Il villaggio senza sonno
Quell’anno l’estate era veramente torrida e io mi trovavo ospite del mio amico Kostas Pagapokis presso il villaggio di Gattikòs, nell’antica e misteriosa isola di Creta. Kostas si era dovuto assentare per un po’ di tempo e mi aveva lasciato la sua villetta immersa nella campagna nelle cui stanze il vento si insinuava intrepido e silenzioso e gonfiava le tende come eterei fantasmi. Al mattino facevo lunghe scorribande nelle spiagge più belle dei dintorni mentre la sera amavo passeggiare nelle viuzze strette dei paesini che circondavano Gattikòs. Erano strade immerse nel silenzio della natura, rotto soltanto dall’insistente stridio delle cicale, un suono che sembrava provenire da invisibili sistri d’argento suonati da arcaiche e terribili divinità.
Durante una di queste passeggiate avevo scoperto una taverna sulla cima di una collina. Era un pomeriggio assolato, uno di quei pomeriggi in cui la campagna è immersa nel silenzio e per i sentieri avrebbe potuto aggirarsi solo il dio Pan in persona. Decisi di tornare alla taverna una delle sere successive e di fermarmi a cena. Per fare prima avevo preso la macchina di Kostas. Stavo procedendo quasi a passo d’uomo quando, sbucando improvvisamente da una casa, un bambino attraversò la strada correndo con lo sguardo imbambolato per andare a rinchiudersi in un’auto parcheggiata di fronte a casa sua, e per poco rischiai di investirlo. La madre, correndogli dietro, cercava invano di farlo uscire dall’auto. Ho notato subito qualcosa di strano nei loro movimenti: si muovevano a scatti, come automi senza vita. Non esagero dicendo che mi ricordavano i movimenti degli zombi che avevo visto in numerosi film.
Continuando la salita vidi un altro bambino che, sul ciglio della strada, mi fissava in modo strano, con lo sguardo intrappolato in universi lontani. Anche altre persone che incontrai nel villaggio si muovevano come automi, in modo robotico. Giunsi alla locanda e il padrone, un gigante di nome Zorbas, mi accolse in modo molto cordiale. Mi sedetti fuori, sotto una pergola, ma non potei fare a meno di notare una strana anfora che sembrava molto antica, su uno scaffale all’interno della sala. Chiesi a Zorbas di cosa si trattasse e subito, facendosi serio, cominciò a raccontare: “Quella è un’antichissima anfora sulla quale è raffigurata una strix, la strega del folklore dell’antica Grecia. Fu rinvenuta all’inizio del Novecento da un famoso archeologo inglese che, poco dopo il ritrovamento, morì in un misterioso incidente. Quello raffigurato sull’anfora è un essere terribile e in molti hanno pensato che quest’oggetto emanasse una sorta di maledizione. Mi venne regalata da un amico che la aveva acquistata per poco in un mercatino dell’antiquariato di Heraklion”.
“Ma – ribattei io – se un’aura di maledizione aleggia su quest’anfora, perché lei, Zorbas, ha scelto di tenerla nella sua taverna?”. “Vede, nonostante io appartenga all’antica terra cretese – disse Zorbas – sono un razionalista, considero queste antiche leggende come una serie di turpi invenzioni deliranti”. “Meglio così” – pensai – e consumai la lauta cena che Zorbas stesso mi aveva servito: souvlaki, maiale, insalata greca e un’abbondante dose di raki, il liquore che qui bevono come aperitivo e come digestivo.
Intanto era calata la notte, una notte oscura e greve come un mantello nero. Feci una passeggiata fino alla cima della collina dove vidi una chiesa ortodossa immersa in una luce verdastra, dalla quale sbucò, come un sacro e misterioso custode, un gatto nero. Mi accorsi che il tempo era passato e ormai era già notte fonda. Mi incamminai quindi sulla via del ritorno per riprendere l’auto parcheggiata vicino alla taverna. Mi aspettavo di trovare solo silenzio e la taverna ormai chiusa ma gli abitanti del villaggio, lo stesso Zorbas e gli avventori della taverna erano ancora tutti svegli e si muovevano in modo meccanico come tanti zombi. In special modo Zorbas si era lasciato andare a una strana danza dalle movenze meccaniche.
La mattina dopo mi svegliai con un gran mal di testa. Aperta la porta della villetta, trovai sullo zerbino l’anfora rotta e il gatto nero steso come morto. Era stato tramortito dalla rottura dell’anfora. Lo rianimai e lo rifocillai e, da quel momento in poi, divenne il mio gatto. Quest’ultimo mi aveva seguito o aveva saputo rintracciarmi annusando l’anfora dell’oste. Si aggirava spesso nelle strade vicino alla taverna ed era l’unico, forse, che aveva capito che quell’anfora rivelava ogni segreto a chi le domandasse qualcosa. Il gatto aveva scelto il suo padrone, che dunque ero io. Ma l’anfora come era giunta davanti a casa? Semplicemente aveva fatto strada al gatto volando in aria e, trovata la casa, aveva scoperto che poteva infondere i suoi poteri al gatto. Era stanca di vivere sulla mensola di una taverna il cui padrone la credeva un oggetto d’arredamento. Volle trasmigrare nel gatto e, infrangendosi come suicida sul muro, senza volere qualche coccio colpì l’animale tramortendolo e lasciandolo come ipnotizzato, posseduto da una nuova anima. Lui mi faceva le fusa e io lo accarezzavo. Avevo sempre desiderato un micio ma non sapevo che cosa mi sarebbe capitato. Interpretavo la rottura dell’anfora come avvenuta in questo modo: l’oste aveva voluto farmi un regalo e me l’aveva lasciata davanti alla porta, vicino al muro. Poi il gatto la aveva fatta cadere. Accidenti a lui! Beh, ora mi rimaneva il gatto. Nei giorni successivi venni colto da una leggera insonnia che cresceva però col passare dei giorni.
L’insonnia crebbe a tal punto che tutte le notti mi ritrovavo a muovermi in modo meccanico insieme agli abitanti del villaggio, colpiti dall’incantesimo dell’anfora. Mi recavo sempre alla taverna e, come un automa, anche io mi muovevo negli arcani passi della danza di Zorbas, mentre i musicisti continuavano a suonare senza posa i loro bouzuki. Fu grazie al provvidenziale arrivo di Kostas che venni definitivamente liberato dal villaggio senza sonno. Tornai a casa, nella città di Citorno, e portai con me il gatto. Tutto andò bene fino a una notte in cui, affacciandomi alla finestra, vidi che nel mio quartiere erano tutti svegli e si muovevano come inquietanti zombi. Solo allora mi resi conto che avevo contagiato il quartiere – e forse l’intera Citorno – con l’incantesimo del villaggio senza sonno. Spinto da una forza irrefrenabile e oscura scesi anche io in strada e mi accorsi che i miei movimenti seguivano la misteriosa danza di Zorbas. Il gatto mi fissava placidamente dalla finestra di casa mia, della quale era diventato il nuovo e misterioso custode.
Per Codice Rosso, Francesca Fiorentin e Guy van Stratten