Novelle

D-Alpha-Nag

(Riproponiamo di seguito un racconto di Paolo Lago già uscito su “Il Pickwick” il 14 maggio 2017)

Per poco una mareggiata non mi investì in pieno. Camminavo sul mare e guardavo lontano, all’orizzonte, dove le ondate parevano animalesche schiene irsute che danzavano contro la luce squillante, tenebrosa, elettrica, che spaccava le nuvole ad ovest e si insinuava verso i golfi cittadini, striati di luci. Le ultime da Cape Canaveral non lasciavano dubbi: era una questione di mesi, ormai – e quindi di giorni – e il meteorite ‘D-Alpha-Nag’ avrebbe impattato contro la Terra. Tennyson era stato perentorio: “succederà un gran caos”. “Cavolo, Tennyson – avevo ribattuto – altro che caos.. vi sarà ben più di un caos!” Ed era un gran caos già in quel pomeriggio sul lungomare, lucidato dal vento e dalle mareggiate, infilato in quella luce giallastra da tropici intristiti, come se qualcosa di freddo e di crudele dovesse accadere da un momento all’altro. Ma nessuno sapeva. Né Tennyson, né Gropius avevano lasciato trapelare nulla. Le colline brulicavano nel vento, già le prime luci della sera si accendevano su quelle striature verdi dei campi lontani mentre il mare infuriava ancora di più, mentre il mare pareva l’unico essere semovente a conoscere la verità. Il meteorite avrebbe colpito il mare, forse per questo lo sapeva, presagiva, sentiva le scariche di miliardi di forze incoscienti che si sarebbero sprigionate. Fra pochi giorni Tennyson darà l’allarme al mondo. Non saranno più solo quelle facce biancastre e allucinate – come di matti tellurici – degli esperti del Pentagono e di Cape Canaveral a sapere la verità, ma anche gli altri tellurici folli terrestri, perduti nelle vaghe contemplazioni stellari e campestri, nelle varie nazioni, nei vari mondi e microcosmi, teddy boys, malavitosi, ragazze di vita come la vecchia Beverly, come la dolce strana Valery dagli occhi di fiamma, politici, dittatori in blu, lacchè di palazzo, intellettuali, filosofi, scienziati, chimici, biologi, storici, alcolizzati, paludati filologi, atei, agnostici, gnostici e cattolici, buddisti e animisti, immigrati dagli occhi di bragia, santuomini onorati, capi di stato, papi, ministri, cardinali, alcolizzati, gli impiegati della Engine Sparks rimasti senza lavoro, gli operai della Mounty Shell che rapirono i capi d’azienda per averli lasciati nelle fornaci a bruciare, gli innamorati, i lupi e i canarini e i cani del capitano d’Arce, l’uomo che sapeva troppo, l’argonauta Nemos, il cinghiale bardato Frank Ginus, Othello, George Karidian domatore di tigri, mr. Arkadin, il negro Zumbùn venditore d’ombrelli amaro e gabbato, Ellas on the Screen, il calciatore Jones, il filosofo mac Intosh, l’erbivendolo Echoes e i suoi talk show conosciuti non si sa come, Zorro e il corsaro scuro, Orson, il kebabbaro di Republic Square, i quattro mori ritratti da Natalino Otto, il professore dall’occhio di vetro, l’insegnante di religione e quello di disragione, Benny il carcerato che avevo conosciuto in una bettola nel ’10, il cuoco del Golden Angel finito dentro per droga, Navarro er torero, dentro anche lui, Bubi dal nero mantello, Sam O’Neill, Eugene scrittore di fiabe, lo spacciatore italiano, il mercante cinese, il tossico della Old Castle, i rivenduglioli di liquore della Venice, i frequentatori dei Bastioni estivi e i loro disk jokey, il cinefilo Zoe e sua figlia ubriaca, il portuale Peppo frequentatore di scoglio, le marionette tristi e i magici danzatori, l’editore prezzolato, gli APS, gli infortunati dell’INPS, i direttori dell’Enpas, i telegrafonici mattatori delle Poste, i cardinalizi riscossori d’imposte, gli addetti all’immigrazione clandestina, i guardiani mastini dei CAPICLAN (Campi Allestiti Per Immigrati CLANdestini) circondati di filo spinato, il cintolaio di Singapore ucciso dalle bastonate delle guardie del North East perché non aveva il permesso di circolazione, i nazisti dell’East Town, i postfascisti del Maryland, i simpatizzanti del Governo Attuale, gli oppositori, i politici corrotti, gli attraversatori di frontiere, i corrieri della droga, gli studenti dell’università della Scienza, il Palazzo delle Scienze, gli infermieri, i medici, gli avvocati delle Highlands, gli imprenditori di Italy Drive, i cadetti con le spade in culo, i carcerati di Elbatraz, i capicordata, gli alpinisti e i rapiti scordati, i soldati ammaliatori di figlie, i cordoni di polizia, i narcotrafficanti, i dentisti, i toreri del Pikkius Village.

Ancora poco e tutti lo sapranno. Questi pensieri mi attraversavano vorticosamente il cervello mentre ora quasi correvo sul viale a mare, diretto verso casa. Entrai, chiusi la porta e un suono metallico, lungo e incandescente mi colpì la membrana parietale del cervelletto. Era la nuova suoneria telefonica, acci sua. Risposi. Era Tennyson. Il giorno dopo sarei dovuto essere a Cape Canaveral, con lui, Gropius e gli altri tredici senzienti. “Altro che Canaveral” – disse Tennyson con la sua consueta ironia semi-insipida ma rugginosa e tetanica – fra poco qui ci sarà un Carnival, ma proprio funereo”. Abbassai. Il giorno dopo ero là, seduto intorno a un tavolo mentre Gropius, vestito di blu, impeccabile come sempre, ci spiegava, col suo solito tono pacato, le ragioni di quella scelta.

-Allora – disse Gropius – dobbiamo veramente renderci conto e, di conseguenza, fare i dovuti calcoli, di ciò che stiamo per annunciare al mondo. L’impatto con “D-Alfa-Nag” è previsto entro una manciata di mesi.. per adesso gli unici a sapere la verità siamo noi tredici Senzienti, gli scienziati di Cape Canaveral e gli esperti militari del Pentagono. Noi, come Senzienti, siamo i responsabili della Psiche Collettiva, dobbiamo trovare il modo di inserire nei cervelli dell’uomo l’idea che la sua specie potrebbe non esistere più. Siamo abituati ai poteri grandi, ai poteri forti; noi stessi siamo l’estrema falda di uno di questi poteri. Da tempo, come sapete, le guerre sono state debellate e viviamo in una sorta di pace narcolettica (noi lo sappiamo, siamo i senzienti) fra le tre grandi potenze economiche e politiche della Terra: l’Ameuropa, l’Afrasia, e l’Oceania. Di queste tre potenze, la prima, quella che noi adesso rappresentiamo, è la più potente poiché – solo per questo – è riuscita a riconvertire il sistema capitalistico in sistema edipico, quindi, sistema psicologico. Dopo le guerre contro i sedicenti terroristi arabi – risalenti ormai a molti anni fa – il capitalismo si è sgretolato su se stesso perché ormai non aveva più le sue solide basi, non aveva più uno scopo atto alla sua sopravvivenza e, in una situazione di pace il capitalismo come noi lo concepivamo non aveva più ragione di esistere. Esso si trasferì – ma voi tutto questo lo sapete – da un controllo di tipo economico a uno di tipo psicologico. E non crediate che questo sia stato un fattore negativo per l’umanità, anzi… la felicità apportata alle menti e alla vita sociale è stata grandissima, noi tutti ne abbiamo goduto, persino quella terra socialmente degradata che era prima l’Afrasia, quando i loro abitanti cercavano, a prezzo della morte, un rifugio presso di noi. Adesso, anche l’Afrasia è completamente avvolta dal “capitalismo edipico”; la ricchezza e il benessere hanno avvolto, nel loro candido mantello rassicurante, come un enorme psicofarmaco, tutte le città e gli ex-deserti di quell’immenso paese. Ma, quello che è avvenuto negli ultimi cinquanta- trenta anni è forse la causa del cambiamento di rotta di “D-Alfa-Nag”. Non sarò prolisso, non voglio esserlo per rispetto a voi, che sapete già tutto e tutto lo sapevano anche i grandi della Terra, nel vecchio assetto politico, quando esistevano ancora l’Unione europea, gli Stati Uniti d’America, la Russia, la Cina e le altre nazioni. Ma ora ricordare quel tempo mi provoca quasi un fremito. Un fremito di disgusto. Allora essi lo sapevano ma, come si suol dire, facevano finta di non saperlo. Allestivano, come grandi baracconi da circo, vertici mondiali sulla salute del globo, sull’inquinamento, sui gas serra.. Kioto, Lisbona, Copenhagen… ma tutto era una grande copertura per poter muovere denaro unicamente finalizzato all’acquisto di materiali bellici. Per la guerra al terrorismo. L’unica idea era quella di far progredire un capitalismo avanzatissimo, che si fondava sulla guerra. La salute del mondo era solo una piccolissima scusa per finanziare ulteriormente la causa capitalista. Se, quindi, da un lato è stato completamente trascurato l’ambiente e si è continuato a costruire centrali nucleari, giganteschi impianti per la conservazione del gas (e sia le centrali nucleari che tali impianti provocheranno – quando si verificherà l’impatto – un aumento dei disastri pari al 30 %), stabilimenti industriali con materiali nocivi, automobili, a miliardi di miliardi, prive dei più elementari sistemi per evitare l’inquinamento, aeromobili sempre più veloci e sempre più inquinanti, e, poi, non è finita, si sono divelte montagne, distrutte foreste (la foresta amazzonica è stata completamente distrutta per fare posto a una delle più importanti centrali produttive del “capitalismo edipico”), prosciugati fiumi, si è sostituito quasi completamente il ghiaccio dell’Artide e dell’Antartide con ghiaccio artificiale, si sono livellate montagne per far posto a nuove centrali produttive…. E poi, soprattutto, si è emessa nell’atmosfera una quantità incredibile di radiazioni mortali (ma questo nel 2010 non potevano saperlo) sprigionate dalle armi, dai jet, dai blindati utilizzati per le guerre in Iraq, in Afghanistan e per tutte quelle migliaia di guerre ‘nascoste’ che i grandi del pianeta sapevano bene occultare… come sapevano bene occultare le loro vere finalità ai vertici per l’ambiente.. ma non vorrei tediarvi adesso a raccontarvi cose che voi sapete già.. che, oggi, tutta l’umanità sa già e vive così bene rassicurata psicologicamente. Credete, soffro molto a dover lacerare questo mantello di sicurezza col quale le menti dell’uomo si sono avvolte.. sembrava destinato a durare in eterno, se non ci fosse stato “D-Alpha-Nag”… un piccolo corpo celeste, una di quelle stelle che i poveri poeti terrestri una volta, tanto tempo fa, cantarono… oggi non esistono più, stiamo talmente bene che non abbiamo più bisogno delle loro parole, né della letteratura o di altre forme d’arte… ciò che ci resta sembra qualcosa di lontano, sconosciuto, abnorme, una fucina di mostruosità costruita da esseri primitivi. Ma non voglio perdermi in ciance. Noi, abituati ai poteri forti, abituati ai tre Condottieri dell’umanità, i comandanti supremi delle tre grandi Nazioni, i tre grandi “Psicologi del Bene” (dei quali solo il nostro, cioè il Condottiero dell’Ameuropa, conosce la verità riguardo al meteorite), dobbiamo essere forti anche di fronte a un potere sconosciuto – che sfugge alle nostre regole costruite geometricamente, ai nostri poteri preordinati e alla nostra vita irreggimentata da regole provenienti dall’alto – un potere oscuro, che giunge dall’oscurità di quello spazio che mai la mente umana ha voluto più investigare, chiudendosi nel suo gigantesco utero terrestre, un potere rivestito del mantello della notte. Dobbiamo assumere questo potere nelle nostre menti e, per la prima volta, dobbiamo cercare un sistema per sconfiggere il potere. So che questo vi potrà sembrare incredibile; noi, nati e cresciuti nel potere del “capitalismo edipico”, incapaci di resistere a qualsiasi potere perché sappiamo benissimo che il potere coincide col benessere e con la lietezza, come in un eterno giorno primaverile che ci carezza il cuore, dobbiamo adesso contrastare il potere di un qualcosa che non conosciamo, che l’umanità si è rifiutata di continuare a conoscere. Quelli che ci hanno preceduti hanno predisposto la nostra rovina. Adesso, che non conosciamo né guerra né inquinamento e che il nostro mondo così bene si regge sulla pace e sulla tolleranza della pace della psiche, dobbiamo armarci di nuovo e, per di più, contro una forma di potere. Tutti noi ricordiamo le ultime forme di protesta del vecchio mondo, le manifestazioni, la gente in piazza ma quelle non erano che il preambolo della pace generale. Infatti, nessuno di noi lo sapeva allora – eravamo giovani alla fine del secolo scorso, ma neanche i meno giovani lo sapevano – che tutte quelle manifestazioni contro il potere altro non erano che manifestazioni di quello stesso potere. I detentori di quest’ultimo, sebbene in una forma molto primitiva rispetto a quelli attuali, erano riusciti a manovrare le coscienze e a volgere a loro favore qualsiasi forma di dissenso, le quali non facevano altro che rinforzare di più il potere ufficiale. Ma non starò a ricordare queste cose. Il mio compito, qui, adesso, in piedi di fronte a voi seduti intorno a questo tavolo, è spiegarvi le ragioni di questa scelta, cioè di rivelare il pericolo imminente a tutta l’umanità. Per prima cosa, è necessario che tutti sappiano. Anche se ciò va contro le regole del “capitalismo edipico”. Noi stessi abbiamo dovuto fare un lungo training mentale per arrivare a comprendere. È importante che tutti sappiano perché tutti, insieme, devono collaborare al piano di difesa. Dobbiamo anche cercare di non infondere nell’umanità un sentimento da tempo sconosciuto, cioè il panico. Dobbiamo poi impedire che le lobbies criminali che continuano a sussistere in certi luoghi degenerati dell’Afrasia e dell’Oceania, eredi diretti dei vecchi uomini di potere, approfittino della catastrofe imminente per incentivare i loro loschi piani. Il nostro, perciò, sarà un compito delicatissimo, dobbiamo far sapere, dare la conoscenza dell’oscurità, dobbiamo rivelare che esiste qualcosa di oscuro che giunge a perturbare l’ordine uterino della Terra –

Ciò detto, Gropius si rassettò la giacca blu, ci guardò tutti negli occhi, uno per uno e stette un attimo in silenzio. Io guardavo Tennyson, seduto proprio di fronte a me: il suo sguardo acquoso, quasi inebetito, come un perenne ubriaco, fissava un punto morto del tavolo scuro; Maggie, alla mia sinistra, fissava Gropius negli occhi, decisa – almeno apparentemente – a svolgere con rigore e serietà il suo delicatissimo compito di Senziente. Il mio sguardo allora si portò verso la finestra: desideravo uscire da quella stanza, desideravo di nuovo essere per le strade, fra i palazzi, nella luce incerta serale; desideravo lasciare quella stanza e quei visi bluastri dei miei colleghi senzienti. Come se Gropius mi avesse letto nel pensiero – “ho finito – disse – ora torniamo a casa e riflettiamo sulla decisione. Scusatemi se vi ho annoiato; ci terremo in contatto telefonicamente”. Tutti si alzarono, feci in tempo a vedere con la coda dell’occhio Tennyson che seguiva Maggie col suo passo balbettante e anch’io ridiscesi in strada. Percorsi tutta la via principale finché non rifui di nuovo sul mare, di fronte alla statua di Freud, enorme, colossale, salmastroso animale, nello stesso identico punto dove, un tempo, quattro poveri mori di bronzo ti guardavano con eterna implorazione.

Per il momento mi ero salvato. Reduce da un’affabulazione di sogni, di intrichi sognati e onirocritici, mi stavo appena riprendendo. Dora era andata via, aveva portato lontano dalle stanze blu di questi ultimi anni i suoi capelli colore del grano, i suoi occhi verdi nati dalle spume del mare di queste tempeste. Erano giorni di incontrollati sogni e bisogni. Ma credo che quella stanza austera, quel tavolo oblungo, Gropius nel suo doppiopetto blu, Tennyson semi-ubriaco, Maggie serrata in uno sguardo drogato, gli apparati, quei nomi assurdi, il Cape Carnival di quella sera fossero pura realtà. Neanche la Psiche Collettiva riusciva a consolarmi. Tennyson, dio, Tennyson, almeno lui aveva la sua Velvet Blu… se era triste si metteva al volante della Velvet e sorrideva. Ricordo un viaggio che facemmo insieme, in una giornata di pioggia. I tergicristalli ansimavano pesantemente sul vecchio vetro, il rumore dei marchingegni regolati al massimo era diventato un tutt’uno con lo scroscio di pioggia insistente, spasimante e allucinante che ci invadeva ogni dove. Forse era aprile. Si, era aprile, era uno degli ultimi giorni in cui vidi Dora, raggiante, splendente di oro e di verde in un acquazzone, coi capelli bagnati, col sorriso di fiamma, che mi guardava in una strada dai riflessi settecenteschi. Pioveva forte, il cielo però era quasi sereno e le spade dell’aprile ferivano i fianchi. Basta. Era lo stesso aprile in cui ero in macchina con Tennyson, si tornava dalla campagna dove avevamo fatto un’incursione escursione fra la pioggia rutilante. Tennyson fumava guidando e la cenere della canna appena rollata gli cadeva – ma che gliene fregava, allora! – sulla camicia e sui pantaloni. La birra l’aveva lasciata svuotata sul tavolo di una vecchia osteria, con un vecchio padrone che si alcolizzava di cielo. Com’era felice, lui, al volante della sua Velvet Blu, sembrava colore dell’estasi armonica di un suono lucente.

Io, invece, ero lì, nella mia stanza, mentre oggi il telefono non suonava, non brulicava nell’anima quella suoneria algente e rampicante. Non avrebbero chiamato né Gropius né Tennyson né Dora. Soprattutto Dora. Tu non ricordi la casa di questa mia sera, Dora, forse è meglio così. Nemmeno io.

Rifui in strada. Non avevo la Velvet. Camminavo. Lucide nuvole si stancavano troppo a correre dietro a raffiche di libeccio a 200 all’ora. Ero fregato dall’esistenza. Riuscivo a sentire impeti nuovi. Cosacchi cavalcavano su cavalli indiani, portando dei secchi sulle pianure d’argento, sulle montagne innevate, sulle baite degli uomini azzurri. Era puro il cielo quel giorno. Puro come le nostre coscienze edipiane o ulipiane. C’era silenzio, non potevo resistere. Finii quel giorno in una bettola semisconosciuta, in un bicchiere di d-drug. A annegarmi.

Per il momento mi ero salvato. Fu Tennyson a riportarmi a casa, nella sua Velvet. Mentre precipitavo con la testa sul mio bicchiere lo avevo giusto intravisto, seduto a un tavolo nell’angolo a est, a sorbire birra della grate full dead. Ripresi conoscenza e Tennyson, di fronte a me, declamava con magniloquenza e serietà – quasi con preoccupazione – (e non esagero a dire che pareva Gropius nel suo discorso di ieri) le virtù della birra artigianale che distillavano in quel locale. Altro che bettola semisconosciuta, cazzo di caciocavallo, altro che! Quella era una delle migliori distillerie artigianali rimaste sulla costa ovest. La distilleria era dietro la casupola grigia, in un cortiletto che confinava col molo 7, un vecchio molo in disuso da anni, dove vedevi aggirarsi Harold col cappello da cow boy o Zumbùn col suo monile d’oro al collo, vestito da cruciverba, a sorseggiarsi Beverly che si sparava negli occhi. Sembrava di vederli, lì, nel molo tutti e tre, con Beverly che pareva la Suzanne di Cohen – Suzanne takes you down… – suonava la vecchia canzone e sapeva di sete e sudore. Insomma – continuava Tennyson – lo sai che lì hanno ben sette qualità di birre? La red sterenz, fatta con la castagna essiccata di quelle colline dal salmastro irrorate, la meditatio guli, chiara, dal sapore di castagna anch’essa, ma forte – ripeteva – forte, forte, cazzo! Da meditazione!  – Calmati Tennyson – meno male che l’ubriaco ero io, ieri sera, calma – dovetti pronunciare e sillabare, dal mio letto riarso. Poi – riprendeva – c’è la san nicoletto, speziata, all’anatra all’arancia, che servono anche calda, semiviennese, ottima nelle giornate di mistral; poi c’è una weiss, erede di quelle birrazze monacensi, sfiancate, che si chiama postumia, nel senso che è bella forte e disintegrata. Poi la red, red e basta, la più forte, a 12 gradi, che è la mia preferita. Proprio quella che stavo trangugiando ieri quando sei finito con la faccia nella merda che avevi davanti. Cosa bevevi? Cazzo! Se vai alla Artigianal Fake bevi la birra capito? Non quelle schifezze cocktailizzate. Aveva finito di parlare, Tennyson, e io mi stavo sollevando.

Che te ne sembra – ripresi- del discorso di Gropius? Riusciremo noi senzienti a trasferire e spennellare le notizie sulla faccia della terra? Credi che forse vi riusciremo? O resteremo come quei pedoni che camminano  sulla sottile striscia di marciapiede lungo i cantieri navali, laggiù, a Port Metal, dove vecchie carcasse arrugginite muoiono al vento del delirio lunare? Cosa ne pensi Tennyson?

Cosa ne penso? Cazzo! Mi chiedo, cosa ne penso? Io niente, cosa vuoi che ne pensi. Ieri ero lì e non ho sentito un accidente del discorso di Gropius, merda di cane randagio! Ero appena uscito dalla Artigianal Fake.. praticamente dal tavolo a est mi sono portato sul tavolo oblungo… niente di che… come se fosse lo stesso tavolo, per me non è cambiato molto.. due tavoli di felicità, di silenzi….

Come non detto, Tennyson – finii di parlare. Volevo restare muto per il resto del giorno. Il vento non era cessato e sferzava le finestre del soggiorno piagnucolante del mio appartamento. Sfogliavo una rivista di pubblicità in senziente. Vanno tanto di moda, tutti vanno al supermercato in senziente a riempirsi di fagocitante avvenire. Accesi una lampada e dissi a Tennyson che volevo star solo. Cinque secondi dopo sentii il motore della Velvet che squittiva come un cammello scuoiato. Probabilmente tornava alla Artigianal Fake. Cazzi suoi. Ammiravo il vento. Essere come il vento, divenire animale come il vento. Tennyson c’era riuscito, era un grande animale nel vento al volante della Velvet, rosacrociano della sua red.

Tennyson camminava sulla Avenue con passo rossastro, trangugiando il silenzio della metropoli intorno… trangugiava e pensava alle scarpe di Maggie in quel giorno sulla ventinovesima, scarpe da tennis del tipo leggero, da gran corritrice, come era maggie… lei correva dappertutto, sprizzava vitalità. Ora Tennyson si dirigeva verso la casa di Gropius – un piano alto in Cascon Road – e non sapeva proprio cosa dire. Si immaginava di essere in treno in un maggio dalle striature di tramonto, accanto a lui Alexandra leggeva un libro italiano, mentre dal finestrino scorrevano spiagge portoghesi e viuzze sul mare solcate da ragazzi con asciugamani, piccole famiglie che si perdevano nei paesini di fronte all’Oceano. Avrebbe voluto spiccare il volo, lui, adesso, sulla Avenue, e alzare la sua vecchia ala di gabbiano su quell’Oceano al di là del mare, al di là di tutto.

Gropius lo aspettava nel salone. Per arrivare fino all’appartamento di Gropius si doveva prendere un vector-ascensore, uno dei nuovissimi tipi, che ti portava in cima al gigantesco torrione metallico che costituiva l’edificio – uno dei massimi della Dragon-Bandell Corporation – dove c’era l’appartamento del super-senziente nonché suo capo. Il torrione inquietava sempre Tennyson: gli pareva di trovarsi di fronte a una sorta di Luna Park viaggiante fino a sconosciuti idroscali, verso stazioni aeree senza mezzi volanti, un torrione inquietante, da brividi come quello del film Blade Runner. Si, gli pareva di essere JF Sebastian che sale dal super-ingegnere insieme al replicante per giocare a scacchi. E Gropius proprio stava facendo un solitario di scacchi. Vestito di scuro, con una mantellina nera che gli dava l’aspetto di una sorta di nuovo Dracula, egli era fermo nel salone, nel silenzio più assoluto. “Tennyson ti aspettavo”, brontolò – e sembrava una voce proveniente dagli androni di un sotterraneo ineguagliabile. In piedi, nella sala semibuia, Gropius lo fece sedere. “Non è vero” – disse – “ a parte che quel pomeriggio eri ubriaco, Tennyson”… “Non è vero..” cosa? Rispose Tennyson con occhio baluginante. “D-Alpha-Nag” – fece Gropius – “è tutta un’invenzione, non esiste”. “L’avevo capito” – rispose – con occhio grifagno. Me l’aveva sussurrato un vecchio capitano di mare nell’orecchio mentre ero a sorbirmi una birra del tipo san Nicoletto, intorno al 25 dicembre, credimi, Gropius, quel lupaccio marino la sapeva lunga”. “Non scherzare Tennyson”; “te lo sto dicendo adesso, per la prima volta”. Non esiste D-Alfa Nag, non vi saranno impatti. È stato il Gran Senziente, il Capo dei capi a decidere la falsificazione. Per innalzare il suo potere perché il Gran Gruppo dei Paolos Oedipicos potesse  avere il sopravvento. Niente asteroide; il whisky è sul tavolo, serviti”. “preferirei la red sterenz ma ciò che è detto è detto”. Niente di tutto ciò, Gropius – fece Tennyson, e continuò: “e tu mi hai fatto salire fin sulla cima del tuo torrione schifoso che mette i brividi solo a pensarlo per dirmi che l’asteroide non esiste? Cazzo di budda rotto in culo al nano governatore! Lo sapevo già Gropius, lo sapevo già. Ma ti credi che mi fossi bevuto la favoletta dell’asteroide e quelle cazzate? Sparale meno grosse piscione!”. Detto questo Tennyson uscì e si ricatapultò nel vector-ascensore e riuscì sulla avenue. Basta. Eccheccazzo! Ci vuole una san Nicoletto elegante, dal piglio sicuro, una birra allucinata! E, salito sulla Velvet, si diresse a Port Metal. Gli mancava, Port Metal: quei grezzi, anonimi, innamorati, festosi, lupi di mare, grassi, magri, e anche belle ragazze cresciute sulla salsedine, dai nomi di dee… quei cantieri, quelle viuzze, quei campi d’umido autunnale, quelle botteghe cresciute sulla manganellaro road…..

Era un’estate dalle tinte rossastre. Credevo. Un’estate fatta di tetti e di lumi visti dall’alto, di città mediterranee che mi sorridevano troppo. Maggie l’avevo vista all’inizio dell’estate; di Tennyson non sapeva nulla. Quei senzienti mi avevano rotto; decisi di filarmela dal mio appartamentino piagnucolante in un eterno libeccio e presi una sorta di macchina volante per paesi mediterranei. Ora stavo salendo le scale di un edificio, in una città mediterranea d’Europa, per salire sulla terrazza. Vi era della musica, saranno state le otto di sera. Tutto intorno brulle colline spezzate a destra da una linea di mare che spuntava, rosso, fra i palazzi. Di fronte, ma proprio di fronte alla terrazza, il Partenone era un gigante solitario e abbattuto dagli acciacchi, un grande vecchio che andava illuminandosi nella sera nascente. Un po’ di musica sulla terrazza, qualche ragazza che parlava col barman in inglese, il barman, lui la sapeva lunga. Presi un cocktail e fumai una sigaretta appoggiato al parapetto. Infiammante quella striatura di tramonto, incredibili le luci bluastre che si andavano accendendo intorno al vecchio signore adagiato sulla collina. Un vecchio signore, forse nato dalla mano di Zeus, padre di Atena, la dea dall’occhio di civetta, la dea imperscrutabile come il diavolo sulle colline. Intorno, sotto, la città brulicava. Grida, canti suoni di mercati, di voci, di puttane nei vicoli, di magnaccia, di venditori, di turisti, di musiche ignote, di voci popolari dalle terrazze, di violetti concerti nel tramonto striato. Era quella la città che mi aspettava quella notte, così bluastra, così perfetta. E mai, ripeto, mai, avrei pensato, di lì a poco, di incontrare Tennyson alla bettola di Zorbas, di fronte a un piatto di souvlaki e vino bianco.

(fine prima puntata; la seconda puntata uscirà domenica 21 gennaio)