Comunicazione e culture

AI, pressione diplomatica, uccisione giornalisti: Israele vuol dominare su informazione a Gaza

All’inizio degli anni 2000 la Pluto Press fa uscire un libro che è una pietra miliare in materia: “More Bad News from Israel” a cura di Greg Philo e Mike Berry. Si parla di due ricercatori del Glasgow Media Group, il gruppo di lavoro sui media formatosi all’università di Glasgow nel lontano 1974, che nel corso del tempo ha analizzato la copertura mediale del conflitto in Irlanda, delle crisi economiche, climatiche, migratorie e anche della guerra permanente tra israeliani e palestinesi.

Il testo, che analizzava il flusso di notizie in Gran Bretagna durante due anni (2001-2002) della seconda intifada (2000-2005) rappresenta un caso da manuale sia nell’analisi del testo giornalistico che nella descrizione di scenario nel quale i media, in questo caso britannici, risultano sempre condizionati dal punto di vista israeliano nella rappresentazione del conflitto. Si trattava della rappresentazione dell’esercizio mediale dell’egemonia, nella produzione di notizie, da parte dei media e del governo israeliani su altri governi e altri sistemi televisivi.

Venti anni dopo Bad News from Israel , una volta che i social hanno letteralmente mutato la sostanza dell’opinione pubblica, l’esercizio dell’egemonia da parte israeliana nella rappresentazione del conflitto permanente con i palestinesi prende altre strade. Del resto le fonti di rappresentazione del conflitto – scritte, audio e video – si sono moltiplicate e non basta più la semplice pressione diplomatica, o il lavoro di uffici stampa dedicati, a garantire l’egemonia nella rappresentazione israeliana delle notizie.

Tre sono le direzioni, per capire come sta evolvendo l’esercizio israeliano dell’egemonia mediale, fenomeno essenziale per vincere le guerra fin da prima della nascita di una compiuta teoria della guerra ibrida che prevede proprio la comunicazione mediale come uno dei piani di realtà da sincronizzare per arrivare alla vittoria.

Le tre direzioni che sono emerse in questo periodo di guerra sono l’uso dell’intelligenza artificiale, un nuovo tipo di pressione diplomatica a partire dai social, la riduzione della uccisione dei giornalisti sul campo a mero fatto di cronaca. Il tentativo è quello di ripristinare l’egemonia israeliana sulla rappresentazione del conflitto, elemento essenziale della guerra ibrida, strategia contemporanea nella condotta dello scontro armato tra popoli. Egemonia evidentemente messa in discussione dal periodo della nascita di media che fanno contronarrazione rispetto a Israele, come Al-Jazeera, e da quello dell’emersione dei social nella comunicazione politica. Vediamo nel dettaglio

1. Uso intelligenza artificiale

La AI, come abbiamo già scritto, fa parte di un uso sistematico e strategico delle tecnologie, da parte di Israele, come strumento di guerra. Come nell’uso della AI per la selezione e il raggiungimento del bersaglio sul campo, quando si tratta di social, e del loro effetto sui media tradizionali, si tratta di usare sistematicamente l’intelligenza artificiale per individuare meglio i target di riferimento nella comunicazione – mediale e social – e per personalizzare il messaggio a seconda del soggetto di riferimento. C’è poi l’uso del simbolico, quella capacità di rendere reale la dimensione onirica che rappresenta un core business della AI, centrale in ogni comunicazione politica, per rendere forte il proprio messaggio. Come in un post sui social della “Associazione degli americani per un libero Israele” dove appare questa immagine

fake

Bene, questa immagine è stata analizzata da USA Today, non proprio una testata anti-israeliana, come un “falso generato dall’intelligenza artificiale”. Si veda il servizio di USA Today qui.

L’utilizzo della AI per l’esercizio dell’egemonia, mediale e social, da parte di Israele prevede il suo uso per la razionalizzazione e la precisione del messaggio e per la costruzione di immagini che definire false significa solo rappresentare una parte di verità. La AI riesce infatti a rendere visibile quell’onirico che è necessario per connettere persone, suscitare sentimenti e aderire così alle ragioni di una delle parti in campo. In questo modo Israele va alla guerra dell’onirico, che è guerra di intelligenza artificiale, con studiata naturalezza.

2. Pressione diplomatica

Per mantenere l’egemonia sui processi di comunicazione mediale, prerequisito per vincere la guerra con mezzi ibridi, Israele deve delegittimare ogni fonte neutrale. E’ sugli occhi di tutti la campagna social di soggetti filo-israeliani contro Amnesty international, tra l’altro storicamente impegnata contro l’antisemitismo, ed è ormai palese l’attacco mediale contro ogni genere di giornalista che non sia embedded presso le truppe israeliane. Questo perché vanno ridotte al minimo, e delegittimate al massimo, immagini e testimonianze da Gaza non provenienti da fonti israeliane. Tel Aviv, nella guerra ibrida, vuol quindi apparire sia come parte in causa, che combatte una guerra giusta, che come fonte neutrale di informazione. Si tratta di un grosso punto di forza in un conflitto e qui la pressione diplomatica rispetto al passato non riguarda solo le grandi redazioni dei media internazionali, o quelle nazionali importanti, ma anche il mondo dei social. E, soprattutto, oggi la pressione diplomatica non si fa solo nei rapporti discreti con le redazioni ma deve farsi sentire a partire dalle rappresentazioni social, visibili a tutti.

Un esempio di fiancheggiamento a Israele, intesa come parte in causa che combatte una guerra giusta e anche fonte di verità giornalistica, lo troviamo in articoli come questo nel quale una nota ONG filoisraeliana , molto attiva sui social, viene rappresentata come istituto di fact-checking che prova la commistione tra giornalisti e terroristi di Hamas.

In realtà come rivela il corrispondente capo della ARD tedesca, che smentisce la versione della ONG filoisraeliana, per le truppe di Tel Aviv, e il loro modo di condurre la comunicazione nella guerra ibrida, anche la semplice foto di un carro armato israeliano in fiamme rappresenta un serio problema se non autorizzata dall’IDF.

Si capisce così come ogni costruzione della realtà alternativa, ogni frammento in forma di fotografia, rispetto i canoni di Tel Aviv venga delegittimata e trattata come materiale nemico. In quest’ottica la pressione diplomatica non si fa solo verso le redazioni  sull’interpretazione delle notizie, come ai tempi di Bad News from Israel, ma anche delegittimando tramite social i giornalisti sul campo. In questo modo, “dal basso”, tramite i social, con strategie di comunicazione ormai consolidate,  parte quella pressione diplomatica che deve condizionare le redazioni assieme alla diplomazia tradizionale.

3. L’uccisione dei giornalisti come fatto trascurabile

Detto questo cosa rimane sul campo, dopo pressioni tradizionali e non, del giornalista che sfugge alla “policy” israeliana dell’informazione di guerra, e delle notizie che produce?

Ce lo dicono 750 giornalisti di decine di testate, tra cui il Washington Post ed il Guardian che valutano in questo modo la copertura globale del conflitto in atto a Gaza

Scriviamo per chiedere la fine delle violenze contro i giornalisti a Gaza e per chiedere ai leader delle redazioni occidentali di essere accurati nella copertura delle ripetute atrocità di Israele contro i palestinesi», si legge nella lettera riportata dai media americani e che accusa Israele di «soppressione su vasta scala della parola». Nella lettera si osserva come le parole «apartheid», «pulizia etnica» e «genocidio» dovrebbero essere usate per descrivere il trattamento dei palestinesi da parte di Israele. (Ansa, 10 novembre 2023)”

Come 20 anni fa quindi, Israele esercita egemonia sull’informazione occidentale, elemento essenziale per condurre la propria guerra, con la novità dell’uso di intelligenza artificiale e della nuova pressione diplomatica a partire dai social, per arrivare all’obiettivo di sempre: evitare “notizie accurate” sulla Palestina che farebbero saltare di dispositivo di produzione della realtà messo in atto da Tel Aviv. Dispositivo di produzione della realtà essenziale per vincere la guerra, naturalmente.

L’effetto di tutto questo sui giornalisti? Semplice e devastante, in un mese di conflitto a Gaza sono morti il doppio dei giornalisti uccisi in Ucraina in un anno e mezzo di guerra.

L’uccisione dei giornalisti, quindi di testimoni sul campo e periti della notizia,  è diventata un fatto trascurabile, normalità della guerra.

Le tre direzioni che sono emerse in questo periodo di guerra, per mantenere l’egemonia israeliana nel governo della notizia, – l’uso dell’intelligenza artificiale, un nuovo tipo di pressione diplomatica a partire dai social, la riduzione della uccisione dei giornalisti sul campo a mero fatto di cronaca – emergono così davanti ai nostri occhi nella loro sinistra efficacia. La celeberrima frase di Debord, nella Società dello spettacolo, del “vero come momento del falso” viene reinterpretata, in pieno XXI secolo, in “vero separabile dal falso per poter condurre una guerra”. Utilizzando il falso in modo estensivo e mortifero, naturalmente.

 

 

Per codice rosso, nlp.

nlp è autore del libro La finanza è guerra