Interviste

Virus, politica e futuro: intervista a Bifo.

“Se non siamo capaci di uscire dal modello del debito, del salario e del consumo direi che l’estinzione è garantita nell’arco di due generazioni” (Bifo – “Fenomenologia della Fine”)

 

Difficile presentare Bifo, da decenni prezioso in molteplici ambiti – politico, filosofico, cognitivo, estetico, antropologico – non solo nel contesto italiano ma anche in quello globale, viste le traduzioni in diverse lingue. Abbiamo approfittato dell’uscita del suo Fenomenologia della fine per rivolgergli alcune domande grazie a questo libro che è denso di occasioni di riflessione essendo un diario intenso, disincantato e ricco di riflessioni intorno al virus, al lockdown che ha riguardato gran parte della popolazione mondiale e agli avvenimenti decisivi che abbiamo attraversato in questi mesi. Gli abbiamo rivolto delle domande su virus e informazione, sul ruolo del soggetto nella politica contemporanea alla luce delle mutazioni tecnologiche e sullo scenario politico globale post elezioni americane.  Ecco le risposte che consegniamo volentieri a chi ci legge.  Da parte nostra segnaliamo, nella discussione che qui emerge, come si sia rivelato esplosivo il rapporto tra virus e informazione, antropologicamente già strettamente legati dalla rivoluzione comunicativa dei primi anni ’90 che ha imposto il concetto di viralità nell’ambito dell’informazione, come sia permanente la crisi della classe come l’abbiamo conosciuta e come le strategie di sottrazione a quanto stia accadendo necessitino di un salto di complessità. Ringraziamo calorosamente Bifo per le risposte e buona lettura (Redazione).

Il bio virus che sta sconvolgendo le nostre vite a partire dal marzo 2020 ci ha mostrato chiaramente le ingiustizie e le debolezze del sistema capitalistico e non c’è stato alcun modo di fermarlo, nonostante i progressi delle scienza e della medicina. Inoltre il Coronavirus “si è trasferito nell’infosfera e ha saturato le mente collettiva con la paura, il sospetto, la distanza”.
Possiamo davvero chiamarlo Infovirus? Il virus è proprio un linguaggio? Che rapporto esiste tra questo momento virale della nostra storia e la possibilità sempre più concreta della nostra estinzione o comunque di un profondo ripensamento della dimensione della morte?

Non è mia intenzione negare il carattere biologico del virus. Si tratta certo di partire da un fenomeno assolutamente fisico, un evento che riporta la fisicità al centro. Ma se vogliamo comprendere gli effetti sociali e soprattutto psichici dell’evento virale dobbiamo riconoscere che lo spazio in cui esso circola è l’infosfera: i media ne sono invasi in maniera ossessionante, e alla fine la stessa chiacchiera quotidiana ne è invasa: quando telefono agli amici la maggior parte del tempo è occupata a chiedersi come stai, cosa fai per proteggerti, a commentare le informazioni che ci arrivano dal telegiornale, o da internet. Può darsi che tra le persone anziane quale io sono, l’ossessione sanitaria sia più marcata, ma mi pare che in qualche misura questo dilagare del virus nel discorso e nell’immaginario sia un fenomeno abbastanza generale.
In questo senso parlo di infovirus. Ma alla fine quello che mi interessa di più, il livello più enigmatico, più sospeso, è lo psico-virus, cioè gli effetti di lungo periodo che il contagio è destinato a sedimentare nella psicosfera, nell’inconscio collettivo e perfino nella prossemica sociale, nel modo di disporsi dei corpi nello spazio. Questo è il tema del quale mi occupo più intensamente: siamo destinati, soprattutto le generazioni giovani, sono destinate a una lunga fase traumatica cui può seguire una sorta di epidemia depressiva, una disattivazione dell’empatia fisica, del desiderio?
O al contrario la centralità del corpo che la pandemia ha risvegliato è destinata a riattivare un’affettività sociale che il neoliberismo ha disattivato?
Non lo so, non credo che ci sia un’evoluzione unitaria, e non credo che ci sia un determinismo stretto, inevitabile. È un piano sul quale deve lavorare la comunicazione, la psicoterapia, l’arte.

L’Italia sembra ormai un paese ai confini del mondo, ma il 2019 è stato un anno attraversato da proteste e sollevazioni di corpi, basti pensare a Parigi, Hong Kong, Barcellona, Santiago, la stessa America negli ultimi mesi. Queste rivolte sembrano però mancare di una visione d’insieme e di una capacità di vedere una via d’uscita, un futuro diverso dal “Realismo capitalista”, una speranza di un mondo felice. La politica sembra ormai assente e impotente rispetto alle questioni fondamentali della terra. Quali spazi possiamo ancora conquistare? La questione del soggetto, indicata in un articolo di Foucault ormai 40 anni fa, rimane sempre aperta oppure siamo di fronte ad una trasformazione tecnologica, psichica e antropologica irreversibile dove è necessario cambiare strategie, forme di lotta e linguaggi?

Be’ il tema della soggettività non compare solo in un articolo di Foucault di quaranta anni fa, direi che parte significativa del pensiero tardo-moderno abbia posto il problema della soggettività, o piuttosto della soggettivazione.
Questo problema sta al centro della riflessione di Deleuze, di Guattari, e in modo assai diverso di Baudrillard. E poi tutto l’operaismo italiano mette al centro del discorso sulla lotta di classe un discorso sulla ricomposizione della soggettività operaia.
La nozione di autonomia alla fine si traduce come capacità della soggettività ad auto-determinarsi, a non subire interamente l’imposizione dell’identità.
Ma a parte questo io direi che certamente il quadro concettuale che abbiamo ereditato dal novecento è inutilizzabile. Soprattutto mi pare inutilizzabile l’idea di un’identità politica che corrisponde alla condizione di classe. Il fenomeno forse più disastroso degli ultimi decenni è il dissolvimento quasi totale della forza organizzata del movimento operaio, la dissociazione tra interessi sociali e identità politico-culturale. Come spieghiamo il fatto che la maggioranza degli operai bianchi americani ha aderito al trumpismo? Come spieghiamo che la solidarietà fra lavoratori si sia per gran parte sgretolata, e che i lavoratori del nord del mondo considerino le migrazioni come invasione del loro territorio? Beh, certo possiamo spiegarlo con la precarizzazione del lavoro, con la concorrenza che la globalizzazione ha scatenato all’interno della forza lavoro potenziale. Ma c’è una questione propriamente soggettiva, vorrei dire psicoanalitica, che sta al centro di questa trasformazione. È la questione dell’umiliazione. Mi pare che questa parola non sia mai entrata a far parte del lessico politico, e neppure tanto del lessico psicoanalitico. Invece è centrale, e va indagata.
L’umiliazione nasce dall’impotenza, dal sentimento di non poter essere quel che vorresti essere, di non poter fare quel che vorresti fare. Di umiliazione parla Gunther Anders nel libro L’antichità dell’uomo (Boringhieri). Per Anders la potenza della tecnica (che pure è un nostro prodotto) è divenuta fattore di umiliazione. Quando la tecnica produce la bomba atomica gli uomini sono umiliati da quel prodotto della scienza e della tecnica. Quando i cittadini greci votano al 62 per cento per il no al memorandum finanziario europeo, e poi Tsipras è costretto ad andare a Bruxelles per accettare il memorandum che il suo popolo ha rifiutato, quella è l’umiliazione prodotta dall’impotenza. E come si reagisce all’umiliazione?
Come hanno reagito i tedeschi all’umiliazione subita dopo il congresso di Versailles, nel 1919? Hanno reagito aderendo massicciamente al nazismo, perseguitando qualcuno che poteva essere umiliato perché era più debole di loro, i comunisti, gli omosessuali, i rom, gli ebrei.
È così a mio avviso che si spiega perché gli operai maschi bianchi americani appoggiano quel losco figuro la cui occupazione preferita è umiliare, pensiamo che Trump è diventato famoso per una trasmissione televisiva (The apprentice) in cui il suo ruolo era licenziare e umiliare dei poveracci che gli chiedevano di essere assunti pur di comparire in televisione.
L’impotenza produce umiliazione e l’umiliazione produce vendetta, desiderio di vendetta. E la vendetta è cieca, non vuole sentire ragioni.

Spesso nel tuo ultimo libro fai riferimento all’America, alle barbarie e alle devastazioni in atto in quel paese, Trump e tutto quello che rappresenta, il suprematismo bianco, la sanità pubblica a pezzi, la povertà di intere periferie, la guerra economica e tecnologica USA-Cina, l’inutile e falsa opposizione dei democratici che ha estromesso Sanders dalla competizione elettorale, le rivolte e i disordini di questa primavera. Al di là dei facili entusiasmi sulla vittoria di Biden, cosa sta succedendo in America e che influenze avrà l’esito di questa “guerra” in corso negli Stati Uniti sul resto del mondo?

Quel che sta succedendo in America si può descrivere come un processo di disintegrazione sociale, un processo che pare avere carattere inarrestabile e irreversibile. Il fatto che 71 milioni di persone abbiano votato per Trump vuol dire questo.
Trump non è un’eccezione imbarazzante, un fenomeno marginale. È la verità profonda della storia nord-americana, che ora comincia a finire. Ma come finirà non possiamo saperlo, e soprattutto non possiamo sapere quali effetti avrà a livello globale la guerra civile che sii sta già svolgendo.
Teniamo conto del fatto che il paese sprofonda nel contagio e sprofonderà nella recessione. E non ci sarà nessun governo capace di governare, perché Biden avrà contro il Senato e la Corte suprema.
Che influenza ha questa situazione sugli equilibri geopolitici? Bella domanda. La Cina sembra proiettata verso una vittoria strategica. E i russi mandano navi nello stretto di Bering dove il ghiaccio si è sciolto e si apre la gara alla colonizzazione dell’Artico, e Putin non ha intenzione di lasciarsi scappare l’occasione di un’America paralizzata.
Può il sistema militare americano accettare una disfatta così plateale, o deciderà di fare da sé, mentre il sistema politico è bloccato?
Quando parliamo del pericolo di estinzione pensiamo al global warming, ma non trascurerei un altro scenario. Prima del cambio climatico ci potrebbe ammazzare un regolamento dei conti militare.

La tecnologia digitale, l’uso incondizionato dei social e delle applicazioni, la potenza economica e pervasiva di Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft (per non parlare della tecnologia della Cina) ha trasformato ormai il nostro modo di essere, leggere, scrivere, pensare e relazionarsi con l’altro. Una delle battaglie decisive in corso è proprio quello dell’accesso alla conoscenza, che al momento sembra vinta dalle grandi piattaforme digitali, dal mondo della grande finanza e persino dalla destra sovranista che sfrutta fake news e bombardamenti mediatici su migrazione e sicurezza. Ma, nonostante questo flusso ininterrotto di informazioni e queste mondo digitale pervasivo, bisogna continuare a credere nel ”sapere scientifico accumulato, nella viva potenza del lavoro cognitivo, nell’invenzione tecnica e nella parola poetica”. Si può credere ancora nella tecnologia? Possiamo capire, insieme ai più giovani, che “siamo chimici, fisici nucleari, medici, agronomi, neuroingegneri, virologici, biologi, informatici e che non possiamo più difenderci con dei pezzi di legno…” Possiamo davvero ritirarci, fuggire e allo stesso tempo prepararci a diventare consapevoli della nostra potenza di creazione?

Mi fate delle domande alle quali non so rispondere, mi scuso.
Io credo che per i prossimi anni dovremo assistere, impotenti, a un processo disgregativo con momenti esplosivi.
Pensiamo solo alla questione del deficit, del debito, pensiamo al venir meno della stessa funzione monetaria di fronte al virus, che non è riducibile alle categorie astratte dello scambio perché attacca alla radice le condizioni stesse dell’economia.
Pensiamo al moltiplicarsi dei focolai di guerra (dalla Libia all’Armenia, al confine greco-turco, all’Etiopia…).
Non mancano le rivolte, ci sono state rivolte dovunque nell’autunno del 2019 e nel 2020 nonostante la pandemia le rivolte si sono ripresentate nelle città americane. Ma non riescono a coagularsi in una forma strategica efficace.
La prima cosa che dovremo fare nei prossimi decenni è creare spazi di sopravvivenza frugali ed egualitari. Surfare sulla cresta dello tsunami. Primum vivere deinde philosophari. Ma se ci limitiamo a sopravvivere e non sappiamo in che direzione andare qualcuno si ricorderà che “navigare necesse vivere non necesse est”.
Cosa viviamo a fare se non sappiamo in che direzione andare?
La seconda cosa da fare è quindi immaginare come uscire dagli automatismi tecno-linguistici attraverso i quali si riproduce il capitale.
Redistribuzione delle risorse, produrre per l’utilità collettiva e non per l’accumulazione. Queste sono le linee che emergeranno. Ma solo durante lo sconvolgimento che lo tsunami sta producendo e continuerà a produrre si potranno sviluppare queste linee.
È chiaro che il primo obiettivo è quello di una redistribuzione delle risorse a livello planetario, ma questo significa qualcosa che a livello politico nessuno è in grado di imporre, di realizzare.
Redistribuzione significa ad esempio: riparazioni economiche del danno che il colonialismo ha prodotto nel mondo, e del danno che lo schiavismo ha prodotto (e continua a produrre) nella popolazione afro-americana.
Ma la redistribuzione è al contempo assolutamente necessaria per evitare l’Olocausto globale, e assolutamente impossibile dal punto di vista delle soggettivi politiche. Pensate che basta dire la pargoletta “patrimoniale” per essere additati come terroristi comunisti anarchici.
Per questo credo che solo il pieno dispiegarsi dell’apocalisse renderà possibile quel che appare indispensabile ma al momento del tutto improbabile. Occorre aspettare che il virus faccia tutto il suo lavoro di disintegrazione, e che la recessione produca gli effetti di immiserimento e di guerra che deve produrre per poter assistere all’emergenza di una soggettività collettiva capace di immaginare e realizzare un progetto. Ma forse è già troppo tardi, o forse no. Questo non possiamo saperlo, questo io non lo so.

 

Franco “Bifo” Berardi è scrittore, filosofo e agitatore culturale. Il suo “Fenomenologia della fine” è uscito nel 2020 per NERO Edizioni.

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