano per esercitare una vigilanza più capillare. In questa fase lo spazio istituzionale destinato al tossicodipendente era il carcere o il manicomio, a seconda della prevalenza dello stereotipo morale (il t.d. è un criminale) o di quello medico (il t.d. è un malato). Nel 1975, con l’approvazione della L. 685, cessa «la casualità con cui per lungo tempo abbiamo visto isolare il t.d. ora nel carcere ora nell’ospeale psichiatrico. Una nuova codificazione, territoriale e scientifica, è stata prodotta per questa figura, destinata a farsi con gli anni sempre più precisa, specifica e differenziata di quella precedente […] Una volta riconosciuto soltanto consumatore, il soggetto dell’esperienza con droga viene sottoposto alla terapia curativa e riabilitativa da effettuarsi negli ospedali e nei centri, secondo quanto disposto per legge22». Poiché non si tratta di un problema prettamente sanitario, si prevede l’intervento di psicologi e psichiatri per formare il personale ospedaliero su queste problematiche e la costituzione di equipe composte da medici, psicologi, assistenti sociali ed educatori per intervenire all’interno delle strutture già esistenti senza creare dei “ghetti” riservati ai t.d.. A partire dal 1976 sulla stampa il problema-della-droga diventa il dramma-della-droga: ecco le conseguenze inevitabili della trasgressione. I mezzi di comunicazione mettono l’accento sull’impossibilità di un’esperienza con le droghe (anzi, con la droga) che non porti automaticamente il consumatore alla rovina e all’autodistruzione. Ma mentre la condanna morale viene ora riservata allo spacciatore, il tossicodipendente viene descritto come «un essere “degradato” fisicamente e socialmente improduttivo, […] vittima delle trame degli spacciatori e degli effetti delle sostanze». Gli articoli mettono in evidenza «il senso di squallore che si accompagna ad ogni movimento di chi sceglie “la via della droga”». Al dramma-della-droga la comunità terapeutica dà una risposta ineccepibile, partendo dal presupposto che il consumatore di droghe (anzi, di droga), fin tanto che non sarà completamente disintossicato, sarà privo di soggettività e quindi di diritti, una non-persona, così come tradizionalmente è stato considerato il malato di mente. E non bisogna dimenticare che il tossicodipendente, in quanto responsabile di fastidiosi episodi di microcriminalità, non ha mai goduto di eccessive simpatie: se, quindi, è vero che lo stereotipo morale si era spostato sullo spacciatore, una certa voglia di punire un personaggio di questo tipo ha pur sempre animato il cosiddetto uomo della strada. Dunque la comunità coercitiva sembra essersi strutturata per rispondere, più che alle esigenze reali ed estremamente differenziate delle persone tossicodipendenti, alla rappresentazione sociale del dramma-della-droga.. Sono evidenti i motivi del consenso riscosso presso l’opinione pubblica:

a) Fa prevalere sull’inefficacia dell’intervento pubblico (meccanismi burocratici, strutture inadeguate, personale poco motivato o poco rispettoso delle esigenze dell’utente ecc.) l’efficacia disinteressata del volontariato, dove le motivazioni sono quelle dettate dalla solidarietà.

b) Ripropone alcuni valori certi (il paternalismo, lo scappellotto, la vita semplice, il lavoro, l’amicizia ecc.) in un’Italia che sta cambiando rapidamente e nella quale la vecchia famiglia patriarcale sta lasciando il posto a qualcosa che ancora non è definito. I giovani, le donne, perfino gli omosessuali hanno affermato il diritto a una propria soggettività, e qualcuno vede nelle loro aspirazioni la causa della crisi della famiglia.

c) Contrappone al linguaggio freddo e specialistico dei tecnici e dei politici una terminologia direttamente mutuata dall’ambiente dei tossicodipendenti (i “ragazzi”, la “piazza”, la “roba”, “bucarsi” 23, “sbattersi”) a rafforzare l’idea di un’esperienza che nasce da un coinvolgimento diretto e quotidiano con il problema.

d) Offre un’interpretazione del dramma-della-droga che si collega alla perfezione con la rappresentazione giornalistica della tossicodipendenza, e che solleva la famiglia e la società dai sensi di colpa conseguenti ad un’interpretazione di stampo sociologico. La famiglia viene coinvolta direttamente, e diventerà un elemento di grosso peso politico (penso ad esempio alle manifestazioni delle Madri-coraggio e al dibattito che precederà l’approvazione della L.162/90).

Ma soprattutto la Comunità Terapeutica permette l’individuazione di uno spazio per questa nuova e peculiare forma di devianza, in un momento, è importante ricordarlo, in cui le istituzioni totali vengono fatte oggetto di una critica spietata. È del 1978 la L.180, che inizia con queste parole:

Art. 1: Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori – Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari.

Analoghe disposizioni sono contenute nella Riforma Sanitaria, approvata sempre nel 1978, che all’art. 33 recita: «Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono di norma volontari». E se la L.180 passerà alla storia come la legge che ha chiuso i manicomi, la Riforma Sanitaria mette in crisi la centralità dell’Ospedale nella sanità pubblica, territorializzando la sanità e affidando al neonato servizio sanitario nazionale tutte le prestazioni di “prevenzione, cura e riabilitazione”. Forse un giorno riusciremo a vedere rievocazioni degli anni ’70 che parleranno di queste cose, cioè degli aspetti centrali della battaglia politica e sociale di quegli anni, anziché di follie militariste e di “anni di piombo”.

La Comunità, dunque, sull’onda del dramma della droga, reintroduce nel dibattito la necessità di un’istituzione totale a carattere coercitivo. Questa credo sia la sua reale collocazione nell’ambito dei dispositivi di potere di questi anni. Con l’approvazione della L. 162/90 questo carattere coercitivo della riabilitazione verrà sancito per legge:

L’operazione culturale che emerge […] da questa legge è quella di rendere le stesse istituzioni che in qualche modo avevano operato semplicemente e soltanto sul piano fondamentale dell’assistenza strumenti di controllo sociale. […] Mi riferisco all’obbligo che viene imposto alle comunità, agli Enti che saranno iscritti in questi appositi elenchi provinciali e regionali, di relazionare continuamente all’organo prefettizio e al giudice penale dei risultati del trattamento terapeutico 24.

Si è voluto dunque affermare il principio secondo cui qualsiasi programma di recupero dovesse avere per obiettivo la disintossicazione immediata, precludendosi la possibilità di “agganciare” persone che, non avendo ancora preso una decisione definitiva sul loro rapporto con le sostanze, avrebbero potuto comunque usufruire di servizi -pubblici o privati- in termini di sostegno psicologico, consulenza legale, opportunità occupazionali, occasioni di socializzazione e altro.

3. Ma -si dirà- quale alternativa c’era al trattamento in comunità residenziale? A puro titolo di esempio, e a dimostrazione di quanto il dibattito di quegli anni sia stato superficiale e mistificante, vorrei soffermarmi un attimo sulle terapie a base di metadone.

Giancarlo Arnao, ne Il dilemma eroina, cita i dati emersi da numerose ricerche condotte negli Stati Uniti nelle quali risulta come in modo incontestabile che nel trattamento dei tossicodipendenti i programmi che utilizzano il metadone hanno la stessa efficacia dei programmi svolti in comunità terapeutica residenziale 25. Nel 1990, l’Istituto di Medicina dell’Accademia Nazionale delle Scienze (National Academy of Sciences’ Institute of Medicine) ha constatato che il mantenimento metadonico è stata la modalità di trattamento più rigorosamente studiata e che ha prodotto i risultati positivi meno opinabili. Giovanni Serpelloni ed altri sostengono che

Il metadone è uno strumento che la ricerca ha indicato come il più efficace nel consentire a soggetti dipendenti dall’eroina di abbandonare la vita da tossicomani per intraprenderne una improntata al recupero della salute fisica, psichica e alla riabilitazione sociale. […] Attualmente negli Stati Uniti i soggetti con mantenimento metadonico sono 120.000 e si stima che, dall’epoca del suo utilizzo, più di un milione di tossicodipendenti abbiano tratto vantaggio da questi programmi.

Ma i programmi riabilitativi con farmaci sostitutivi dell’eroina in Italia sono sempre state oggetto di disposizioni di legge contraddittorie e confuse. In questa mia breve ricerca sono riuscito a rintracciare nello spazio di poco più di dieci anni perlomeno cinque cambi di rotta su questo terreno. Nel giugno 1978 il Ministro Anselmi aveva vietato il metadone; poi, proprio nel periodo di cui ci siamo occupati, il 7 agosto e il 10 ottobre 1980 l’allora Ministro della Sanità Aniasi aveva emesso due decreti tesi a disciplinare i programmi terapeutici per tossicodipendenti a base di metadone e morfina. Il Ministro dichiarava che lo scopo era quello di limitare l’uso incontrollato di morfina nei trattamenti di disassuefazione. I decreti disponevano che le Regioni e le USL istituissero i servizi necessari per l’accertamento e la certificazione degli stati di tossicodipendenza. Avrebbero potuto accedere ai trattamenti coloro che avessero compiuto i diciotto anni, che fossero tossicodipendenti da almeno due anni e che avessero accettato il programma proposto dai servizi. Ma le difficoltà sono pesantissime. La stampa parla di “droga della mutua”, il metadone è introvabile, l’individuazione delle equipe subisce forti ritardi:

«Cerchiamo di capire dai colloqui -dice un’assistente sociale- che cosa si aspettano dal nostro servizio. Pochi hanno le idee chiare e bisognerebbe avere tempo per spiegare il significato del nostro intervento. Ma come si fa? L’equipe è stata messa insieme senza nemmeno il tempo di concordare un atteggiamento comune nei confronti dei drogati, lo spazio a disposizione è assolutamente insufficiente. I colloqui? Per parlare con un drogato bisogna andare al bar, o a fare un giro per i corridoi dell’ospedale, perché in ambulatorio non si riesce a farsi ascoltare: devi parlare in mezzo agli altri, perché non ci sono nemmeno un tavolino e due sedie dove sistemarci in pace. Che cosa si può fare in queste condizioni?»

Alcuni anni dopo i decreti Aniasi del 1980, nel 1985 viene vietata la morfina. Nel 1990 un altro Ministro, De Lorenzo, poneva ulteriori limiti all’utilizzo dei farmaci sostitutivi, decidendo di permettere i programmi attuati solo con metadone in sciroppo, solo se altri trattamenti fossero falliti e solo a tempo determinato. Nel 1994 altra “virata” e maggiore libertà per questo tipo di terapie.

Gli operatori si sono quindi trovati spesso a lavorare in condizioni che non hanno permesso di ottenere proficui risultati dalle terapie con farmaci sostitutivi, risultati che era lecito attendersi sulla base di dati statistici riferiti all’esperienza di altri Paesi. Accusati quasi di essere spacciatori (abbiamo visto prima con quale violenza si parlasse di medici criminali o tossicodipendenti o cose del genere in riferimento alla distribuzione del metadone), in crisi con la propria formazione professionale finalizzata esclusivamente alla “guarigione”, continuamente frustrati dalla scarsezza di mezzi a disposizione, costretti a fronteggiare talvolta veri e propri eserciti di utenti, non c’è da stupirsi che non abbiano lavorato al meglio delle loro possibilità. Si tratta di una situazione che può mettere l’operatore a disagio: spesso -scrive Roberto Nardini- «questi operatori accettano di somministrare il metadone in modo reticente secondo un piano preordinato di riduzione, convinti che quella procedura sia la migliore da seguire» e che la contrattazione sulla dose sia l’unica possibilità di esercitare un controllo. Inoltre, sulla base di criteri che non hanno niente a che vedere con l’efficacia dei programmi, le strutture competenti hanno spesso operato improvvisi mutamenti negli indirizzi terapeutici, ora gonfiando, ora restringendo le fila degli utenti delle terapie a base di metadone. E talvolta alla somministrazione di metadone non si è affiancata la parte psicologica dell’intervento con il risultato di precludere la possibilità di verificare le reali problematiche ed esigenze dell’utente. Il metadone permette di concordare quattro tipi di trattamento: a breve, medio e lungo termine e di mantenimento, e contrariamente a quanto abbiamo visto affermare negli articoli con cui abbiamo aperto questo intervento, il metadone, oltre a bloccare la sindrome di astinenza, può «bloccare gli effetti gratificanti di un’eventuale assunzione di eroina ed eliminare totalmente il desiderio compulsivo di assumere eroina (craving)»26. Questo risultato si ottiene però con dosaggi piuttosto alti, per cui

andrebbe abbandonato il concetto che vede associare agli alti dosaggi un’identità dell’operatore “permissivista” e ai bassi di “conservativo”, perché questo, oltre a non essere sostenibile scientificamente, crea una situazione di critica e di disagio verso i medici che può ostacolare una corretta applicazione della terapia 27.

Con questo accenno ai programmi con farmaci sostitutivi non si vuole sostenere un certo tipo di terapie a scapito di altre, ma solo dimostrare che se il dibattito sulle tossicodipendenze si fosse incentrato sulla reale efficacia delle varie strategie probabilmente in questi anni si sarebbe utilizzato un più ampio ventaglio di soluzioni a tutto vantaggio dell’utenza. Credo che questa sia un’altra conseguenza della rappresentazione giornalistica del dramma-della-droga, secondo la quale non è risolutivo nessun intervento che non si ponga come obiettivo la disintossicazione totale e immediata. Solo con la richiesta di un trattamento di questo tipo il tossicodipendente può dimostrare di avere “intenzioni serie” e quindi aver diritto ad essere ascoltato. I programmi con metadone (ecco perché li abbiamo presi ad esempio) pongono invece l’operatore in una dimensione di continuo confronto con l’utente, sul quale non esercita un dominio assoluto, non ne controlla totalmente il quotidiano come accade nel caso della comunità residenziale (dove comunque la percentuale di persone che portano a termine il programma non è poi così elevata).

Una svolta fondamentale nell’evoluzione delle strategie terapeutiche è quella causata dall’emergenza HIV. Da un lato l’immagine del tossicodipendente si è avvicinata ancora di più alle figure storicamente destinate alla segregazione: l’HIV ha dato un fondamento reale alle rappresentazioni del problema-della-droga come epidemia 28.

Se da un lato quindi sono aumentati i pericoli di ghettizzazione e di sanitarizzazione della tossicodipendenza, dall’altro con il problema HIV si è cominciato a capire che ridurre i pericoli correlati all’uso di sostanze illegali era così urgente da non poter subordinare gli interventi all’interruzione dell’uso di droghe. Si sono affermate le strategie di riduzione del danno e quindi per gli operatori sono diminuite le difficoltà a percorrere strade che non siano finalizzate alla disintossicazione immediata. Non credo tuttavia che questa evoluzione sia dovuta soltanto all’emergenza HIV, ma anche al fatto che le procedure legate al problema-della-droga hanno modificato le caratteristiche del problema tossicodipendenza. Vorrei citare almeno due aspetti rilevanti:

a) È cresciuta -a causa delle disposizioni repressive della L. 162/90- una dimensione sommersa del consumo di eroina. Una percentuale non trascurabile dei consumatori di eroina oggi vive la propria abitudine in maniera meno “visibile”, facendo meno “notizia”.

b) Si è diffuso l’uso di nuove droghe con nuove problematiche che permettono una nuova rappresentazione sociale del dramma-della-droga (dalle morti per overdose alle stragi del sabato sera).

Per tutti questi motivi si è potuto mettere in campo una gamma di interventi maggiormente differenziata rispetto al passato, cosa che non solo permette la prevenzione di patologie associate all’uso di sostanze illegali ma favorisce anche le possibilità di successo degli interventi finalizzati al superamento degli stati di tossicodipendenza. Anche se probabilmente molte delle scelte effettuate hanno avuto come motivi ispiratori non tanto questi criteri ma quelli dettati dalla sempre minore disponibilità economica per gli interventi nel settore.

Di recente sono aumentate anche le esperienze di coinvolgimento diretto delle persone tossicodipendenti nelle campagne di prevenzione, con risultati incoraggianti. Ritengo più rischiose invece le teorie che propongono la stabilizzazione, cioè il controllo diretto del consumatore, in modo del tutto autogestito, sull’uso dell’eroina. Non ho dati statistici, ma mi sembra di intuire che in presenza di variabili che rendono più problematico un equilibrio sono pochi coloro che sono riusciti ad evitare ricadute piuttosto rovinose.

Che qualcosa sia cambiato lo dimostra anche un recente episodio, periferico quanto si vuole ma comunque indicativo: il 13 dicembre scorso il quotidiano livornese Il Tirreno pubblica a tutta pagina alcuni articoli sulla situazione delle comunità toscane. L’articolo più ampio ha per titolo: Droga: SOS dalle comunità/Le USL tagliano i fondi, il rischio è la chiusura. «Hanno un’ottica da ragionieri. Per loro ciò che conta è tagliare, non importa se le forbici colpiscono la carne viva di giovani con mille problemi, poveri, malati o emarginati. Ad essere colpiti sono gli ultimi della società» protesta il Ceart. Un altro operatore sostiene: «a Pisa ci sono 624 tossicodipendenti trattati con il metadone. A Milano la metà bastò per provocare scalpore. Purtroppo il tossicodipendente è spesso trattato come un pacco postale, e non come una persona da amare e guarire». Il giorno successivo replica il Sert di Pisa:

«I pazienti trattati sono 352 dei 473 tossicodipendenti che abbiamo. […] Abbiamo speso oltre 900 milioni, circa il 50% del nostro bilancio, tra comunità e centro di pronta accoglienza. Purtroppo -aggiunge- di undici pazienti inviati [in comunità] nove se ne sono voluti andare via dopo il primo semestre di trattamento. […] Qualcosa evidentemente non funziona. Se si chiedono soldi bisogna anche garantire qualità» 29.

È la dimostrazione che certi equilibri si sono modificati e che oggi prima di privilegiare una strategia anziché un’altra si pretendono risultati concreti. Non vorrei però che queste scelte venissero operate sulla base di un esclusivo criterio di economicità o tenendo conto di meccanismi clientelari. Da questo punto di vista di strada da fare ce n’è ancora molta, perché spesso manca un coordinamento fra i vari soggetti impegnati su questo terreno: associazionismo, comunità, Sert, Enti locali, USL, Ministero di Grazia e Giustizia (carceri), responsabili dell’ordine pubblico ecc. e il risultato è quello di finanziare doppioni o progetti che hanno scarse possibilità di incidere concretamente. Credo che si debba adattare il più possibile un percorso terapeutico alla personalità di ogni singolo utente, perché se vi sono persone che, ad esempio, ricevono grande giovamento dall’allontanamento dal loro ambiente abituale, in altri casi (persone che hanno un lavoro fisso o famiglia) questa strada è meno facilmente praticabile. Inoltre vi sono persone con cosiddetta “doppia diagnosi” (coloro ad esempio che associano ai problemi della tossicodipendenza quelli di carattere psichiatrico o altri di carattere sanitario come le persone sieropositive) per le quali sembra assolutamente fondamentale il concorso di servizi ed operatori con professionalità diverse. E spesso la comunità non ha saputo aprirsi alle esigenze specifiche delle persone sieropositive, per le quali -soprattutto negli anni passati, in assenza delle terapie oggi disponibili, erano assolutamente improponibili i tempi dei programmi e il lavoro di recupero della progettualità che la comunità proponeva; talvolta non si è tenuto conto neppure di necessità basilari quali quelle della prevenzione del contagio da HIV: mi riferisco a quelle comunità dove i rapporti sessuali non sono ammessi e che non hanno voluto prendere atto che comunque la disponibilità dei profilattici sarebbe stata un elemento importante in caso di “trasgressione”.

Ma anche in mezzo a mille difficoltà il principio fondamentale è quello di considerare l’utente tossicodipendente come un cittadino con gli stessi diritti di chi deve eseguire una radiografia o chi deve farsi ingessare una gamba fratturata. E la grande responsabilità della comunità coercitiva è proprio quella di aver contribuito ad affermare l’immagine del tossicodipendente come deviante spersonalizzato, in ossequio a dispositivi di potere che al loro esterno prevedono solo il nulla.

Andrea Grillo

Note:

1. Questo articolo è dedicato a Primo Moroni

2. Rimini: quattro drogati incatenati al muro nei canili-cella e in una piccionaia, articolo di Edda Montemaggi, in La Stampa, 30.10.1980.

3. Il figlio di Moratti dichiara: «Meglio così, chiariremo tutto», articolo di Marzio Fabbri, in La Stampa 31.10.1980

4. Ma vi assicuro, mi legarono per salvarmi dal vizio dell’eroina, articolo di Giorgio Lonardi, in La Repubblica, 30.10.1980.

5. È morto uno dei tossicodipendenti liberati dai canili-cella di Rimini, articolo di Giuliano Marchesini, in La Stampa, 31.10.1980.

6. Ma vi assicuro, mi legarono per salvarmi dal vizio dell’eroina, articolo di Giorgio Lonardi, in La Repubblica, 30.10.1980.

7.  Incatenati per non drogarsi, a Rimini, articolo di Vittorio Monti, in Il Corriere della Sera, 30.10.1980.

8. Ma vi assicuro, mi legarono per salvarmi dal vizio dell’eroina, articolo di Giorgio Lonardi, in La Repubblica, 30.10.1980.

9. Adesso i nostri figli torneranno a bucarsi?, articolo di Natalia Aspesi, in La Repubblica, 30.10.1980.

10. Fuggiva dalla Comune, è finito sotto un treno, articolo di Enrico Bonerandi, in La Repubblica, 1.11.1980.

11. ibidem

12. Nella Comune di S. Patrignano non ti curavano, ti annullavano, articolo di Marzio Fabbri in La Stampa, 1.11.1980.

13. Questa e le citazioni precedenti si riferiscono ai due articoli di Natalia Aspesi Con mio figlio all’inferno, in La Repubblica, 10.12.1980 e Signori, con la droga avete sbagliato tutto, in La Repubblica,11.12.1980.

14. Un figlio drogato, lo sapete cos’è?, in La Repubblica, 24.12.1980.

15. Per questa analisi utilizzo i dati emersi dalla ricerca di Mario Cagossi Comunità Terapeutiche e non, Roma, 1988.

16. Daniela Costantini/Silvia Mazzoni, Le Comunità Terapeutiche per Tossicodipendenti, Roma 1984, pag.12. Vorrei segnalare anche Luigi Cancrini, Quei temerari sulle macchine volanti, Roma 1982, per soffermarsi sull’uso di tecniche psicoanalitiche. Un’esperienza da approfondire è quella del Marmottan di Parigi, esempio di comunità inserita nel tessuto metropolitano. A questo proposito ricordo le opere di C. Olievenstein.

17. Ibidem, pagg. 15-19.

18. Michel Foucault, Storia della Follia nell’Età Classica, Milano 1963, pagg. 536.

19. ibidem, pagg. 549-550. Se mi è permessa un’autocitazione cfr. Andrea Grillo/Enzo Favero, Appunti sulle comunità di recupero per tossicodipendenti, in Michel Foucault, La società punitiva, Piombino 1991.

20. Michel Foucault, Sorvegliare e Punire, Torino 1976, pagg. 132-133.

21. cfr. Laura Cavana/Nicola Martino, Le politiche delle droghe, Bologna 1981, pagg. 101-102.

22. Laura Cavana/Nicola Martino, op. cit., pagg. 101-102.

23. A vantaggio di chi volesse occuparsi di tossicodipendenze segnalo che oggi “bucarsi” è completamente in disuso. Il vero esperto oggi utilizza “farsi”.

24. Desi Bruno, Relazione introduttiva al convegno Sorvegliare e punire, cit. in Michel Foucault, La società punitiva, pag. 64.

25. Giancarlo Arnao, Il dilemma eroina, Milano 1985, pagg. 61 e segg.

26. Giovanni Serpelloni et al., Eroina: infezioni da HIV e patologie correlate, Verona 1995, pag. 751 e segg.

27. ibidem

28. Vale la pena di vederne un esempio citato da Szasz: […] l’assuefazione all’eroina è molto simile ad una malattia che si può trasmettere, anche se non è infettiva. C’è una vittima (l’uomo) un agente (l’eroina) e dei fattori ambientali identificabili, proprio come ci sono nelle malattie infettive che si possono trasmettere. Inoltre c’è un veicolo, un trasmettitore, cioè l’agente, lo spacciatore (e commerciante) che può essere egli stesso infetto oppure no. L’assuefazione all’eroina, dunque, è sotto molti aspetti simile a malattie come la malaria, con il suo veicolo d’infezione ben identificato, la zanzara» (Thomas Szasz, Il mito della droga, Milano 1977, pag. 30. Si tratta di una lettera inviata da un medico al New York Times. A proposito di quanto dicevamo sulla rappresentazione sociale del problema-della-droga, il libro di Szasz è molto utile per capire come alcune sostanze, in una data epoca, assumono la funzione sociale di droghe indipendentemente dalle loro caratteristiche farmacologiche).

29. Il Tirreno, 13 e 14.12.1997.