Satira

La smerdification delle nostre città. Due passi per Venezia

La dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi, Venezia, la vende ai turisti.

F. Guccini, Venezia

 

Come sono capitato a Venezia, ahimè, è storia lunga. Venni allontanato e bandito da Ponciopoli poiché violai, non ricordo più in che modo, le sue regole (dovetti comunque farla grossa). Lì, nessuno più mi riconosceva, a cominciare dal boss della comunità, un simpatico ballerino di varietà. Addirittura, Ulderico, il karo mio amico, dopo il mio sgarro, incontrandomi per strada, cambiava direzione muovendosi a scatto, a guisa di ratto. Insomma, dovetti partire, e devo dire che mi sentivo come Ovidio esiliato a Tomi ferrigna da Augusto imperatore. Ma io mi trovavo a Venezia, la serenissima, e in fondo al cor l’avevo sempre amata.

Appena uscito dalla stazione di Santa Lucia, ad attendermi c’era Helmut. Mi aveva trovato un posto presso il gattile dei mici del ghetto, ove il gatto Eustachio benevolmente mi aveva accolto. “Caro Guy” – mi disse Helmut – “vieni, ti porto a spasso per Venezia e quando saremo nel ghetto anche Eustachio si unirà a noi”. Beh, cari miei, inutile dirvi che l’affaccio della stazione sul canale brulicava di una folle folla che aumentava ancora di più se ci si dirigeva verso il centro. Fu allora che vidi un essere altissimo, dai capelli verdi e gialli, ricoperto di pelose coperte colorate con in testa un elmo cornuto: camminando parlava in una lingua dalle germaniche tonalità. Poi una marea di giapponesi audacemente digitalizzati, con apparecchi luminescenti nelle loro dita. E poi, guardando il vicolo che sempre più stretto si faceva, vidivi dentro una terribile stipa di turisti frementi e di sì diversa ispecie, che la memoria il sangue d’orror mi costipa. Avanti, avanti, ancora avanti, sussurrava Helmut fumando il suo sigarazzo e così in breve ci ritrovammo nel ghetto. Ecco quindi Eustachio balzarci incontro, in modo elegante, vestito di tutto punto da spadaccino gattesco qual era, con sciabola e stivali, e con accento veneziano mi disse: “Ti aspettavo, ciò, benvenuto a Vinegia! Dal momento che sei apena arivato, io e Helmut ti volevamo far veder com l’è cambiata la cità in questi ani! Tuto quel che un tempo era vero, adeso l’è diventato finto, ciò!”. Uhmm, fatemi capire, si tratta forse della gentrification, in italiano gentrificazione? Fenomeno per cui un luogo originariamente autentico e popolare diventa finto, costruito a uso e consumo dei turisti. Ad esempio, il centro storico della Venezia attuale, probabilmente è stato costruito a tavolino, trasformato in ciò che il turista si aspetta di trovare. “Bravissimo!” – disse Eustachio – “è la gentrification, che meglio si potrebbe chiamare smerdification. C’è più m…. qui che nella mia lettiera. Pensa che hanno speculato anche sulla comunità dei gatti del ghetto: ci siamo trasformati in chincaglieria per turisti! In ogni negozio troverete poster e oggetti che riecheggiano i mici veneziani ma non troverete più un gatto in tutte le zone turistiche di Venezia! Noi adesso ci siamo allontanati e il nostro gattile, dove sarai ospitato anche tu, ormai si trova in una zona decentrata”.

Molto intelligente, pensai, questo Eustachio elegante e moschettiere, memore di gattare antiche ere! Insomma, continuammo a camminare per Venezia e Helmut continuava ad indicarmi alcuni luoghi che erano stati toccati dal processo di smerdification. La statua di Carlo Goldoni, grande poeta e uomo di teatro, occhieggiava d’intorno ormai completamente disperato. Grandi brand e marchi internazionali, dietro vetrine luminescenti, sfoggiavano ampi locali tirati a lucido che sembravano essere fatti di quella stessa materia digitale che usciva da smartphone e tablet, alla quale erano incollati gli occhi dei turisti. “Negozi e spazi così finti da sembrare veri” – aggiunse di sguincio il pervicace Eustachio, accendendosi una pipa di radica scura. “Grandi marchi tutti uguali, negozi tutti uguali” – disse Helmut sospirando – “e i nostri veri ricordi, i nostri veri spazi vanno a finire in un museo a cielo aperto. Ecco, guarda quell’ombrello finto attaccato all’angolo di quel vicolo! Sta a indicare che lì sotto c’era un negozio di ombrelli, punto di riferimento per tutti i veneziani. Nei giorni nebbiosi d’autunno venivam qua a comprare gli ombrelli a prepararci per gli umidi inverni, quando silenti erano i giorni e ascoltavamo la pioggia in silenzio. Guarda quella vetrina incastonata nel muro, Guy, guarda! Ci sono dei giocattoli, vedi? Ecco, lì sotto, al posto di quel grande brand di abbigliamento, c’era un grande negozio di giocattoli. Ricordo gli infiniti pomeriggi d’infanzia, passati a scrutare costruzioni di legno e pupazzi colorati, audaci automi a molla che riempivano le nostre ore bambine. E adesso ci son quelle maglie cretine per miliardari! E i nostri cari giorni lontani? Perduti, irrimediabilmente perduti, nei luminescenti pomeriggi d’aprile o in quelli oscuri di dicembre, quando incredibili mostri si affacciavano ai vetri, orchi di nebbia, di vento e di mare, a ululare per i nostri sorrisi. Nell’infinità del nostro tempo aspettavano mamme e papà carichi di nebbia, che tornavano da quel negozio pieni di doni e contavamo i loro passi, e immaginavamo il loro enorme viaggio in ogni angolo, in ogni curva, in ogni calle silenzioso per arrivare a casa e portarci i giochi desiderati, magari nascosti sotto pesanti cappotti graveolenti di umidità.

E poi le case, caro Guy. Quanti veneziani pensi che ancora abitino qui? Molte delle case antiche che vedi, immerse nei canali, condannate a illanguidirsi nel silenzio dei secoli, divenute navi ferme, bloccate, con le chiglie coperte di alghe, e i loro saloni imputriditi da sguardi nobiliari di altre ere, forse di nobili vampiri ormai stanchi, perduti in contemplazioni assenti, in notti a lume di candela, in quell’umidità puteolente, fra i loro stucchi, fra i loro specchi e quei quadri con volti di spettri inquietanti e impietriti, quei nobili signori che sapevano trasformare il silenzio delle loro ore notturne in carne e voluttà, in carnevali eleganti fra fiaccole e bucintori ornati di luce, con le loro eleganti maschere ambigue e sfuggenti, di mostri, d’incubi che aleggiano nelle ore più oscure, di dolcezza erotica infinita, di graveolente silente immobilità, con occhi che ti fissano con la follia di un assassino, come quella terribile assassina mascherata che cantò Daphne du Maurier e che vediamo nel film A Venezia un dicembre rosso shocking. Insomma, in quei palazzi morenti e disfatti, eleganti e superbi, bellissimi come l’oro del tramonto, quanti veneziani credi che vi abitino? È finita l’era dei nobili e dei signori che festeggiavano carnevali eleganti; ora quelle maschere sono diventate oggetti di plastica per i turisti, esposte a migliaia in quelle vetrine. Oggi quelle case sono quasi tutti bed and breakfast e alberghi e “airbnb” impera su Venezia e la trasforma in città merce, come scrive Sarah Gainsforth, in Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale (se non ci credete, leggete qui). Quei palazzi saturi di tempo, incrostati di tempo, immersi nel tempo, si stanno trasformando in non luoghi, in un artificio di plastica per il solo presente, da usare pochi giorni, dimenticare e gettare via. Ma non solo i palazzi eleganti del centro sono stati trasformati in alberghi e bed and breakfast, anche le case dei pescatori, dei lavoratori che sono stati costretti, per sopravvivere, a trasferirsi a Mestre, come il personaggio del pescatore Piero raccontato da Andrea Segre in Welcome Venice, costretto a lasciare la sua laguna per andare a vivere in mezzo al traffico di Mestre. E come racconta lo stesso Segre, commentando alcune scene del suo documentario Molecole (si può vedere qui), durante il periodo del lockdown del 2020, il centro di Venezia era spettrale, e per le sue vie si potevano incontrare solo i manichini degli eleganti negozi, perché una città senza abitanti, in un periodo in cui non ci vanno più i turisti, è solo uno spettro abbandonato a se stesso (come lo scenario del film Nosferatu a Venezia, dove Klaus Kinski vampiro volteggia sulla città) in cui i gabbiani urlano di dolore perché non trovano più il cibo.

Ahi, ahi, ahi, caro Helmut e io che mi immaginavo una location simile a quella del romanzo La morte a Venezia di Thomas Mann o del film di Visconti. Ormai Venezia sembra una città di plastica ma ancora luoghi autentici si possono trovare. Sono quelli più popolari, dove ancora riesce a sopravvivere qualche residente – mi dicono sia Helmut che Eustachio. E allora, dopo aver bevuto un meraviglioso spritz con select (una variante veneziana del Campari, buonissima), venni portato nel quartiere popolare del gattile del ghetto. Che meraviglia, signori miei! Che meraviglia! Il gattile era immerso in un parco circondato da muri antichi e il dolce colore del tramonto stava trasformando ogni cosa in un gigantesco spritz veneziano! Di turisti, qui, davvero, nemmeno l’ombra! Helmut, col suo sigarazzo aromatizzato all’anice, mi salutò, dicendomi che ci saremmo rivisti nei giorni successivi. Cominciavo la nuova vita insieme ai mici del ghetto, sistemato nella mia cuccia, mentre la notte stava calando. Silenzio tutto d’intorno: solo una dolce nenia, un canto d’incanto si levava fra le cucce dei miei amici mici. Cos’era? Una canzone perduta, di un tempo che non c’era più? No, era Eustachio che, con la sua chitarra d’altri tempi, intonava una dolcissima serenata per la sua micia dagli occhi blu.

gvs