“La chimera”: una fiaba ai tempi della devastazione
La chimera (2023) di Alice Rohrwacher si ambienta in un momento di transizione per l’Italia: l’inizio degli anni Ottanta, un periodo in cui, insieme a un’atmosfera tipicamente anni Settanta, cominciano ad emergere le tracce di una devastazione che, gradatamente, si sta allargando sul paese. Sono gli anni dell’economizzazione e della spettacolarizzazione delle esistenze degli individui e degli spazi che li accolgono, gli anni dell’edonismo e del qualunquismo, delle televisioni private e del berlusconismo galoppante. C’è una scena del film in cui si può notare una netta opposizione tra passato e presente, tra un passato che si trova sotto terra e un presente alla luce del sole: in una costa laziale devastata da discariche, raffinerie e industrie, il protagonista Arthur, insieme alla banda di tombaroli di cui fa parte, scopre delle antiche tombe etrusche ancora intatte, con splendidi affreschi che si dileguano (come in Roma di Federico Fellini) al contatto con l’aria esterna. Se il passato appartiene alla sfera del sacro, il presente è lo spazio della devastazione paesaggistica e culturale: non si esita, infatti, a violare le antiche vestigia in nome del tornaconto economico. I contemporanei (l’Italia dell’economizzazione avanzante) hanno devastato con discariche e raffinerie un tratto di spiaggia che era considerato sacro dagli antichi, un luogo scelto per la sepoltura.
Arthur, come il poeta Gorciakov in Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij, giunge, angosciato da feroci nostalgie e malinconie, in un paesino italiano, intento a ricercare – sembra – unicamente la bellezza estetica del passato (ad alcune ragazze in treno dirà infatti che il loro profilo assomiglia agli antichi affreschi etruschi) fino a configurarsi quasi come un antico cavaliere, protagonista di antiche canzoni popolari (e, in scorci di metacinema, un menestrello canta in ottava rima le sue gesta) oppure di una fiaba anacronisticamente ambientata nella contemporaneità. Arthur, probabilmente inglese, dopo essere uscito di prigione ritorna nella piccola comunità di un paese italiano dove era stato tempo prima ed è subito considerato come uno “straniero”; la sua diversità emerge anche in un particolare potere che lo caratterizza come personaggio per certi aspetti fantastico: quello, cioè, di riuscire a scoprire i luoghi dove si trovano le tombe antiche grazie ad un suo particolare rituale di rabdomanzia che lo fa sprofondare in un malessere fisico. Le stesse ambientazioni e gli stessi luoghi, indefiniti e tratteggiati in modo fantastico, sembrano del resto rimandare ad una fiaba cinematografica: il rituale paesano dei ‘befani’, certi momenti di festa comunitaria ancora non imbruttita dallo spettacolo, spazi marginali e baraccopoli tratteggiate come regge, ville semiabbandonate e stupende intrise di oggetti desueti e lontani, comunità femminili che vivono come in un incanto, fuori dalla brutale società patriarcale italiana. È uno spazio indefinito e fiabesco ma pur sempre intriso fin nel profondo della realtà di quegli anni: Arthur percorre strade deserte e periferiche sulle quali si stagliano i cartelloni pubblicitari dell’industria (la stessa delle raffinerie e delle discariche) che sembra monopolizzare la zona anche sponsorizzando sagre popolari e concerti mentre, alla fine del film, le baraccopoli vengono demolite sotto il controllo dei vigili urbani. Anche se non assistiamo alla spettacolarizzazione esasperata dello spazio, pure di quello più squallido e periferico, che ci racconta, ad esempio, Fellini in Ginger e Fred (1986), si capisce che la devastazione del paese si sta allargando a macchia d’olio, una devastazione che non conosce alcun rispetto per la natura, il paesaggio, i beni culturali.
Eppure, ed è questa una delle grandezze del film, non tutto appare perduto in questa distruzione perché sembrano ancora esistere sentimenti autentici, rapporti interpersonali ancora basati sulla fiducia reciproca. Molto intensi sono i momenti, già ricordati, in cui un poeta menestrello, accompagnandosi con la chitarra, canta in ottava rima le avventure di Arthur, rivisitate e proiettate in una dimensione mitica e fiabesca. In questi attimi, la combriccola di amici pare unita da sentimenti autentici e genuini, ancora mille miglia lontani dall’abbrutimento offerto dagli spettacoli televisivi e dal rampantismo della “Milano da bere”. Siamo in una fiaba che, insieme a quanto detto sopra, mostra anche il volo degli uccelli come un evento magico e misterioso scrutato con gli occhi antichi degli aruspici e che sembra una citazione di diverse sequenze di Uccellacci e uccellini (1963) di Pier Paolo Pasolini. Al di fuori della fiaba c’è però la realtà e, in quei primi anni Ottanta, la devastazione e la distruzione del paese non hanno davvero conosciuto nessun momento magico o incantato.
Per Codice Rosso, Guy van Stratten