Aspri scontri su corpo e mente di Silvia Romano
“Nessuno può prevedere dove arriverà un desiderio contrastato”
(Laclos)
La vicenda di Silvia Romano costituisce una serie di chiavi di lettura nell’abituale procedura di lapidazione digitale alla quale vengono sottoposti i bersagli dei social e dei media. Usiamo queste chiavi per leggere in prospettiva l’evolversi di alcune dinamiche di potere o di pressione da parte di ciò che è definito come opinione pubblica.
1) Il corpo diplomatico di Silvia
Comparando le ricostruzioni emerse sul rilascio di Silvia Romano appare evidente quanto sia stata elaborata la mediazione, tra più soggetti, che ha permesso il rilascio della cooperante rapita in Kenya. Una mediazione tra bande, tra bande e servizi e, soprattutto, tra servizi italiani, turchi e somali. Un complesso lavoro diplomatico sul corpo dell’ostaggio che, da parte dell’Italia, ha anche guardato ad un futuro di buoni rapporti con la Turchia in Libia dove il nostro paese ha perso influenza ma mantiene interessi. Questo non deve stupire: i rapimenti, dalle società premoderne, sono un processo di ridefinizione di rapporti economici, politici e diplomatici e hanno spesso effetto in dinamiche complesse anche a molta distanza dall’epicentro, fisico e culturale, degli eventi. La rappresentazione dell’avvenuto rilascio di Silvia Romano ha tenuto conto di tutto questo, a parte qualche colpo di gomito dietro le quinte tra i protagonisti: spazio mediatico per i titolari politici del rilascio, menzione del ruolo dei servizi somali e turchi, gioia della famiglia di fronte alle autorità italiane, spot per i rapitori della Romano attraverso l’esibizione di Silvia vestita in abito tradizionale e la rivelazione sulla sua conversione all’Islam. Del resto, nell’aspetto diplomatico, c’é sempre anche da tenere conto di diverse necessità di esposizione mediatica, in questo caso da Roma alla Somalia. Il corpo diplomatico dell’ostaggio, oggi, è più spettacolare che mai: dai media ai social e ritorno.
2) Scontro religioso su corpo e mente di Silvia Romano
E’ qualcosa più di un’ipotesi, dopo anni di biografie e report sui sequestrati delle Jihad, il fatto che il trattamento di Silvia Romano da parte dei suoi rapitori sia stato molto duro e, potenzialmente, anche estremo. Questo rapimento, presentato a lungo come essenzialmente economico, ha invece un protagonista politico sul campo, Al Shaabab, organizzazione della Jihad somala che ha saputo resistere negli anni a molti attacchi di varia natura. Al Shaabab ha una propria politica di cooptazione delle donne che, grosso modo, si riassume così: durissime condizioni di “integrazione” nelle aree occupate dalla Jihad somala in cambio di protezione, ruolo militare e aiuto economico alle famiglie somale che concedono le loro giovani alla lotta armata. Lo spettacolo della dichiarazione pubblica di Silvia Romano di conversione all’Islam, circolando in tempo reale sui social somali, è stato un grosso successo di propaganda di questo mondo. Altro che fatto privato, come confusamente affermato da chi voleva parare i colpi della lapidazione digitale di Silvia sui social, un fatto pienamente politico, di legittimazione esterna di un mondo. Legittimazione dopo la quale si è aperto lo scontro religioso. La CEI, conferenza episcopale italiana, dopo la notizia della conversione di Silvia Romano all’Islam, ha infatti subito affermato “è una nostra figlia”. Si è così aperto lo scontro sull’attribuzione religiosa di Silvia Romano, corpo, mente, parole ed atti, tra islam combattente e chiesa cattolica romana. Non è una questione di poco conto anche fuori dall’Italia, si pensi all’immagine che hanno assunto gli operatori cattolici della cooperazione internazionale in questo momento. Come in tutte le questioni religiose c’è sempre poi una coda in materia di morale e di diritti: cosa è oggi la volontà secondo Silvia Romano? Qualcosa che è condizionato da una situazione da estorsione radicale, come avvenuto per la conversione all’Islam, oppure qualcosa sulla quale non si può sindacare in alcun modo appartenendo comunque alla sfera dei diritti di espressione della persona?
Su corpo e mente di Silvia Romano la battaglia è quindi aspra: religiosa, locale, globale e che investe la sfera della morale e dei diritti. Confermando quanto affermato prima: i rapimenti producono effetti politici, e sociali, che vanno ben oltre il luogo in cui sono avvenuti
3) Scontro tra reti digitali su valorizzazione e denigrazione di Silvia Romano: tra appartenenza e riflesso politico
Sono passati più di dieci anni dalla pubblicazione italiana di Comunicazione e potere di Manuel Castells eppure, spesso, si fa fatica a cogliere cosa significa, in termini di aggregazione sociale e potere, la continua produzione di valore simbolico dai fatti di cronaca operata dai social. Rimane spesso oscuro un fatto importante ovvero la loro ragione costitutiva: i social sono reti tra persone la cui importanza, di diverso tipo, è determinata dal valore simbolico generato attraverso la comunicazione in questo genere di reti. L’appartenenza, la capacità di generarla o di toglierla, è uno di quei processi di comunicazione digitale che valorizza le reti che si sono costituite. Questo spiega come le reti digitali, spinte anche da fenomeni di conclamato clickbaiting (valorizzazione economica), si scelgano periodicamente personaggi da valorizzare o da denigrare come Boldrini, Carola e ora Silvia Romano. Perchè il valore identitario di queste reti è utile: non solo in termini di relazioni sociali ma persino economici. Quindi se avvengono rapimenti, come per Silvia Romano, le reti, che vivono di relazioni identitarie processando notizie, si agitano. E accade, nel mondo social e digitale, qualcosa che è già avvenuto nelle dinamiche di rapimento delle società preindustriali: non solo diplomazia ma anche esecrazione collettiva della vittima del rapimento (per deprivarla di valore ed esaltare i propri) o, al contrario, valorizzazione del suo comportamento. Le reti sociali, in una società differenziata come la nostra, si comportano nel mondo digitale modo simile alle aggregazioni preindustriali di fronte a un problema sostanzialmente simile: far tenere, o far crescere il gruppo, di fronte ad un evento tellurico come un rapimento, attraverso dinamiche di esecrazione o di valorizzazione. Figuriamoci cosa accade, quando oggetto di rapimento è una donna, genere che, a lungo, è stato “bene” di scambio e moneta per la circolazione di ricchezze anche per un tratto di società industriali. La lapidazione digitale di Silvia Romano è avvenuta in questo frame antropologico, valorizzando una vasta connessione tra reti aggressive e generando una risposta, in termini di valorizzazione, contraria da parte di una altrettanto vasta connessione tra reti legate a pratiche e un simbolico. Un segno di tutto questo non sono solo le infinite discussioni che ha generato – su parole, corpo, gesti, intenzioni, idee – ma anche i meme che oggi rappresentano la versione digitale della spontanea iconografia popolare. Il riflesso politico di vicende come quella di Silvia Romano riguarda il consolidamento o lo spostamento di consenso, misurato poi nei sondaggi, che i social e i media tradizionali producono. Certo, a destra, vedi l’organizzazione del consenso sui social da parte di Salvini, c’è maggiore capacità di stare dentro questi fenomeni in modo organico mentre, a a sinistra c’è molta difficoltà ad uscire dal piano della reazione spontanea. In ogni caso le reti digitali processano l’informazione per costruire valore simbolico, tenuta di gruppo che hanno riflessi sia sociali che politici. Il rapimento è uno di questi fatti processati da questo genere di valorizzazione. Poi, il fatto che la politica, che vede già indebolita la sua presa sulla società, si appoggi su questo genere di fenomeni -potenti quanto instabili e conflittuali – altro non definisce che la classica situazione della barca che dà l’impressione di navigare mentre si sta solo facendo trascinare dalla corrente.
In politica per esistere tutto deve avvenire sui media, come la demenziale accusa di terrorismo islamico, o in rete – dai tentativi di degradazione simbolica della figura di Silvia Romano alle discussioni accese tra femministe: in questo modo non si fa che rafforzare questa metafora, del legame tra social e media come corrente, formata da instabilità e criticità, intesa come manifestazione di forza incontrollabile che prende sia i contorni della discussione della sfera pubblica che quelli dello scontro neotribale. Il corpo diplomatico di Silvia Romano, gli aspri scontri religiosi sul suo corpo e sulla sua mente, il nervoso agitarsi dei social media nel processare la sua vicenda per produrre identità e affiliazioni, ci rivelano la consistenza di questa corrente fatta di nuovi conflitti che rielaborano scontri che vengono da lontano, dal mondo preindustriale. Rivestendoli in forma digitale.
Per codice rosso, nique la police